giovedì 27 febbraio 2014

La Misericordia di Marineo a Roma per incontrare Papa Francesco


di Ciro Rosario Pernice
Lo scorso 21 febbraio, abbiamo ricevuto la conferma dello straordinario evento che coinvolgerà tutte le Misericordie d’Italia. 
Infatti, il 14 giugno prossimo, Papa Francesco riceverà, durante un’udienza straordinaria, tutte le Misericordie del territorio nazionale, come successe esattamente 28 anni fa (14 giugno 1986), in Piazza San Pietro. Quella volta erano presenti in circa 10mila ad ascoltare le parole che il Beato Papa Giovanni Paolo II, all’interno dell’aula “Paolo VI” proclamò, indicando con chiarezza la via della carità che le Misericordie dovevano far propria: “Ecco la consegna che vi affido: siate i promotori e fautori della civiltà dell’amore, siate testimoni infaticabili della cultura della carità”. Queste parole costituirono per le misericordie una vera e propria svolta. A Marineo, nel 1986, la Misericordia non era ancora presente, infatti, a distanza di 10 anni esatti da questo evento speciale, alcuni nostri compaesani residenti in Toscana, con l’appoggio di altri residenti nel nostro paese e soprattutto con il desiderio di “fare volontariato” decisero di fondare la Confraternita di Misericordia a Marineo. Appunto per questo ci sentiamo in dovere di esserci anche noi lì presenti in Piazza San Pietro, ad ascoltare le indicazioni, a seguire la via che il nostro Santo Padre, Papa Francesco, dovrà indirizzarci per vivere in solidarietà ed umiltà verso il nostro prossimo. Abbiamo l’obbligo di portare nei nostri cuori tutta la comunità marinese, tutti i malati, tutti i nostri parenti, amici, conoscenti... sarete tutti lì con noi!! Che Iddio ve ne renda merito!

mercoledì 26 febbraio 2014

"Marineo in movimento", attività sportive ed escursionismo a scuola


di Piazza Marineo
Inizia giovedi 27 febbraio alle ore 10 nella ampia palestra dell’istituto "Don Colletto" di Marineo il progetto “Marineo in movimento” che coinvolgerà gli alunni dell’Ipsia e quelli della Scuola Media Statale "Luigi Pirandello" di Marineo e Bolognetta.
Le attività sportive avranno inizio con un torneo di pallavolo e tennis da tavolo, ma le attività previste dal calendario sono molteplici sviluppate sul territorio montano: trakking, orienteering, nordic walking, arrampicata, meteorologia e topografia. Strategie che invoglino i ragazzi a riscoprire l’ambiente di montagna e le potenzialità offerte nell’ambito sportivo. Il curriculum scolastico, dalla scuola primaria alle superiori, verrà così arricchito con l’inserimento di esperienze di avvicinamento concreto alla montagna per legare maggiormente i ragazzi al proprio territorio, renderli consapevoli delle potenzialità che la stessa offre, vivere in modo più diretto la natura e apprezzare i valori fondamentali che la montagna sa trasmettere. rappresenta una straordinaria risorsa a disposizione delle scuole per proporre ai giovani un approccio stimolante ai temi della montagna e del territorio. La montagna e la sua cultura rappresentano un patrimonio unico per avvicinare i giovani alla natura e per sensibilizzarli a valori quali l’impegno, la fatica, la solidarietà, la resistenza, l’orientamento, la velocità, la coordinazione, la sensibilizzazione estero propriocettiva, l’equilibrio, arricchite da attività culturali e interdisciplinari come meteorologia, la flora, la fauna, la topografia, storia, cultura e alimentazione per rafforzare lo spirito di gruppo, la salubrità, la pratica dello sport a diretto contatto con la natura.

martedì 25 febbraio 2014

Settimana scoutismo Eleuterio: saluto e benedizione di papa Francesco


di Piazza Marineo
Seicentocinquanta ragazzi scout della zona Eleuterio (Vicari, Mezzojuso, Bolognetta, Marineo, Bagheria, Altavilla Milicia, Trabia, Termini Imerese) hanno vissuto insieme la Settimana Internazionale dello Scoutismo e hanno condiviso insieme sogni, giochi e speranze colorando le piazze di Vicari d'azzurro. 
Un evento molto significativo caratterizzato anche dalla presenza dell'Arcivescovo di Palermo Paolo Romeo che ha celebrato la Messa nella chiesa madre di Vicari e che si è poi intrattenuto a pranzare con i ragazzi. "Ho avuto il permesso di Papa Francesco per andare via un po' prima da Roma per venire qui oggi ad incontrarvi", ha raccontato il Cardinale che era appena tornato dal Concistoro: "il Papa mi ha detto di portarvi il suo personale saluto e la benedizione proprio a voi, scout riuniti oggi qui a Vicari". Molto interessante anche l'attività proposta ai rover e alle scolte (ragazzi e ragazze di età compresa dai 16 anni ai 21) che, chiamati a "giocare" sui temi delle "start up", si sono confrontati sulle problematiche del "fare impresa" e sulle opportunità che territorio offre il nostro territorio. Un confronto ricco di contenuti quello con gli animatori del Progetto Policoro, servizio gratuito promosso dalla diocesi che si occupa di consulenza, aiuto, sostegno ai giovani che vogliono intraprendere un percorso d'impresa. L'attività si è conclusa con l'ammaina bandiera e i saluti dei responsabili di zona, in una piazza gremita di ragazzi riuniti sotto un grande planisfero colorato da loro per affermare ancora una volta, assieme al fondatore Baden Powell, che si può "lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato". [Foto di Gianpiero Lo Cascio]

sabato 22 febbraio 2014

Progetto "Argento vivo": evento finale e libro “Luoghi della memoria”


di Piazza Marineo
Si è svolto venerdì sera l’evento conclusivo del progetto ”Argento Vivo” finanziato dalla Fondazione con il sud. 
Il percorso durato quasi 12 mesi ha coinvolto gli anziani e gli adolescenti dei paesi di Marineo, Misilmeri e Ciminna, che sono stati guidati in tre laboratori: Luoghi e foto della memoria; Aiutiamoci ad aiutare; Mani di donne. L'evento di fine progetto, organizzato a Baucina, è stato suddiviso in due momenti. Nella prima parte è stato presentato il libro “Luoghi e della Memoria” di Carmelo Fascella e Francesco Tusa, frutto del laboratorio fotografico svolto tra gli adolescenti e gli anziani. "Durante il laboratorio - spiegano gli organizzatori - si è svolto un vero e proprio scambio intergenerazionale: oltre ad acquisire le competenze tecniche della fotografia, si è svolta anche un'analisi dei luoghi cari alle nostre comunità, imparando ad osservarli da punti di vista sempre diversi, al fine di apprezzarli e salvaguardarli nel futuro. La raccolta fotografica è un tentativo di sintesi sperimentale che ha l’obiettivo di raccontare la storia dei luoghi attraverso delle foto di ieri e di oggi, corredate da piccoli aneddoti". La seconda parte della serata è stata dedicata interamente agli anziani che hanno partecipato ai tre progetti, ai quali è stata data l’occasione di incontrasi con i coetanei degli altri paesi coinvolti per favorire uno scambio di opinioni e di idee".

