domenica 17 agosto 2014

Il piatto di pasta: Spaghetti integrali con crema di verdure


di Antonietta Pasqualino Di Marineo
La maggior parte delle ricette che scrivo sono dolci. La motivazione è semplice; e forse l'ho anche già scritta: i dolci hanno più bisogno di una ricetta codificata, si devono misurare gli ingredienti e quindi, spesso quando li preparo prendo appunti.
Il piatto di pasta, invece, lo improvviso quasi sempre. In questo caso, però, avendo preparato una sola porzione per un pranzo solitario posso risalire agli ingredienti. L'ho cucinato qualche settimana fa, quando era ancora periodo di carciofi, ma ultimamente lo sto replicando con altre verdure (zucchina, melanzana), e il risultato è sempre ottimo. Una cottura "leggera" della verdura al vapore o in padella e poi frullata aggiungendo un filo di olio e delle erbe (prezzemolo, timo, maggiorana), abbinato alla pasta integrale credo che diventi quasi un piatto sano!
Spaghetti integrali con crema di verdure
Ingredienti:
carciofi 2 pz (zucchina, melanzana)
spaghetti integrali 80 g
olio evo
prezzemolo
- pulire i carciofi
- tagliarli a metà
- cuocerli a vapore
- frullare un carciofo aggiungendo 3 cucchiai di olio evo
- regolare di sale e pepe
- cuocere gli spaghetti
- condire gli spaghetti con la crema di carciofo
- disporre nel piatto e finire con l'altro carciofo (zucchina, melanzana) e il prezzemolo
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venerdì 15 agosto 2014

Tipica specialità estiva palermitana: Gelo di mellone (come prepararlo)


di Pippo Oddo
Questa tipica specialità estiva palermitana è una gelatina d’anguria di colore rosso intenso, che evoca l’aspetto, la dolcezza e la sensazione di freschezza tipica del gelato. 
Le sue origini sono incerte: c’è chi ritiene che siano riconducibili agli Alberesch che, “provenendo dall’Albania (sul finire del Quattrocento) si stanziarono in territori della Sicilia in cui ancor oggi vivono, mantenendo usi e costumi della loro terra natia e utilizzando l’abbondanza idrica delle zone in cui vennero a stabilirsi per la coltivazione di frutta bisognevole di grandi quantitativi d’acqua come appunto l’anguria”. Sembra però assai più probabile che questa fresca prelibatezza tutta palermitana sia comparsa in Sicilia ai tempi della dominazione araba, a giudicare soprattutto dai profumi di pistacchio e i fiori di gelsomino che si mescono a quelli naturali dell’anguria. Procedimento: preparare il succo d'anguria mediante lo schiacciamento della sola polpa in un setaccio, oppure in un passatutto, così da ottenere un poltiglia semi-liquida, priva dei semi. Versare il succo in una casseruola bassa e larga, poi aggiungendo la frumina a piccole dosi, ben mescolando in modo da non formare grumi, quindi incorporare lo zucchero. Un tempo ottenuto un composto omogeneo, porre la casseruola a fuoco basso e lasciarla per il tempo necessario a sobbollire, sempre mescolando con un cucchiaio di legno, oltre a qualche minuto per restringere e addensare. Togliere dal fuoco e con un mestolo inserire il composto nello stampo o negli stampini, generalmente di forma tronco-conica, lasciandolo raffreddare e compattare a temperatura ambiente e poi metterli in freezer per un paio d'ore. Ingredienti: succo d'anguria 1 l; zucchero semolato 100 g (la quantità di zucchero varia sensibilmente in rapporto alla dolcezza del frutto) frumina (amido di grano) 80 g. Varianti: moltissime sono le diversità nella preparazione del composto che, a secondo della zona o delle tradizioni familiari, possono contemplare l'aggiunta di vari ingredienti, tra i quali chiodi di garofano, cannella, fiori di gelsomino e la granella di cioccolato amaro; quest'ultima per imitare la presenza dei semi d'anguria.

giovedì 14 agosto 2014

Sul "Ristretto e miracoli di san Ciro" a cura del gesuita Francesco Paternò


di Nuccio Benanti
MARINEO. «Nacque san Ciro da pii e onorati parenti nella gran città di Alessandria, e fiorì verso la fine del terzo secolo della Chiesa [...] e parve predestinato dalla provvidenza».
Inizia con queste parole il Ristretto e miracoli di san Ciro, edito a Napoli nell’ormai lontano 1707, a cura del gesuita Francesco Paternò. Questo volume, considerato la prima biografia scritta in Italia «con lo scopo di propagare la devozione del santo con la storia dei suoi prodigi» (Raia 1902), è consultabile anche in formato digitale (sfoglia) grazie al Progetto Google Libri. Lo schema di svolgimento del racconto è quello tipico della letteratura agiografica. Nella prima parte, il protagonista riceve un’educazione cristiana. Superati gli interessi mondani, Ciro comincia a curare i malati gratuitamente. Infine, dopo essersi ritirato a pregare nel deserto, il santo viene sottoposto a prove, ostacoli e sofferenze, che sfociano in una morte tanto esemplare quanto predestinata, avvenuta il 31 gennaio del 303, al culmine di una persecuzione particolarmente violenta nella parte orientale dell'Impero. Il racconto, per ammissione dello stesso Paternò, venne compilato sia sulla base delle notizie tratte dagli scritti di Sofronio che dalle informazioni «dello stesso Bollando che con più pienezza de gli altri ne ha parlato» (Paternò 1707). San Ciro visse ad Alessandria d'Egitto nella seconda metà del III secolo. In particolare si interessò agli studi di medicina per i quali la città era famosa grazie all’opera di Galeno. Sofronio ricorda nei suoi scritti l’amore per la conoscenza che animava Ciro. Conoscenza non fine a se stessa, né, tanto meno, mezzo di arricchimento, bensì prezioso strumento per servire il prossimo. Difatti l’appellativo che gli venne attribuito fu proprio di medico anarghiro, senza argento, poiché gratuitamente prestava la sua opera ai bisognosi. Sostenendo che i mali fisici sono una diretta conseguenza dei mali spirituali, Ciro parlava agli infermi di Cristo e della religione cristiana, insegnando che le infermità dell'anima non sono le più gravi, ma di più fanno male al corpo perché in questo generano le malattie più pericolose (Prevete 1961). Negli anni dell’eremitaggio, Ciro mutò radicalmente il sistema di medicare i suoi pazienti. Non usò più farmaci o erbe, ma soltanto preghiere ed insegnamenti cristiani: «Gesù non dava delle medicine, ma dava la medicina, che era la sua Parola. E grazie alla sua parola i malati guarivano. "Ora dico: alzati e cammina". "Che cosa vuoi che io ti faccia", dice al cieco di Gerico. "Signore che io veda". E Gesù risponde: "Si lo voglio". Si lo voglio... Quindi c'è sempre una richiesta da parte dell'orante e un esaudimento da parte di chi ha il potere di guarire, che avviene sempre per mezzo della Parola» (Damigella 1999).