venerdì 21 febbraio 2014

Tribunale di Termini Imerese: nulle le delibere di bilancio del Coinres


di Piazza Marineo
Gravi anomalie nell’esposizione delle voci iscritte in bilancio, disattendendo l'obbligo di rappresentazione chiara e veritiera del documento contabile.
Con questa motivazione il Tribunale di Termini Imerese ha annullato le delibere di bilancio del Coinres degli esercizi 2007, 2008 e 2009, che sono da ritenersi nulle per inosservanza dei principi di chiarezza e veridicità. Gli atti sono stati trasmessi alla Procura della Repubblica e alla Corte dei Conti per accertare le responsabilità penali e civili sulla gestione. «La sentenza - spiega in una nota il deputato nazionale Franco Ribaudo, ex sindaco di Marineo -, dà ragione al Comune di Marineo, che fin dal 31 dicembre 2008 aveva fortemente contestato la mala gestione del consorzio, rescindendo il contratto di servizio e avviando conduzione “in house” e quindi la raccolta differenziata "porta a porta" che ha raggiunto la percentuale del 60%. Ciò ha, inoltre, evitato anche che il Comune di Marineo finisse trascinato verso il dissesto finanziario». La sentenza rimette in discussione anche i cosiddetti debiti certi dei comuni nei confronti del consorzio, adesso ritenuti non solo illegittimi ma addirittura “illeciti” in quanto sarebbero stati violati i precetti di chiarezza, verità e correttezza. Il Tar evidenzia, infatti, come il Coinres, con la propria azione poco trasparente, abbia limitato fortemente il potere di controllo di ogni singolo comune, che non è stato posto nelle condizioni di analizzare gli scostamenti tra i bilanci preventivi e consuntivi.

giovedì 20 febbraio 2014

Settimana internazionale scoutismo, raduno di 600 giovani a Vicari


di Piazza Marineo
Sabato 22 e domenica 23 gli scout AGESCI di Bagheria, Bolognetta, Vicari, Mezzojuso, Altavilla Milicia, Termini Imerese, Trabia e Marineo celebreranno insieme la Settimana Internazionale dello Scoutismo: un evento che coinvolgerà tutti gli scout del mondo.
Il tema di quest'anno è la promozione del diritto all'istruzione primaria per tutti. Più di seicento ragazzi e ragazze coloreranno Vicari (piazza Paolo Borsellino) d'azzurro e impareranno a conoscere, attraverso un grande gioco, tre personaggi significativi della nostra storia: Maria Montessori, Nelson Mandela e Papa Francesco. Un grande evento per promuovere nel territorio i valori dell'amicizia, dell'accoglienza e della fraternità internazionale.

martedì 18 febbraio 2014

Happy hour con i giovani al castello di Marineo: i 10 comandamenti


di Piazza Marineo
MARINEO. I 10 comandamenti: 5° Non uccidere. Giovedì 20 febbraio nuovo incontro al castello di Marineo.

lunedì 17 febbraio 2014

La sostanza dei poveri


di Pippo Oddo
Quando si dice sostanza, i filosofi pensano a ciò che vi è di permanente nella realtà; i chimici si chiedono se sia solida, liquida o gassosa; i biologi se midollare, corticale, ecc. E i morti di fame in Sicilia recitano virtuosi: Ogni fìcateddu di musca fa sustanza (Ogni fegatino di mosca fa sostanza).
È proverbio, questo, oramai poco citato, grazie a Dio. Ma un tempo era continuamente sulla bocca di molti siciliani e dava la misura delle carenze nutrizionali della povera gente. I più miseri zappaterra, per esempio, si facevano vedere dal macellaio sì e no in occasione delle feste grandi. Negli altri periodi era gran ventura se potevano accompagnare il pane con qualche sarda salata. A tale proposito ho ancora nelle orecchie l’inconfondibile “abbanniata” di un venditore ambulante: sardi chi ciauru! Ma non sempre riusciva a venderne. E quando una madre di famiglia le comprava, li somministrava con grande parsimonia ai figli. Con la scusa che le sarde salate mettevano sete, i bambini potevano averne un trancio. Solo in particolari circostanze (che capitavano a ogni morte di papa) potevano ingozzarsi di cose sostanziose: “stigghiola” (budelli attorcigliati), trippa, cotenne, carni murtizza (di animale morto accidentalmente)… Vero è che molti contadini poveri allevavano una capra o una pecora, mezza dozzina di galline, un gallo e qualche altro animale da cortile. Ma non ne mangiavano quasi mai la carne. Persino il latte e le uova venivano commercializzati, vuoi vendendoli direttamente ai galantuomini, vuoi barattandoli in cambio di petrolio, sarde salate, zucchero, aghi, filo, ditali, stoppa, ecc. Solo una modestissima parte di questo misero capitale circostante veniva auto-consumato, ma esclusivamente su prescrizione medica. Bisognava insomma che qualcuno della famiglia si ammalasse per aver diritto all'uovo o al latte. Un piatto di sustanza con patate, a dire il vero non sempre abbondante, spettava a tutti allorché si ammalava seriamente un animale: alla gallina ammartucata (in fin di vita) si tirava a malincuore il collo; la pecora paralitica o infetta veniva pietosamente sgozzata. E la carne naturalmente non si buttava, certi com'erano i contadini del passato che nessun veleno fosse così potente da resistere a una prolungata bollitura. Alla donna incinta non si poteva però negare il privilegio di una pietanza sostanziosa... ove ne avesse fatta esplicita richiesta, se non altro per evitare che il bimbo venisse al mondo segnato dalla voglie materne. Subito dopo il parto, la puerpera aveva il diritto di mangiare una gallina bollita, riservandone però il collo al marito, per tema che il bimbo crescesse col collo molle e, comunque, a castigo di Dio. Ma certi lussi duravano solo il tempo di un giorno. Poi si ritornava all'alimentazione di sempre: pane, pasta, legumi, verdure spontanee e ogni tanto un pezzetto di formaggio. Lo stesso pane, ritenuto da tutti grazia di Dio, si soleva tagliare con moderazione perché non ce n'era mai a sufficienza. Ed era un grosso guaio per le famiglie con bambini particolarmente mangioni. Ma a questo inconveniente si poteva in qualche modo ovviare. «Quando i bambini sono troppo voraci – scriveva sulla seconda metà dell'Ottocento Raffaele Castelli – dopo essersi cotto il pane, prima di cavarlo dal forno, tolto da questo il lastrone, vi si avvicinano e ne si ritraggono tre volte dicendo: Empiti, lupo, per grazia di Diu. E bisogna sapere che in Sicilia la voracità è detta lupa». Proprio così, lupa, come il noto parassita della fava, di quella benemerita pianticella cui era affidata la sopravvivenza di molte famiglie contadine, specialmente nel lungo mese di maggio, quando il pane era raro come i corvi bianchi, per non dire che in certe case non se ne vedeva neanche a cercarlo col lanternino. A dimostrazione di quanto fosse diffuso il consumo di fave verdi, nei secoli di fame nera, basti ricordare che nell'Ottocento a Villalba si registrò una strana epidemia detta zafara, i cui sintomi erano: «cefalea, ronzio delle orecchie, vomitazione di materie biliose, cardialgia, paralisi vescicale o emissione di urina semplicemente gialla, prostrazione delle forze organiche vitali e tinta itterica o subitterica in tutto il corpo». Malattia che, a detta di un medico locale, i contadini potevano curare tenendosi lontani dai campi di fave, astenendosi dal «mangiare siffatto legume verde, perché [avrebbero potuto] correre pericolo di vita», e alimentandosi con «il vino Marsala, il Vermut, i brodi, l'arrosto». Ma predicava al vento, il dottore villalbese: i contadini «non potendo comprare carne né vino Marsala, continuarono testardamente a coltivare e a mangiare fave, preferendo morire di zafara anziché di fame». E se qualche anno c'era penuria di fave verdi, magari perché ne aveva fatto strage la lupa, i contadini potevano sempre fare come disse l'antico: Quannu la sorti nun ti rici, calati e cogghi vavaluci (quando il destino ti è avverso, abbassati e raccogli chiocciole). Certo, a maggio le chiocciole non sono mai state cibo particolarmente indicato, se ha senso il motto: A cu' la vita cci rincrisci, avi manciari a maju vavaluci e nn'austu pisci (colui al quale la vita rincresce deve mangiare a maggio chiocciole e ad agosto pesce). Tuttavia, anche in questo caso, morte per morte, era preferibile quella a stomaco pieno; a stomaco pieno per modo di dire, considerato che vavaluci a sucari e fìmmini a vasari 'un ponnu mai saziari (chiocciole a succhiare e donne a baciare non possono mai saziare). Rimane il fatto, comunque, che queste leccornie contadine erano, come il baccalà e la "tonnina" per la povera gente di città, carni di puvureddu. E, a differenza di questi prodotti che comunque si dovevano pagare, sia pure per pochi spiccioli, i vavaluci non costavano nulla: chiunque li poteva raccogliere in campagna. A onor del vero, anche i cittadini mangiavano, anzi succhiavano (e tuttora succhiano, specialmente in occasione del festino di Santa Rosalia) vavaluci, che a Palermo si chiamano babbaluci. Babbaluci a picchio pacchio o preparati con aglio, olio, pepe e prezzemolo, ma pur sempre chioccioline, di quelle che all'inizio dell'estate si trovano in letargo, riunite a grappolo tra le stoppie e le spine, attaccati ai pali del telefono o ai recinti di filo spinato, vavaluceddi insomma, per dirla nella parlata del mio paese natio: vavaluceddi di poca sostanza, che adesso si comprano a sangu ri papa. Ben più grossi, e a mio giudizio più appetitosi, dei vavaluceddi sono gli attuppateddi, di colore grigio-verde, detti pure scanzirri o scataddrizzi. E non sono niente male neanche altri tipi di chiocciole come i vavaluci propriamente detti, che vanno in letargo nelle pietraie e sono conosciuti localmente anche come picureddi o vaccareddi; senza considerare i crastuna o barbanii, ossia i parenti più stretti dei ben noti escargot di cui sono particolarmente ghiotti i Francesi. Comunque sia, non c'è specie di chiocciola che non venga allo scoperto dopo le prime piogge d'autunno. Ed è tutt'oggi allegro spettacolo vedere tante persone, talvolta anche di notte, con lampadine tascabili in mano in mezzo ai campi, in cerca di questi prelibati doni della Divina Provvidenza. Figurarsi all'epoca dei nostri avi, quando ogni fegatino di mosca faceva veramente sostanza. «Odi qua» scriveva un secolo addietro Cristoforo Grisanti. «Appena d'autunno cessa un acquazzone, a costo di bagnarsi i piedi, altre [popolane], uscite di casa con sacchetti e panierini, divagan pian piano per le coste incolte, i calcari e gli orti di verzure, di mandorli e ficodindia prossimi al paese; altre, più animose, e