mercoledì 13 agosto 2014

Storia, tradizioni e culto della gloriosa Madonna col Bambino di Trapani


di Pippo Oddo
Considerata indiscusso patrimonio dell’umanità, l’immagine marmorea della Madonna di Trapani è un vero capolavoro d’arte finora attribuito allo scultore Nino Pisano, morto nel 1368. La data del suo arrivo nella città da cui ha preso il nome è tuttora ignota per mancanza di precisi documenti storici.
Sappiamo tuttavia per certo che la gloriosa statua è stata posta subito sotto tutela della Comunità dei “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo” meglio noti come Carmelitani. I quali, per sfuggire alle persecuzioni islamiche, a partire dal 1226 cominciarono ad abbandonare la Palestina per rifugiarsi in Sicilia e in altre parti del Sacro Romano Impero rifondato da Federico II di Hohenstaufen, lo “Stupor mundi”. A Trapani arrivarono attorno al 1240. «Dove i Carmelitani dimorarono subito dopo il loro arrivo a Trapani – si legge sul web –, non è facile stabilirlo con esattezza. Secondo alcuni storici, essi, per benevola concessione del Senato cittadino, si stanziarono in un primo momento presso la piccola Chiesa di “Santa Maria del parto”, costruita dai pescatori nei primi decenni del XIII secolo vicino l’antica dogana, alle spalle dell’odierna Chiesa dell’ex Collegio dei Gesuiti, accanto alle mura di tramontana della Città. Poi, il 24 agosto del 1250, ricevute in donazione per mezzo di un atto notarile dal notar Domenico Ribaldo e dalla sua prima moglie donna Palma Donores, trapanesi, una piccola cappella, dedicata all’Annunziata e le terre adiacenti ad oriente, fuori le mura cittadine, si trasferirono là per continuare nella quiete della campagna la loro vita comune in ossequio a Gesù Cristo come fraternità contemplativa sulle orme di Maria e di Sant’Elia, il profeta del Carmelo, eremiti non più pellegrini, ora mendicanti itineranti in Europa in mezzo al popolo. Questa data, scrive lo storico Carmelitano Gabriele Monaco (+ 1988) nella sua monografia “La Madonna di Trapani” (Edizioni Laurenziana, Napoli 1981), “sarà segnata a caratteri d’oro negli annali già ricchi di gloria del Santuario”. Al testamento su indicato, ne seguiranno altri: ad opera dello stesso Notar Domenico Ribaldo (8 agosto 1280) e della sua seconda moglie Perna Abate (4 aprile 1289), zii di Sant’Alberto, a motivo dell’ingresso di quest’ultimo nelle terre dell’Annunziata in qualità di religioso. Attraverso questo inaspettato e prodigioso avvenimento in seno alla nobile famiglia, verranno così offerti a favore dei Carmelitani altri possedimenti, per il loro sostentamento e per i lavori di ampliamento della primitiva Chiesetta. Così, per provvidenziale coincidenza, la storia del Carmelo trapanese inizia a legarsi indissolubilmente con la Famiglia degli Abate e, nel corso dei secoli, con altre famiglie nobiliari che, con il benestare e l’ausilio degli stessi sovrani succedutisi nel governo della Sicilia, favoriranno la realizzazione delle pregevoli strutture architettoniche e decorative del Santuario in gran parte giunte fino a noi grazie anche alle cospicue e pubbliche offerte di benefattori di ogni ceto sociale». Quando il futuro Sant’Alberto da Trapani (1240-1307) entrò tra i Carmelitani iniziarono a svilupparsi attorno al piccolo Oratorio dell’Annunziata «il primo vero e proprio Convento di cui, possiamo ben dire, il giovane erede dell’illustre famiglia degli Abate, diventerà il vero fondatore, almeno nel senso che ne favorì il consolidamento patrimoniale del Convento». E non si può escludere che il suo impegno per l’Annunziata «fosse ispirato al disegno di far del suo Ordine Carmelitano pienamente un Ordine Mendicante». Dell’originale cenobio del XIII secolo non rimane quasi nulla, eccetto un arco, una parete e «due piccoli frammenti scultorei, uno in tufo e l’altro in marmo raffiguranti il primo una scena di aratura e il secondo un frammento di architrave, residui, forse, di cultura bizantineggiante». Il santuario che ci è pervenuto è stato realizzato tra il Cinquecento e il Seicento. Non è superfluo aggiungere che «il Convento – che i Carmelitani dovettero abbandonare a motivo della soppressione degli ordini religiosi a causa delle leggi eversive del 1866 –, per la gran parte, è divenuto dal 1905 sede del Museo che più tardi prenderà il nome dal suo ideatore, il Conte Agostino Pepoli; il resto, dal 22 agosto 1930, lo riabita la Comunità dei Frati Carmelitani. Nel Museo, oltre che al Santuario, si conserva in parte anche il “Tesoro della Madonna” con manufatti realizzati tra il XVI e il XIX secolo, testimonianza eloquente della devozione verso la Vergine di Trapani lungo i secoli». Nel frattempo il culto della Bedda Matri di Trapani si era diffuso in diverse parti dell’Isola. Non sono pochi i santuari