se non piove, si dilungano per le vie, i sentierucci, le coste a maggese o pietrose, i burroncelli delle prossime campagne e van cercando e cogliendo dei gasteropodi, che dopo il lungo secco estivo, usciti dai loro nascondigli, con le antenne mobili e allungate, stanno o si muovono sulle erbe, sulle pietre, sulle piante umide o bagnate per pascere o respirare all'aperto». Se raccolti immediatamente dopo il primo acquazzone d'autunno, questi provvidenziali animaletti vengono tuttora cucinati senza porre alcun tempo di mezzo, di solito prima lessi e poi insaporiti con olio, cipolla e salsa di pomodoro, salvo che non si tratti di attuppateddi, per i quali la morte giusta è un'altra: vengono sgusciati e fritti in padella, dopo il solito bagno nell'acqua bollente. Le chiocciole raccolte qualche tempo dopo l'uscita dal letargo sono invece piuttosto amare, avendo brucato l'erba dei prati. Bisogna perciò farle purgare per alcuni giorni chiuse dentro una pentola e alimentarle con crusca, prima di bollirle. Questo in autunno. D'inverno, e per buona parte delle altre stagioni, chi voglia passarsi lo sfizio di mangiare vavaluci di qualsiasi specie, a meno di non trovarli bell'e cucinati in mezzo alla cenere di una siepe bruciata accidentalmente, deve andarseli a cercare sotto le pietre (col rischio di beccarsi un morso di vipera) o nei terreni incolti, dove è necessario affondare la zappa, per sorprenderli, immersi in un sonno profondo, nell'intimità delle loro inseparabili case dalle bianche porte di muco rappreso. Ma, specialmente nel passato, c'erano anche altre discrete riserve di "sostanza selvaggia" a disposizione di chiunque sapesse attingervi. Una di queste era costituita dalle uova deposte dagli uccelli nei nidi. Nell'isola di Linosa, per esempio, sosta una colonia di circa diecimila turriachi (berte) che da oltre un secolo nel mese di aprile rifornisce di uova gli isolani. In diverse contrade di Sicilia un tempo si saccheggiavano disinvoltamente le risorse dei fiumi e dei torrenti, a cominciare dalle anguille che guazzavano nelle nache (gorghi, naturali o artificiali, scavati negli alvei fluviali) dove d'estate ristagnava l'acqua. I metodi di pesca erano primordiali. «Alcuni – prendo di nuovo in prestito le parole di Cristoforo Grisanti – gittano degli ami forniti di esca dentro le acque; altri dei cofanetti di giunco, canna o verghe, come piccole nasse da pescatori, che lasciano affidati a funicelle e poi visitano e tirano su dopo ore o giorni. Se ciò non riesce, nelle ore in cui l'acqua del fiume viene fermata e raccolta su per l'uso dei tanti mulini, attassano (attossicano) le nache con tanto di calce viva, che basti a saturarne la massa dell'acqua. E allora, se ce n'è, le anguille, stordite dalla nuova sostanza, escono dalle tane, montano a galla, e vengono afferrate, spesso dopo molto stento, con lunghe tenaglie di ferro e gettate fuori. Se poi la calce non giova, ricorrono al latte di rizziteddu (Euphorbia myrsinites), tagliuzzato con molta cautela, il quale per esse è un tossico potentissimo e abbonda in queste contrade». Nei pigri corsi d'acqua del Villafratese, ancora una cinquantina d'anni fa, oltre al lattice di rizziteddu si faceva talvolta uso di quello di un'altra specie di euforbia (camarruni) meno dannosa per chi la tagliuzzava; ma si ricorreva spesso anche ai candelotti di dinamite, la cui esplosione scaraventava fuori dalla naca non solo le anguille, ma anche sassi, radici di pioppi e salici, rane, girini, mignatte, bisce del collare... Nei fiumi più grandi dell'Isola si pescavano anche trote e tinche, in tutte le pozzanghere granchi e rane. Spécialiste nella pesca delle rane erano ovunque le lavandaie che però raramente ne mangiavano la carne. Ma c'è un paese, in Sicilia, dove la gracidanti bestioline erano (e sono) particolarmente apprezzate: Paternò, i cui abitanti sono infatti conosciuti come manciaranunchi. Questo blasone popolare venne appioppato ai Paternesi almeno ai tempi di Pitré, se non prima. La carne di tartaruga, animale benedetto da Dio perché riuscì a far ridere la Madonna dopo la crocifissione di Gesù, non si mangiava. «Guai a chi ne uccide una!» ammoniva anzi Giuseppe Pitré. «Gli seccherebbero tra otto giorni le mammelle (S. Stefano di Camastra), e gli pioverebbero tutti i mali di questa terra (Palermo)». Tuttavia nella Valle del Mela, almeno fino a una trentina d'anni fa, se preparata in brodetto, quella sostanza tabù era considerata una vera squisitezza, un peccato di gola su cui persino il Padre Eterno era disposto a chiudere un occhio, sempre che si osservasse un preciso rituale: bisognava che la bestiola fosse decapitata con un colpo secco, che se ne bruciasse alla svelta la testa (per impedirle di trasformarsi in serpente) e se ne bevesse immediatamente il sangue, che tra l'altro possedeva la rara virtù di combattere «cento mali». Quali fossero questi mali non ho ancora avuto la fortuna di scoprirlo. Nessun potere speciale, che mi risulti, possedeva la carne d'asino. Anzi, su di essa gravava una vecchia maledizione divina. Eppure, almeno uno scomunicato di mia conoscenza la mangiava, e si leccava pure i baffi che non aveva: un tal Vanni Scorciavestii del mio paese. Di professione faceva il crivaru, fabbricatore di vagli di cuoio. E si aggirava spesso, con un affilato coltellaccio in mano, nei pressi della lavanca in cerca di carcasse equine da scuoiare... per rifornissi di materia prima, diceva lui. Ma certe malelingue tuttora giurano di averlo visto tornare tante volte con grossi tocchi di carne nel succuni. Vanni, pace all'anima sua, era un tipo particolare, l'ultimo cercatore di scecchi morti del mio paese. Ma non era il solo testimone delle strategie di sopravvivenza affinate nella notte dei tempi. Mi tornano spesso alla mente tante ombre del passato: ragazzini con la fionda a caccia di taccole e rondoni, fior di bracconieri capaci di parare lacci e laccioli, trappole, scetti, balati... uccellatori con la cucca legata alla punta di una canna, mangiatori di ghiri e sorci di campagna, di ricci, volpi e gatti selvatici, stornelli e gazze ladre. È passato da poco a miglior vita un altro villafratese che negli anni cinquanta andava a caccia di conigli senza fucile né cane, senza furetto. E non rincasava mai con il carniere vuoto, se carniere si poteva chiamare il panaru, panciuto contenitore di canne e bacchette d'oleastro da lui stesso intrecciate. Male che gli andasse, nella bella stagione il Nostro rimediava sempre un saittunazzu di un rotulu (giovane coniglio selvatico dal peso di circa 800 grammi), tirato fuori dal nascondiglio, e qualche mamma di cuccuciuti (cappellaccia) catturata mentre covava le uova nel nido. Ignoro come facesse quell'uomo-cirneco a individuare le tane di coniglio; e mi è ancora più diffìcile immaginare la tecnica da lui usata per metter le grinfie sulla preda, considerato che quelle pavide bestiole amano tenersi a debita distanza dalla bocca del nascondiglio. Conosco invece quella per catturare le mamme di cucucciuti, avendola io stesso più volte sperimentata per gioco da bambino. I cucucciuti, si sa, nidificano sulla nuda terra, come tante altre specie passariformi. Individuatone il nido, è necessario nascondersi nei pressi, in attesa che vi si aggiucchi la mamma. Dopo qualche minuto, basta avviarsi verso il nido battendo forte i piedi per trovarvi mamma cucucciuta più che mai aggiuccata, il ciuffo abbassato, appiattita sulla covata per proteggerla dalla minaccia esterna. Con uno scatto misurato, catturala è, appunto, un gioco da bambini. Bambini di altri tempi, però, monelli di campagna espressi da un mondo dove giocare era anche un modo di allenarsi a sopravvivere.