e le edicole votive a lei consacrati anche nei comuni di altre province. Citiamo il caso della chiesetta del “Miglio” (detta così perché dista circa un miglio da Terrasini). Il 14 agosto essa è meta di un affollato pellegrinaggio di devoti d’ambo i sessi che, perlopiù a piedi scalzi, vi confluiscono cantando: Siti bedda gran signura/, bedda siti ri ‘ncelu e ‘nterra/. Li vostri occhi su du stiddi/, la vuccuzza mi cunzola/. Beddu assai è lu vostru visu/, purtatimi l’arma ‘mparadisu/. (Siete bella gran Signora, bella siete in cielo e in terra. I vostri occhi sono due stelle, la boccuccia mi consola. Bello assai è il vostro viso, portatemi l’anima in Paradiso.) E subito dopo: Quantu tituli c’aviti, / Maria di Trapani patruna siti, / E deci milia voti laudamu a Maria./ E laudata sempri sia, ch’è di Trapani Maria […]. (Quanti titoli che avete, Maria di Trapani patrona siete. E dieci mila volte lodiamo Maria. E lodata sempre sia perché è di Trapani Maria…). Ma è Trapani la città che onora meglio la sua Madonna. Cerchiamo di capire come e perché. Vuole la leggenda che «alla fine del 1100 dei frati carmelitani furono scacciati da Gerusalemme e si recarono, grazie a delle navi, in Sicilia ed alcuni di loro trovarono il loro soggiorno nell'attuale posto adibito al Convento della SS. Annunziata. Contemporaneamente una nave pisana approdò nel medesimo porto depositando una rinomata statua dedicata alla Madonna; dopo aver riparato la loro nave, i pisani non poterono partire se non dopo aver lasciato tale simulacro alla città di Trapani che Le dedicò una splendida cappella. La leggenda ha somiglianze con altre presenti nell'isola e riguardanti altri Santi […], ma quel che conta è la devozione cittadina alla Madonna. Essa è festeggiata con la lavanda dei piedi dei pellegrini che accorrono al santuario e che è svolta dai confrati e dalle consorelle in ricordo della storica lavanda attuata nei secoli passati. Altri elementi delle feste del passato sono andati perduti, ma quel che rimane come costante è certamente la processione della statua della Madonna, attuata dopo la celebrazione dei Vespri e della messa solenne il 15 ed il 16 agosto. La statua della Madonna è portata in processione dai marinai vestiti di bianco». Ma forse il segreto della grande devozione dei trapanesi alla loro Patrona ce lo svela un’altra leggenda raccolta da Bruno Pastena, grande studioso ed estimatore della viticoltura siciliana. Stando al suo racconto, in un’epoca imprecisata alcuni pescatori trapanesi trovarono una cassa in mare. La portarono sulla terra ferma e la posarono casualmente su una vite oramai improduttiva. La aprirono e si accorsero che c’era la Madonna con il Bambino. Il primo a toccarla fu uno storpio, e guarì immediatamente. Nel volger di poco tempo furono miracolati molti altri fedeli che implorarono la Santa Vergine «per la salute del corpo e per maggior fortuna nella vita». Ma si guardarono bene di consegnare la statua alle autorità religiose: la lasciarono lì dove l’avevano poggiato. Nel Trapanese vi fu intanto una grave siccità e i contadini si rivolsero alla miracolosa Madonna per impetrare la pioggia, «una catarratta d’acqua». Non piovve. Ma appena sollevarono la statua per darle degna collocazione dentro una chiesa, notarono che «la vite che aveva fatto da tappeto era diventata una rigogliosa pianta con grappoli turgidi, lucidi, brillanti, e si gridò al miracolo, e per designare la pianta fu coniata la parola Catarratta per l’abbondanza dei suoi grappoli». Allora tutti i viticultori innestarono le loro viti con il Catarratto lucido della Madonna con il Bambino e le vigne divennero «per vendemmie festanti»; ai trapanesi di tutti i ceti, prima tristi e taciturni, affiorò il sorriso sulle labbra. Non si conosce l’epoca precisa dei fatti ma non c’è dubbio – a voler credere alla leggenda – che «fu allora che si notò che la Madonna e il Bambino avevano dipinto nel volto un impareggiabile sorriso, un sorriso al tripudio dei vigneti della provincia più vitata d’Italia». E il Catarratto, si sa, è assieme al Grillo e all’Inzolia un’uva indispensabile per la produzione del Marsala, il vino più famoso d’Europa, quel nettare degli dei tanto caro agli inglesi, alla zarina Alessandra Fedorovna, moglie di Nicola I, zar di tutte le Russie, e persino al governo imperiale austro-ungarico che, con decreto del 16 marzo 1900 lo incluse tra i prodotti della farmacopea austriaca, «da utilizzarsi sia puro sia quale componente degli enoliti»: quel vino “made in Italy” che, in pieno proibizionismo, negli Stati Uniti era regolarmente prescritto dai medici e venduto nelle farmacie, accompagnato dalla denominazione “Florio”. Anche questi sono miracoli ascrivibili alla gloriosa Madonna col Bambino di Trapani. Foto di Caterina Sindoni.

martedì 12 agosto 2014

Crociata di Alfano contro i vu' cumprà, tra merci taroccate e sensi di colpa


di Nino Di Sclafani
Non sono un assiduo frequentatore di spiagge; quando, però, ob torto collo, mi tocca condividere questa esperienza con la famigliola, mi intriga molto guardarmi in giro e carpire dagli atteggiamenti e dai comportamenti, caratteri, stili di vita, vizi e virtù, dei frequentatori dei lidi.
Tra tutti gli incontri, quelli che mi hanno particolarmente segnato riguardano i venditori ambulanti extra comunitari che attraversano, carichi delle loro mercanzie, quei luoghi ameni portando tra la gente spensierata ingombranti e pesanti fardelli, metafore della loro condizione di vita. Proprio ieri il ministro dell’Interno Alfano ha annunciato la sua crociata contro questa fastidiosa presenza delle vacanze: “Gli italiani sono stanchi di essere insolentiti da orde di vu' cumprà”. Il ministero ha pertanto dato disposizioni alle prefetture di intervenire usando come alibi la difesa delle griffe oggetto di contraffazione. Di venditori extra comunitari in spiaggia ne ho conosciuti tanti, mai però mi hanno offerto portafogli Louis Vitton, penne stilografiche Mont Blanc o cronografi Rolex taroccati. La loro mercanzia consiste in cuscini gonfiabili, stuoini, monili, salvagenti e braccioli. Non conosco la loro “insolenza”, si avvicinano discreti offrendo i loro oggetti e basta un cenno di diniego e si allontanano salutando dirigendosi verso altri ombrelloni. Quando, però, sulle spiagge di Altavilla, cedendo alla curiosità, ho chiesto a qualcuno di loro di fermarsi ed accettare un bicchiere di tè freddo o una merendina e li ho stimolati a parlare, sono affiorate storie di stenti, sfruttamento, miseria e mi si è svelata un’umanità sofferente, ma sempre speranzosa, che si sobbarca una quotidianità “infernale” pur di assicurare alle loro famiglie una rimessa che consenta nei paesi d’origine una possibilità di sopravvivenza. Da giugno a settembre la loro esistenza è scandita da ritmi incalzanti. Si svegliano all’alba nei fatiscenti ambienti in cui alloggiano nel centro storico palermitano. Trascinano sino alla Stazione Centrale i loro fagotti e prendono il treno. Scendono alla stazione di Altavilla e caricati sulla testa le loro merci e relativi espositori si fanno a piedi i due chilometri che li separano dalle spiagge. Inizia così l’andirivieni che li vedrà per tutto il giorno sotto il sole con i loro cappelli di paglia fare la spola tra gli ombrelloni con la speranza di concludere qualche vendita e racimolare quella decina di euro di guadagno per se e per la propria famiglia. Quando giunge la sera ricaricano sulla testa i pesanti fardelli e a piedi li vedi muoversi lungo la statale verso la stazione, altri chilometri, altre solitudini ed altre giornate di fatica. In cosa risieda la minaccia portata sulle spiagge da questi “fratelli più piccoli” mi sfugge. Pur ammettendo che in altri lidi o porticati sulle loro bancarelle improvvisate possa ritrovarsi qualche prodotto taroccato dubito che ciò rappresenti un rischio per le prestigiose (e danarose) multinazionali del lusso. Infatti non è certo la mancata disponibilità di una scadente imitazione a spingere il consumatore medio a spendere l’equivalente di uno stipendio in una borsa. Sarebbe opportuno, pertanto, che il ministro Alfano riveda le sue convinzioni, sia dettate dalla buona fede che indotte da opportunità politiche per accattivarsi le simpatie di elettorati xenofobi. Riflettendoci, comunque, mentre te ne stai sdraiato in riva al mare, sotto l’ombrellone, sorseggiando una fresca bevanda e gingillandoti con il tuo nuovo smartphone la vista di questi diseredati un certo fastidio lo causa. Ed il vero nome di questo sentimento è “senso di colpa” che notoriamente tutti cerchiamo di tenere lontano dalla nostracoscienza.

lunedì 11 agosto 2014

Un piatto veloce per le vacanze: Spiedini di salsiccia e mele


di Antonietta Pasqualino Di Marineo
Vacanze?! Ecco, ci siamo, anche io faccio una pausa! Però che fatica!
In realtà, la prima settimana di vacanza è stata un susseguirsi di impegni famigliari, ho quindi cucinato, anche tanto, ma senza avere il tempo di documentare, tranne questi piccoli spiedini... Per fortuna ho ancora dei giorni di vera vacanza!
Spiedini di salsiccia e mele
Ingredienti per 6 persone:
salsiccia 400 g
mele 4
olio 5 cucchiai
- tagliare a pezzetti la salsiccia
- tagliare a pezzi la mela
- rosolare i pezzi di salsiccia in una padella con qualche cucchiaio di olio
- togliere la salsiccia e rosolare la mela per pochi minuti
- fare dei piccoli spiedini
- servirli tiepidi
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venerdì 8 agosto 2014