giovedì 13 febbraio 2014

La panchina di Guastella. Brooklyn: un mestiere per Jack Passantino


di Ciro Guastella
NEW YORK. Jack Passantino aveva lasciato Marineo per recarsi in America, non tanto per necessità, perchè lui era benestante, infatti in paese non aveva alcun mestiere e campava con il reddito proveniente da alcune sue proprietà. 
Andò in America a trovare uno zio ed esplorare la possibilità di rimanervi. Era l’inizio degli anni ’60, a quei tempi tanti marinesi lasciavano il paese, molti avevano acquisito esperienza edile durante i lavori di costruzione della diga dello Scanzano e l’America si sa offriva opportunità enormi per chi aveva ambizione e volontà di inserirsi nel tessuto industriale del nuovo mondo. Jack valutava la possibilità di introdursi al lavoro ma era anche consapevole che bisognava impegnarsi e, francamente, a lui mancavano l’abitudine e la vocazione necessarie per farlo. L’evento determinante per convincerlo a rimanere fu quando, dopo poco tempo, la mamma e le sorelle da Marineo lo raggiunsero a Brooklyn. Ora Jack studiava su quale percorso avrebbe dovuto prendere la sua vita lavorativa. Il suo amico d’infanzia Decimo Francaviglia gli dava suggerimenti che lui spesso scartava perché non appropriati alla sua indole. Trovava diversi impieghi che nel giro di pochi giorni riteneva faticosi, specialmente la parte che richiedeva di alzarsi presto la mattina. Un giorno gli capitò di visitare una delle pizzerie del vicinato dove notava l’intenso traffico per l’acquisto delle delizie appena sfornate e fu in quell’occasione che un lampo di genio colpì Jack: avrebbe imparato a fare la pizza e si sarebbe messo in commercio per conto proprio! Così in cucina, avendo dato istruzione di non intervenire alla mamma e le sorelle presenti, Jack incominciò a fare pratica con l’impasto della farina sul tavolo, che per scarso senso di disciplina finiva per imbiancare parte del pavimento. Inoltre, una volta aggiungeva acqua ed un’altra volta farina per amalgamare l’impasto che appariva o molto duro o troppo liquido. Quando finalmente, dopo alcuni pugni bene assestati, ottenne un impasto consistente pressoché ragionevole, la pasta venne coperta e messa a meritato riposo per la lievitazione. Jack per la soddisfazione si fumò quasi l’intero pacchetto di Marlboro, mentre la mamma e le sorelle scuotevano la testa da destra a sinistra e da sinistra a destra. Jack ricordava che durante la leva militare, a Napoli, aveva visto i pizzaioli partenopei mentre lavoravano la pasta per la pizza e gli era rimasto impresso il lancio della sfoglia pastosa che, dopo alcune roteazioni in aria, atterrava nelle mani esperte del pizzaiolo: la scena oltre a dimostrare l’abilità del maestro, dava un effetto coreografico che i clienti approvavano con grande di ammirazione. Per stimolare il contesto visivo durante la preparazione, il nostro eroe concluse, questa procedura doveva essere assolutamente eseguita nel suo nuovo business. La pasta, intanto, era diventata quasi il doppio da quella che sembrava di essere all’inizio. Jack ne toglieva una manciata e la lavorava a forma di palla; per renderla quindi sottile ebbe difficoltà perché, data la natura elastica della mistura, ora stentava ad ottenere una sfoglia che arrivasse alla forma voluta. Alla fine si accontentò di qualcosa che appariva né quadrata, né rotonda o ovale, ma più vicina alla forma di un polmone con dissimili penzoloni laterali e qualche buco che aveva tentato di otturare. Delicatamente Jack la sollevava dal tavolo e, cercando di mantenerla intera, la lanciava in aria, ma l’indirizzo per il ritorno era vago perché, venendo giù, finiva a terra o a cavallo di qualche sedia. Altri lanci che provò durante la giornata vennero giù a coprirgli la testa o quelle delle donne che stavano a guardare. Alcune sfoglie, che tentò di afferrare fra le mani, rimanevano bucate ed attaccate alle dita. Ma c’erano anche le sfoglie che non ritornavano, erano quelle che sfidando la legge di gravità si appiccicavano al tetto della cucina ed erano tante da dare l’impressione di aver formato grezzi crateri lunari. Jack provò ancora simili esperimenti, ma con risultati altrettanto deludenti. Ricordo l'orgoglio di Jack mentre, dopo qualche tempo, mostrando il tetto della cucina ancora con le tracce della pasta, osservava la mostruosità e diceva che non era mai riuscito ad infornare nemmeno una pizzetta...! Il nostro mancato pizzaiolo, qualche anno dopo, trovò lavoro nel reparto trasporti urbani della città di New York dove vi rimase fino a quando raggiunse l’età per ottenere la pensione.

mercoledì 12 febbraio 2014

Ribaudo (Pd): Evitare la chiusura dell'Agenzia Entrate di Misilmeri


di Piazza Marineo
Il deputato del Pd Francesco Ribaudo (Pd), membro della commissione Finanze alla Camera, ha avuto un incontro con Antonio Gentile, direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, per trovare una soluzione all’annunciata chiusura degli uffici e dello sportello di Misilmeri. 
Ribaudo ha incontrato anche il direttore nazionale Attilio Befera, per discutere il programma di spending reviev che prevede il taglio di numerose altre sedi periferiche dell'Agenzia. Nei giorni scorsi, erano stati i giovani democratici di Misilmeri a sollecitare un intervento del deputato siciliano, preoccupati per le conseguenze che l’annunciato programma di revisione della spesa potrebbe avere sul territorio. Lo sportello di Misilmeri, infatti, serve un bacino di circa centomila abitanti, abbracciando anche i comuni di Belmonte Mezzagno, Bolognetta, Marineo, Villafrati, Cefalà Diana, Godrano, Baucina, Ciminna... “Ho incontrato sia il direttore Gentile che i commissari del Comune di Misilmeri – spiega Ribaudo – per suggerire il trasferimento degli uffici in locali comunali (la vecchia caserma del vigili urbani o un bene confiscato alla mafia) sgravando, in questo modo, l’Agenzia delle Entrate dai pesanti oneri di locazione. Ho detto ai miei interlocutori che, per gli utenti, recarsi a Palermo comporterebbe un impiego di tempo e di risorse maggiori, insostenibili in un momento di difficoltà economiche come quello attuale, e che la decisione annunciata assumerebbe contorni estremamente gravi con pesanti ricadute anche sul lavoro dei professionisti e delle aziende”.