Stefano Daidone nella Little Italy: da aspirante pugile a padre modello


di Ciro Guastella
A Stefano fece una grande impressione vedere quei cavalli con il fiato grosso, ed il vapore che usciva dalla loro bocca, mentre trainavano un carro con una autobotte di acqua, assieme ai ghiaccioli venutesi a formare a seguito del liquido perduto, al ritorno da un incendio che era stato domato dai vigili del fuoco.
Era il 1920 in pieno Inverno, Stefano aveva appena compiuto 14 anni ed era sbarcato a New York assieme a suo padre proveniente da Palermo con la nave Madonna. Dopo aver trascorso il periodo obbligatorio di sosta ad Ellis Island, ora era il primo giorno che si affacciava sulla grande e fredda Città, aveva attraversato Canal Street ed il Bowery e si era immerso nella Little Italy con le sue strade affollate da immigranti che giornalmente arrivavano da ogni parte dell’Europa. Su Mulberry street, Grand street, Elizabeth street, Mott street si affacciavano in uniforme fila i caseggiati con multipli appartamenti messi in affitto, gli appartamenti usati da grosse famiglie non disponevano di molti vani ed erano dotati di un comune bagno situato nel corridoio. Gli aromi provenienti dalla cucina, le voci, i canti e perfino i litigi di una famiglia venivano percepiti e condivisi da tutti i residenti di quel palazzo, il peggio però avveniva durante l'estate quando il caldo afoso trasformava i multivani in vere caldaie insopportabili, era una situazione alla quale tutti si sottoponevano agli inizi del loro arrivo, perchè invariabilmente nei loro cuori avevano la speranza di riuscire a migliorare la loro vita e trasferirsi in altri luoghi, preferibilmente in una propria casa appena acquistata e provvedere nel contempo un futuro migliore per i figli. Il padre di Stefano, Ciro, in passato aveva fatto diversi viaggi in America ed ogni qualvolta ritornava a Marineo, con i soldi che accumulava comprava una casa, una pagliera, o un pezzo di terreno. Ciro, calzolaio di mestiere, ogni mattina da Elizabeth street si recava a piedi fino a Whitehall street per imbarcarsi sul ferry-boat che l’avrebbe portato a Staten Island; arrivato lì, sempre a piedi continuava per arrivare al posto di lavoro. Ovviamente, la sera per il rientro, il lungo faticoso percorso veniva fatto all'inverso. Stefano studiava e trovava anche diversi lavori; tarchiato e con muscoli ben sviluppati frequentava la palestra dei pugili dilettanti; lì conobbe diversi “talent-scout” e provò anche a battersi sul ring nella categoria dei pesi medi, ma quando un giorno rientrò a casa con l'osso del naso rotto, non ci volle molto per il padre convincerlo a cambiare carriera. Fra i vicini di casa Marinesi c'era la famiglia Calderone, il capofamiglia Gaspare aveva un carretto trainato dal cavallo e giornalmente vendeva frutta e verdura all’angolo della Grand e Mulberry streets, Stefano aveva conosciuto e sposato la figlia di Gaspare, Catherine, una bella ragazza che insegnava nella scuola cattolica gestita dalle suore nella chiesa “Madonna del Loreto”. Dalla loro unione nacquero Charles e Gary, al terzo parto, si trattava di gemelli, per complicazione sopravvenuta morivano Catherine con i gemelli. Stefano dedicò la sua vita alla sana crescita dei due ragazzi, lavorava come capo-reparto in una fabbrica di metalli preziosi ed i proprietari gli consentivano di assentarsi per portare e riprendere dalla scuola i giovani. Preparava in cucina tutti i pasti e con enorme sacrificio provvedeva a tutte le loro necessità. Mai gli venne in mente l'idea di risposarsi. Soltanto dopo la crescita dei figli, Stefano nel 1960 si concesse un viaggio in Italia, era l’anno delle Olimpiadi a Roma, vi partecipava lanciando la sua carriera di pugile un giovane di colore, Cassius Clay, divenuto poi Muhammad Ali e campione mondiale dei pesi massimi. Stefano si fermò un paio di giorni a Roma presso lo zio, il maresciallo dell’Esercito Silvestre Arnone, per poi proseguire per visitare i fratelli e la sorella a Marineo. In paese i preparativi fervevano, per la prima volta si metteva in scena sul palco la Dimostranza sulla vita di San Ciro e Stefano, dopo quarant'anni di assenza, finalmente assaporava le vecchie tradizioni, rivedeva il paese e gli amici della sua infanzia con molto entusiasmo. Quel ricordo rimase sempre vivo nella sua memoria, perché occasionalmente ne tirava fuori i particolari senza mai saper nascondere i sentimenti di nostalgia e di affetto che lo legavano alla terra lontana. I figli, Charles ormai pensionato e Gary già nonno da tempo, ricordano la gentile figura del padre: un uomo vissuto con molta semplicità ed umiltà, amato da tutti per il sorriso e l'amicizia che spontaneamente trasmetteva a chi l'incontrava. Stefano non aveva accumulato fama o patrimonio per essere ammirato dagli altri, ma possedeva un dono naturale che suscitava disinteressata simpatia verso l'uomo che aveva saputo vivere una vita da cristiano, in pace con se stesso, con gli uomini e fondamentalmente con Dio.

mercoledì 6 agosto 2014

Storia della Parrocchia di Marineo: l'attentato all'Arcivescovo Celesia


di Nuccio Benanti
“La sera del 10 corrente in Marineo furono esplosi due colpi di fucile alla finestra della stanza dove dormiva l’Arcivescovo di Palermo, ivi giunto il mattino per la sacra visita. Il sindaco di quel comune ci manda, coll’invito di pubblicarla, una deliberazione di quel Consiglio, colla quale si protesta contro quell’odioso attentato”. 
L’arcivescovo Michelangelo Celesia il 10 novembre 1872 fu ospite a Marineo, in occasione della sua prima visita pastorale nella diocesi di Palermo. Scesa la notte fu fatto segno di un grave attentato: vennero sparati due colpi di fucile caricato a pallettoni, che frantumarono la finestra della stanza in cui dormiva. L’arcivescovo ne uscì illeso, ma fu tanta la paura per lui e per i suoi collaboratori. Il consiglio comunale di Marineo dovette riunirsi, con urgenza, la mattina dell’11 novembre per condannare l'accaduto "da attribuirsi a sola mano di forsennati ed esecrandi individui per disturbare la pace" e nel contempo “esternare i sentimenti di simpatia al prelodato Monsignore Arcivescovo, invitandolo a rimanere in paese per completare la sua pia missione”. La delibera, a firma del notaio Mariano Triolo, fu inviata al Giornale Officiale d’Italia per la pubblicazione e, per conoscenza, al Prefetto. Gli inquirenti non riuscirono mai a comprovare le circostanze e le motivazioni dell'attentato, ma sostennero la tesi che "quei colpi furono sparati unicamente per ispaventare l'arcivescovo" e non per ucciderlo. Di origini nobili e appartenente all’ordine benedettino, il cardinale Celesia fu definito dai suoi avversari "un reazionario" a causa della sua posizione intransigente e papista, di contrarietà al processo rivoluzionario e unitario italiano. Dopo il 1860 si era, infatti, rifiutato di giurare fedeltà al nuovo Governo, obiettando di avere già prestato giuramento al precedente ordine borbonico. Per questo motivo dovette rifugiarsi per un periodo in esilio a Roma: "Il vescovo di Patti che non scende a patti", disse di lui Pio IX. Nel concistoro del 10 novembre del 1884, Leone XIII lo creò cardinale. E non mutò mai il suo atteggiamento particolarmente duro nei confronti delle autorità politiche e contrario alla commistione tra riti religiosi e solennità civili. Fautore della linea legalitaria e contrario a ogni tendenza sovvertitrice, all'indomani dei moti dei Fasci siciliani non esitò a schierarsi contro i contadini rivoltosi definendoli "socialisti anarchici". Il porporato si spense il 14 aprile 1904, all'età di novant'anni.

martedì 5 agosto 2014

Qualcosa di sano per l'estate. Gelatini di frutta e latte di soia


di Antonietta Pasqualino Di Marineo
Lo ammetto subito: non è mia la ricetta, ma della mia socia che è molto più attenta di me agli ingredienti sani. Io ho una certa preferenza per il burro, i fritti, il latte, lo zucchero...
Credo che spesso (se non sempre) rendano molto più buono quello che si sta' preparando o mangiando. Ma questa volta devo ricredermi e divulgare questa ricetta sanissima e anche (incredibilmente) buona e velocissima. Non c'è zucchero sostituito dalla banana, che è già molto dolce, e qualche cucchiaiata di uvette, non c'è latte, perché si utilizza quello di soia; e poi tanta frutta fresca... Insomma davvero molto sano!
Ma ecco la ricetta dei:
Gelatini di frutta e latte di soia
Ingredienti per 12 gelatini:
latte di soia 1/2 l
3 banane mature
fragole 200 g
uvetta 2 cucchiai da minestra
12 bicchierini di plastica (quelli da caffè delle macchinette)
12 bastoncini /forchettine
- frullare tutti gli ingredienti insieme
- distribuire nei bicchierini
- posizionare i bastoncini
- lasciare nel congelatore per 6 ore
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lunedì 4 agosto 2014

Don Carmelo Meli, vita e fede di un pontefice di altri tempi


di Ciro Guastella
Carmelo Meli non era marinese, era nato a Mezzojuso e nel dopoguerra aveva portato la famiglia a vivere Marineo, quando i figli avevano ancora una tenera età. Erano tempi duri, in paese risiedevano ancora alcuni sfollati che si adattavano alla condizione di vita locale, senza dubbio superiore a quella di loro provenienza.
Nella via Portelluzza, dove aveva preso in affitto un catoio con alcune stanze, la famiglia Meli sfornava e metteva in vendita pane di ottima qualità che a causa della scarsezza di altri alimenti veniva consumato in gran quantità. I figli crescevano e mettevano chiaramente le loro radici a Marineo, mentre il capofamiglia trovava lavoro sufficiente per potere sfamare la famiglia. Per un periodo di tempo fu impiegato in qualità di cuoco presso la locale caserma dei Carabinieri ed il figlio maggiore Salvatore, da manovale muratore imparava il mestiere da mastro Carmelo D'Amato e racimolava qualche soldo contribuendo alle spese di famiglia. Don Carmelo, credente alla religione cattolica, frequentava la chiesa e partercipava alle attività parrocchiali. Presto apprese la storia di San Ciro, il medico santo miracoloso protettore di Marineo e ne divenne devoto fedele per sempre. Nelle occasioni in cui in paese veniva eseguita la “Dimostranza” itinerante sulla vita e morte di San Ciro, il regista-poeta Peppino Piraino assegnava il ruolo del Papa a don Carmelo, il quale con solenne serietà, s’immedesimava nella santità del personaggio. Il ruolo servì anche per avere avuto assegnato e godere per eternità, il nomignolo di “lu Papa” e, come se cio' non bastasse, visto che fin da ragazzo Carmelo era stato costretto a portare spessi occhiali da vista, i marinesi generosamente gli affibbiavano una seconda nciuria: "Quattrocchi". I paesani anziani ricordano che quando a volte si parlava di Sua Santità, a Marineo era necessario differenziare se si trattasse del Papa di Roma o di quello di via Portelluzza inteso "Quattrocchi". L’opportunita’ di emigrare negli Stati Uniti d’America arrivò nel 1954. L’intera famiglia si trasferì a New York nei pressi di Elizabeth Street. A quei tempi nel rione esisteva il Sodalizio di San Ciro che gli oriundi di Marineo molti anni prima avevano stabilito nella zona: un locale preso in affitto ad Elizabeth Street vicino ad Houston Street, dirimpetto la chiesa della Madonna del Loreto. Don Carmelo ne divenne membro immediatamente e per gli anni successivi ne fu attivo consigliere che principalmente si occupava della festa al Santo. Molti marinesi nella zona di New York, lo ricordano perché annualmente puntuale, prima della festa, don Carmelo con qualche altro socio si recavano nelle loro residenze, intrattenendosi anche per prendere il caffè, ma soprattutto per la raccolta dei fondi necessari per la festa in onore del Santo. Carmelo Meli era arrivato in America con la moglie e cinque figli. Oggi sopravvivono soltanto due figlie ed il figlio maggiore Salvatore. Salvatore, che arrivando in America si avvalse della sua capacità di costruttore edile, fondò una sua compagnia di costruzione e manutenzione industriale nell'area metropolitana della Città che di recente, dopo avere raggiunto l'età per la pensione, ha ceduto ai figli che la conducono con successo. Una nidiata di nipoti sono gli eredi e portano anche il nome di don Carmelo Meli, un personaggio semplice che visse sotto il timore di Dio, che ebbe il rispetto delle leggi e del giusto e che da adulto imparò ad essere marinese attraverso la conoscenza e l’amore per il nostro santo protettore medico eremita e martire San Ciro.