martedì 11 febbraio 2014

Carnevale in giallo, cinque racconti Sellerio al castello di Mezzojuso


di Piazza Marineo
Carnevale, tempo di lazzi, scherzi, bagordi e soprattutto mascheramenti. Tempo di licenze, di assunzione temporanea di identità “altre”, in cui può accadere di tutto, a volte volutamente, facilmente mimetizzabile.
Ed ecco che la Sellerio, dopo Un Natale in giallo, Capodanno in giallo, Ferragosto in giallo, “sguinzaglia” i suoi giallisti per un Carnevale in giallo. Gian Mauro Costa, Alicia Giménez-Bartlett, Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Francesco Recami sono gli autori di cinque avvincenti racconti che hanno a che fare con questa festa spesso trattata con sufficienza se non come mero richiamo turistico. Uno dei racconti è ambientato a Mezzojuso, durante lo svolgimento del tradizionale Mastro di Campo, ed è scritto da Gian Mauro Costa. Carnevale in giallo verrà presentato domenica 16 febbraio, alle ore 17,00, nella Sala Convegni del Castello di Mezzojuso. L’iniziativa è organizzata dall’Associazione “Prospettive” e dalla rivista “Nuova Busambra”. Interverranno Vincenzo Cuttitta, Santo Lombino, Giuseppe Di Miceli, Nicola Grato. Sarà presente Gian Mauro Costa.

lunedì 10 febbraio 2014

Futuro e tradizione del copia-incolla: "tema" dell'assessore ai Servizi sociali


di Angela Costa
MARINEO. Avendo scelto di fare politica stando in trincea, sono stata accusata di populismo, incapacità, acredine e persino ira. Ma tutti questi peccati “capitali” sono opera mia, non riconducibili ad altri. 
Invece oramai è evidente “il vizietto” che accomuna parte, se non tutti, i componenti dell’attuale maggioranza che amministra il Comune di Marineo. Avevamo quasi dimenticato l’opera prima del nostro Peppe copiaincolla… pardon sig. Perrone, che eccomi spuntare quello che a prima vista sembrava il pensiero dell'assistente sociale dott.ssa Francesca Salerno, attuale assessore comunale ai Servizi sociali. Senonché il suo suggestivo ragionamento sui giovani d'oggi altro non è che copiaincollato dal discorso tenuto da Padre Anatrella a Toronto, durante la Giornata Mondiale della Gioventù (tratto dal sito Vatican.va). Sinceramente solo i tre quarti, perché il restante quarto è preso dal tema “I ragazzi di oggi” (temi gratis di Studenti.it) e da un forum per giovani (Leonardo.it). Scritti di suo pugno rimangono un paio di virgole, un punto e qualche esclamazione... Dopo un momento di incredulità, una sonora risata, è emersa, seriamente, una grande indignazione. Ma sono veramente convinti di amministrare un popolo di ignoranti? Tralasciando il fatto che ci si aspetta una certa capacità di scrittura, ma anche di pensiero, da chi vanta titoli accademici, master e specializzazioni, e non l’ingenuità di credere di non essere scoperti, quello che stupisce sopra ogni cosa è la loro convinzione di farla franca. Così come si propongono con trattati copiaincolla, arrogantemente fatti passare per propri, allo stesso modo ci propinano, o ci provano, notizie false e ingannevoli, convinti che nessuno li possa smascherare. Palude e immobilismo amministrativo, spregiudicato aumento delle tasse, e ora si permettono anche di offendere l’intelligenza dei marinesi. Cos’altro dobbiamo aspettarci ancora da questa amministrazione comunale? Mi verrebbe di suggerire il copiaincolla di progetti già pronti nei cassetti del Municipio, già presentati e qualcuno anche finanziato. Ma di quel tipo di copiatura sembra che gli amministratori vogliano farne a meno. Peccato!!

domenica 9 febbraio 2014

Fichi d’india o pane dei poveri?