domenica 3 agosto 2014

Marineo, Fondazione Arnone promuove l'istituzione di una Università popolare


di Piazza Marineo
E’ intendimento della Fondazione Arnone promuovere l’istituzione di una Università Popolare, operativa dal prossimo autunno.
Università Popolare è una organizzazione senza fini di lucro che opera nel campo culturale e sociale, sostenendo e promuovendo corsi di studio riguardanti una vasta gamma di argomenti, dalla letteratura alla scienza, dalla medicina al diritto, dalla storia all’informatica, dal cinema alla musica. Oltre ai corsi l’Università Popolare organizza viaggi, visite culturali, concerti e altre attività ricreative e formative. Si rivolge principalmente a persone adulte diversamente giovani, persone con curiosità intellettuali ancora da soddisfare e con la voglia di scambiare un patrimonio di competenze e conoscenze con altri soggetti altrettanto motivati. Accoglie anche giovani che ne condividono gli scopi e che hanno interesse alle attività in programma da iscrivere anche come crediti formativi nel proprio cv. Si potrà partecipare intervenendo in un primo momento all’incontro con il Presidente della Fondazione Arnone, arch. Guido Fiduccia e con lo staff operativo nella data che sarà resa pubblica per la definizione del programma da attuare nell’anno accademico 21014/2015. Successivamente presentando la domanda di iscrizione ai corsi e versando una modesta quota di partecipazione. Saranno coinvolti diversi docenti tra cui: Maria Cira Muratore, Ciro Viola , Franco Vitali, Benedetto Daidone, Ciro Spataro, Antonetto Provenzale, Totus Tuzzolino, Franco D’Aversa, Franco Calderone, Giovanna Triolo, Giuseppe Taormina, Carmelo Raineri, Paolo Catanzaro e Francesca Peri. Per maggiori informazioni rivolgersi alla segreteria della Fondazione 091/8726931.

sabato 2 agosto 2014

La storia del pane e la terra di Cerere: primo contributo per un convegno


di Pippo Oddo
«Il pane – spiegava Giuseppe Pitrè – è la grazia di Dio per eccellenza e non si posa né presenta mai sottosopra, che è malaugurio, né si taglia da quel lato (sôlu), che è disprezzo alla Provvidenza di Dio che ce lo manda, né si segna o s’infilza col coltello, che è ferro e quindi maledetto, ma si taglia senz’altro, e quando si ha da infilzare dentro il coltello si protesta che è grazia di Diu». 
«Se mangiando ne cascano per terra delle briciole e non si ha cura di raccattarle, si dovranno poi raccattare con le ciglia, morti che saremo. E come grazia di Dio, si giura su di esso toccandolo: Pi sta grazia di Diu! E se ne vediamo cadere o buttare un bocconcino per terra, che non si voglia o non si possa altrimenti mangiare, ci affrettiamo a raccoglierlo e a conservarlo in un bucolino pur di non farlo calpestare con i piedi. Il Signore potrebbe farci desiderare quel boccone di pane». La sacralità del pane non nasce nell’era cristiana: affonda le radici nell’alba delle civiltà sorte nel bacino del Mediterraneo dopo l’invenzione dell’agricoltura (circa 9.000 anni prima dell’era cristiana). Se Plinio il Vecchio, scrittore latino vissuto nel I secolo d. C., sosteneva che «Cerere trovò il frumento, mentre prima si viveva di ghiande» e che precedentemente la stessa dea aveva insegnato a «macinare e fare il pane in Attica e in Sicilia» assurgendo così al rango divino, va da sé che ancor prima che a Roma il pane era ritenuto un alimento sacro nella Magna Grecia. Rimane tuttavia da capire quale sia stata la terra d’origine del grano. Il vescovo e scrittore greco Eusebio di Cesarea la identificò con la Valle dell’Eufrate, altri con quella del Giordano, Strabone con l’India, Tibaud De Bernard con l’Etiopia, da dove sarebbe passato in Egitto. Diodoro Siculo sosteneva che il grano primordiale dal quale è stata addomesticata la pianticella che nutre l’umanità cresceva spontaneo in Sicilia. Bisogna dunque prendere atto con Henri Fabre che la storia «celebra i campi di battaglia […]; sa i nomi dei bastardi dei re, ma non può dirci l’origine del pane». È comunque documentato che tutti i popoli mediterranei conoscevano il grano fin dagli inizi della loro storia, anche se cominciarono a panificare in tempi diversi. L’impasto del pane, a voler credere alla leggenda, pare che sia nato in Egitto intorno al 3500 a C, in seguito allo straripamento del Nilo, che bagnò le scorte di farina conservate nei magazzini reali. Un’altra leggenda vuole che anche il lievito sia nato nella terra dei faraoni: «una domestica egizia, per far dispetto alla padrona, avrebbe gettato nella pasta del pane il residuo della preparazione della birra, la quale provocò la fermentazione dell’impasto». Certo è che ad un determinato momento gli antichi egizi si accorsero che la pasta lievitata non poteva essere cotta al fuoco vivo dei carboni, come avevano fatto per secoli con la stiacciata (simile per forma e contenuto alla piadina romagnola). «Si dotarono perciò di costruzioni cilindriche che si restringevano in alto a forma di corno», racconta lo studioso tedesco Heinrich Edward Jacob (1889 – 1967). «Una tramezza ne divideva l’interno. La parte inferiore aveva un’apertura più larga per le forme di pane e per l’espulsione del gas. Quando stavano per fare l’infornata, essi toglievano la pasta inacidita dal suo recipiente, la salavano, la manipolavano ancora una volta. Poi cospargevano di crusca il recipiente per la cottura, così che la pasta non lo toccasse. Distribuivano la pasta in fermentazione con una paletta, spingevano il recipiente nel forno, chiudevano lo sportello. Familiari ed amici stavano intorno a guardare». Fu dunque nell’antico Egitto che il lievito, simbolo di crescita e di elevazione spirituale, s’incontrò per la prima volta con il forno «che è insieme utero e vagina, colore e luce», spazio magico del passaggio dal crudo al cotto, dall’impasto acido all’alimento saporito. Ciò avvenne nel segno del pane, sole in miniatura che da millenni illumina il rischioso sentiero che si snoda tra la vita e la morte nell’orizzonte mediterraneo. Ciò fosse stato ancora poco, anche il setaccio per separare la farina dalla crusca e i primi rudimentali mulini in pietra furono inventati in Egitto. Bisognava aspettare che dalla terra dei faraoni la civiltà del pane si diffondesse nel resto del Mediterraneo per vedere sorgere i primi mulini idraulici e successivamente quelli al vento, ad opera dei popoli nordici sottomessi dai romani. È appena il caso di aggiungere che se i greci fecero del provvidenziale alimento un segno forte, quasi marca di riconoscimento della loro identità culturale da contrapporre ai “barbari” che non mangiavano ancora il pane, gli imperatori romani lo usarono come strumento di dominio sui popoli assoggettati e ammortizzatore sociale per la plebe affamata dell’Urbis che reclamava periodicamente panem et circenses, pane e spettacoli al Circo Massimo. Ma se lo potevano permettere, tenuto conto della quantità di grano che affluiva a Roma dall’Egitto, dalla Spagna e dalla Sicilia, allora considerata terra prediletta di Cerere, dea delle messi e del pane. Ad assegnare all’Isola questo blasone ha contribuito decisamente il V libro delle Metamorfosi di Ovidio, che rilancia il mito greco del ratto di Persefone, figlia di Demetra e di Zeus, da parte di Ade, dio degli abissi. Nel racconto ovidiano la fanciulla, rapita in riva al lago di Pergusa (Enna) mentre raccoglieva «bianchi gigli e viole», diventa Proserpina, Demetra Cerere, Ade Plutone. Ma la sostanza non cambia: la fanciulla viene trascinata dal focoso rapitore nelle profondità del Tartaro, Cerere cerca disperatamente la figlia. Delusa dagli uomini, distrugge i campi di grano. Giove ristabilisce l’ordine sentenziando che Proserpina rimanga per metà dell’anno con il marito negli abissi e per il resto con la madre sulla terra. È evidente l’allusione alla vicenda sotterranea del chicco di grano affidato alle cure della Madre Terra, che (come avviene in tutte le cosmogonie e si legge nel Vangelo di San Giovanni) se non muore non rinasce a nuova vita. Per farsi un’idea del radicamento del culto di Cerere in Sicilia basti pensare che all’indomani della colonizzazione greca la gerarchia sacerdotale siciliana contestava la supremazia del Tempio di Eleusi (il simbolo più alto del paganesimo) asserendo che «era in Sicilia che l’uomo aveva ricevuto il dono del grano e che fu ad Enna che Plutone rapì Proserpina». La popolarità della dea del pane era un omaggio alla Madre Terra, ma anche alla fertilità dei suoli siciliani, che farà poi scrivere a Goethe: «Ci saremmo augurati il carro alato di Trittolemo per sottrarci a tanta monotonia» di campi coltivati a cerali. E il paesaggio cerealicolo continuò a caratterizzare a lungo la Sicilia interna per le note vicende del latifondo e degli arcaici sistemi produttivi destinati ad uscire di scena solo dopo l’entrata in vigore delle leggi di riforma agraria del 1950. Nel frattempo da granaio d’Europa la Sicilia era divenuta importatrice di grano. E aveva conosciuto scioperi, carestie, sommosse, tumulti popolari, frotte di disperati della campagna accorsi in città ad elemosinare il pane nei conventi, scene risibili come quelle che si videro nella primavera del 1647: «L’arcivescovo di Palermo ordinò a tutti i cittadini, sotto pena di multa, di far penitenza. Incoronati di spine e portando dei teschi, straziandosi con catene di ferro, i cittadini passavano le giornate in continue processioni. Un osservatore vide uomini nudi, e per giunta nobili, che tiravano l’aratro bardati come animali, facendo finta di mangiare cesti di paglia, e mostrando altri “miserabili segni di penitenza”; e la principessa di Trabia diede graziosamente ristoro nella sua casa ad una processione di prostitute». Alimento e segno, forma e sussistenza, allegoria della vita, il pane seguitò a scarseggiare ancora per diversi secoli persino nelle case dei contadini che lo producevano. Ma nemmeno i ceti umili urbani potevano ritenersi al riparo dalle carestie. La fame assumeva connotati preoccupanti soprattutto in occasione delle male annate e delle emergenze belliche. A Palermo il 19 ottobre 1944 scoppiò una sommossa popolare destinata a passare alla storia come «rivolta nel pane», repressa dall’esercito: 30 morti e 149 feriti. Ma oramai anche di questi fatti e misfatti si è persa quasi la memoria. La terra di Cerere rischia di diventare come il deserto africano.