di Pippo Oddo
In Sicilia, si sa, anche la natura è cultura. Il forestiero che visita l'isola per la prima volta deve essere re degli indifferenti per non subire il fascino di una pianta di ficodindia carica di frutti maturi: bianchi, rossi o gialli che siano.
Il fotografo ne fissa immediatamente l'immagine nella pellicola, il pittore non perde tempo a dipingerla, lo scrittore prova spesso gioia a descriverla. Si dà persino il caso che se ne enfatizzi l'importanza oltre ogni credere. È ciò che fece John Galt, scrittore e drammaturgo britannico che visitò l'Isola nel 1808. «In ogni parte voi v'incontrate piantagioni di fichi d'India, in ogni villaggio coperte ne sono le stalle. Se egli porta un paniere, questo non sarà d'altro pieno che di fichi d'India. Ogni asino che la mattina s'avvii alla città, è carico di fichi d'India. Un contadino che in sul far della sera stia sopra una pietra a contar monete di rame, non fa se non il conto di quel che gli hanno prodotto i suoi fichi d'India. Se un genere è cattivo, si dice che non vale un fico d'India, mentre non v'è cosa più squisita al mondo che un fico d'India. Ecco il solo lusso che gode il povero». Esagerato! A parte il piccolo particolare che mai Siciliano ha scomodato un ficodindia per evocare l'immagine di merce scadente, tutti i ficodindieti censiti nell'Isola dal Catasto borbonico nel 1853 coprivano una superficie pari a 7.078 ettari di coltura specializzata e 1.744 di coltura promiscua, non di più. Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare: qualche elemento di verità si può trovare tra le fole propalate da Galt. Ha perfettamente ragione l'illustre suddito di Sua Maestà Britannica nell'affermare che «non v'è cosa più squisita al mondo che un fico d'India». Si può inoltre concordare tranquillamente con lui quando conclude che il succulento frutto era il solo lusso di cui godeva il povero di Sicilia. Ancora cento anni dopo il suo viaggio la letteratura folklorica siciliana era unanime nel ritenere che, per i meno abbienti, i fichidindia facevano le veci del pane, da agosto a dicembre. De Gasparin, agronomo francese che visitò la Sicilia una trentina d'anni dopo, definì il popolare frutto «la manna, la provvidenza della Sicilia [...], ciò che il banano è per i paesi equinoziali e l'albero del pane per le isole dell'Oceano Pacifico». I fichidindia sono «la provvidenza del popolino» gli faceva eco nel 1891 un suo illustre connazionale, René Bazin, futuro membro dell'Accademia di Francia. «Con una ventina di fichi d'India – il valore di due soldi forse – e un po' di pane, un Siciliano trova la maniera di fare la prima colazione, di pranzare, di cenare e di cantare nell’intervallo. Sono freschi, sono sani. Avvolti in carta sottile si conservano fino ad aprile». Insomma, nella Sicilia dei tempi passati i fichidindia hanno assolto alla medesima funzione cui assolvevano le castagne nell'Italia continentale. Pane dei poveri, dunque! Ma da quando? I documenti più antichi, letterari e iconografici, che attestano la presenza del provvidenziale cactus nell'Isola non sono anteriori al Seicento. Ad affermarlo sono i professori Giuseppe Barbera e Paolo Inglese dell'Istituto di Coltivazioni Arboree dell'Università di Palermo, ossia «i maggiori conoscitori italiani dì fichidindia». Dalle loro ricerche abbiamo appreso tante cose. Sappiamo per certo, oramai, che la pianta è originaria dell'altopiano messicano dove sono stati rinvenuti alcuni reperti fossili (semi di ficodindia) databili nel settimo millennio prima dell'era cristiana. In quell'area è peraltro fiorita una curiosa leggenda relativa alla fondazione di Tenochtitlan, già capitale dell'impero degli Aztechi e attuale Città del Messico. «I nomadi che scendevano dal nord verso il centro della regione erano guidati da una profezia: la loro peregrinazione avrebbe avuto fine quando avessero incontrato un'opunzia [pianta di ficodindia] che sorgeva dalla fenditura di una roccia con sopra un'aquila che si nutriva di un serpente». Ebbene, questa scena è ancora oggi riprodotta nello stemma degli Stati Uniti del Messico. Dal Messico il ficodindia è approdato, dopo la scoperta dell'America, nel Vecchio Continente e in alcune regioni africane. Si è però acclimatato solo dove ha trovato l'ambiente adatto. Quello siciliano si è dimostrato tale, fino al punto d'insinuare in qualche studioso il sospetto che la spinosa pianta potesse avere remote origini locali. Ma che venisse da fuori non hanno mai dubitato i Siciliani, se non altro perché il suo nome (comunque pronunciato nelle parlate locali) ha sempre evocato l'immagine di un frutto originario dell'India. Ma non mancano le eccezioni. A Modica, per esempio, i fichidindia si chiamano fìcumori, cioè fichi dei Mori. Più difficile è capire quale origine gli attribuiscano i Ragusani, visto che li chiamano ficupali, fichi delle pale, cioè dei cladodi, di quelle strane articolazioni spinose che fungono da rami e da foglie. Ma, a ben riflettere, anche a Ragusa si tramanda la legenda, nota in tutta l'Isola, secondo la quale in tempi lontani i fichidindia erano velenosi e perciò furono introdotti in Sicilia dai Turchi, che volevano far morire la «carne battezzata», cioè i Siciliani; ma per fortuna, come ci ricorda Pitrè, «fosse miracolo, fosse benefica diversità di clima, vi si acclimò felicemente e cominciò a dar frutti sani e dolci». A ogni buon conto, d'origine indiana, mora, turca o messicana, il ficodindia c'è ormai da tempo, in Sicilia. Ne connota inconfondibilmente il paesaggio agrario, comunque allevato: in funzione di siepe o di foraggio, di coltura promiscua o specializzata. C'è da chiedersi, semmai, che razza di Sicilia sarebbe l'Isola senza i fichidindia. Pianta esotica quanto si vuole, il ficodindia deve non poca della sua fortuna a questa regione eh'è continente in miniatura, terra di grande inventiva, culla dei primi frutti scuzzulati, di quei meravigliosi bastarduna vermigli che d'autunno fanno a tutte le ore bella mostra di sé sui carrettini dei venditori ambulanti delle città siciliane e sulle bancarelle di tutta l'Italia e che, dagli aeroporti di Palermo e Catania, spiccano il volo per raggiungere mercati lontani, ovunque li richiedano gli estimatori. Sì, sono stati prodotti in Sicilia i primi ficodindia "scozzolati", checché ne dicano gli Spagnoli. E non poteva essere diversamente, considerate le condizioni in cui avvenne la prima "scozzolatura". «È voce generale – scriveva nel 1884 l'agronomo siciliano Alfonso Spagna – che un colono di Capaci si rifiutasse di vendere la produzione dei suoi fichi d'India ad un conterraneo che vi aspirava e che costui, indignato del diniego, vendicasse la ricusa con la violenza, atterrandogli i frutti in piena fioritura. Quest'eccesso vandalico produsse effetti contrari alle sinistre intenzioni del malvagio autore. I frutti rinacquero poco dopo negli internodi in minor numero, ma turgidi e promettenti oltre l'usato e vennero a maturazione con buccia fina e polpa così serrata e consistente da potersi conservare a magazzino per più mesi e resistere agli eventi delle lunghe navigazioni». Mai sfregio è stato così benefico e illuminante. «Un cotal Vincenzo Ferrante da Bellolampo, scosso dagli effetti meravigliosi di quel trovato, avrebbe scoccolato i suoi fichidindia in fioritura con pari successo e da quel tempo finora lo scoccolamento delle bacche verdi fu adoperato in larga misura per ottenere da quella Cactea i migliori frutti desiderabili». I fichidindia un tempo si mangiavano anche per devozione: se ne facevano grosse scorpacciate a digiuno nei giorni di vendemmia. Oltre che allo stato fresco, si consumavano – come adesso – sotto forma di marmellata e mostarda. Con le bucce si fanno squisite frittelle, la polpa viene adoperata nella preparazione di ottimi liquori. Il succo di ficodindia è importante rimedio contro la tosse. I frutti più scadenti, i cosiddetti cularrussa (che vengono a maturazione fuori stagione) si sono sempre dati in pasto ai porci. I fiori essiccati – che tutt'ora si vendono a caro prezzo nelle bancarelle dei vecchi mercati di Palermo e nelle migliori erboristerie dell’Isola – si usano per preparare, talvolta su consiglio medico, infusi e decotti diuretici. Le pale, oltre a integrare l'alimentazione di bovini, ovini, caprini e, all'occorrenza, anche di asini affamati, possono essere considerate veri e propri farmaci, a voler credere a certe "medichesse del popolo" dal sussiego da gran dottoroni. Una pala fresca legata al collo sconfigge il mal di gola. Ma cosa non si curava un tempo con le pale di ficodindia? A parte il tumore alla milza (per il quale bisognava seguire un rituale complicato e recitare un'orazione che pochi conoscevano), dalle malattie cutanee alle slogature, alle lussazioni, alle febbri malariche, ai rilassamenti dell'ugola, alla stessa tubercolosi... tutto si curava con le pale di ficodindia "vergini", che non avessero, cioè, mai prodotto fiori. Il segreto stava (e per molti versi sta ancora) nel saperle spaccare come Dio comanda e nel preparare a regola d'arte le "picate" e i "cataplasmi". Con le pale si costruivano alcuni giocattoli: sedioline, tavolinetti, carrettini siciliani. Le pale vecchie e ingobbite sostituivano i guanti nella raccolta dei fichidindia. Fungevano da contenitori per la manna fluente dai frassini sfregiati dal coltello del mannaloro; da piatti in certi banchetti campestri, durante i quali, se mancava l'acqua e bisognava pulire il coltello, non era un problema: bastava affondare la lama in una pala. Le pale secche facevano degnamente le veci della paglia nell'alimentazione del fuoco. E se non proprio le pale, quanto meno i frutti di ficodindia hanno sempre eccitato la fantasia creativa anche di gente che vive in città. Per incrementare le vendite, un ambulante palermitano inventò “iocu d'a ficurinia c'a spingula”. «Il gioco consiste – si legge in un libro di Giuseppe Piazza – nel segnare con uno spillo, ad insaputa dei clienti, un frutto da quelli scelti da mangiare e a colui che toccherà il fico d'India segnato, toccherà anche di pagare il conto». Insomma, questa pianta multifunzionale importata dal Messico in Sicilia continua a testimoniare umilmente di tante storie silenziose e di lunga durata, di cui però oramai si sta perdendo purtroppo persino la memoria. Spetta quindi innanzitutto ai siciliani recuperarne storia e utilizzazioni nei progetti di animazione e sviluppo rurale eco-sostenibile.

venerdì 7 febbraio 2014

Il mondo dei giovani: chi sono? Che cosa cercano?


di P. Tony Anatrella
Mi è stato chiesto di tracciare il profilo dei giovani d’oggi da un punto di vista sociologico e psicologico, sottolineando come possono essere influenzati da movimenti ideologici e come si pongono in rapporto alla Chiesa. Vasto e ambizioso programma, che cercherò di rispettare affrontando le varie questioni in maniera sintetica. 
Parlerò dei giovani a partire della mia esperienza psicanalitica e psichiatrica del mondo occidentale. Bisogna sempre fare molta attenzione, quando si parla di giovani, a non passare subito alle generalizzazioni: quindi, in base alle vostre realtà culturali, potrete confermare o completare quanto dirò. Tuttavia si possono constatare dei tratti comuni nella psicologia e nella sociologia dei giovani del mondo intero. Il peso del modello economico del liberalismo, della globalizzazione, dei cambiamenti nella coppia e nella famiglia, delle rappresentazioni della sessualità, l’impatto della musica, della televisione, del cinema e di Internet influenzano e unificano considerevolmente la mentalità giovanile di quasi tutti i paesi. (continua)

giovedì 6 febbraio 2014

Happy hour con i giovani al castello di Marineo: i 10 comandamenti


di Piazza Marineo
MARINEO. I 10 comandamenti: V non uccidere. Giovedì 20 febbraio, alle ore 21, nuovo incontro al castello di Marineo.

lunedì 3 febbraio 2014

Fave, favalori e generali


di Pippo Oddo
MARINEO. A suggerirmi il titolo di questa "storia" è stato un ricordo d'infanzia che mi piace raccontare in omaggio, tardivo ma pur sempre commosso, alla memoria dell'ultimo favaloro del mio paese, la cui razza si estinse all'epoca della riforma agraria.
Si chiamavano favalori, ma erano in realtà poveri diavoli che possedevano soltanto la zappa con la quale combattevano nella difficile trincea della sopravvivenza. Coltivavano fave, ovviamente, ma in campi altrui, concessigli di anno in anno, con contrattazione verbale revocabile in qualsiasi momento, dai cosiddetti gabelloti, affittuari di estesi latifondi e monopolisti del mercato dei soprusi e dell'usura.Era, l'ultimo favaloro del mio paese, reduce di entrambe le guerre mondiali, curioso tipo di chiacchierone dal linguaggio arcaico intriso di altisonanti metafore militari non proprio in tono con la sua spaventevole magrezza che lo rendeva degno di fare la controfigura dello scheletro. Ma era un piacere vederlo infiammarsi come uno zolfanello nel raccontare episodi di vita vissuta al fronte, intramezzati da rustici combattimenti con le erbacce del campo che coltivava, le mosche, i pidocchi, i corvi che gli rubavano il pane nel "saccuni", uno schifoso campiere che a maggio lo teneva d'occhio per impedirgli di addentare anche una sola fava, quel cappio da forca di suo figlio che non ne voleva «mancu a broru» di combattere con le fave e con lo scirocco che le faceva seccare. Fanciullo, sui sette o otto anni, ebbi modo di ascoltarlo tante volte. Ma il ricordo cui accennavo è legato ad una festa di battesimo allietata da una montagna di mandorle tostate, calia (ceci abbrustoliti) e grosse cannate di vino spillato direttamente dalla piccola botte disposta in un cantuccio della stessa stanza dove si rosicchiava calia a suon di zufolo e d'organetto, con cinica noncuranza del piccolo festeggiato che strillava sconsolatamente. Il favaloro, per sua sventura completamente privo di denti, aveva poco da rosicchiare, però tracannava vino e parlava. Nelle grazie di Bacco, parlava più di un giudice povero, senza però mai discostarsi dall'argomento che, a quanto pare, era sempre quello negli ultimi giorni di aprile: fame, fame con la effe maiuscola, e tuttavia non disperata giacché, a suo dire, a difesa degli affamati cronici sarebbero presto scesi in campo, uno per volta, tre valorosi strateghi: il generale Fava, il generale Mazza e il generale Sulami. Chi fossero i tre prodi, lo sapevano quasi tutti gli invitati: i soli a ignorarlo eravamo io e mia sorella, che aveva tre anni meno di me. Erano colorite personificazioni dei verdi baccelli di fava, dell'arnese per battere alla svelta le prime spighe ingiallite di giugno, e delle dita esperte dei “sulamari” (altro modo di chiamare i morti di fame) che, razzolando come galline tra la polvere dell'aia, dopo che il grano era stato separato dalla pula, insaccato e portato via dai muli, cercavano grazia di Dio sin dentro i formicai. Che piaccia o no, a questo punto bisogna prender commiato dal favaloro per rendere, spero, degno onore al generale Fava. Coltivata in quasi tutto il bacino del Mediterraneo fin dall'età del bronzo, la fava è stata per millenni architrave dell'alimentazione di molti popoli. Eppure in Egitto, dove attualmente se ne produce più d'ogni altra parte del mondo e se ne consuma persino a prima colazione (come ci ricordano i romanzi di Nagib Mahfùz), la fava non si inserì subito nel panorama produttivo agricolo: «Nel loro paese – si legge nel secondo libro delle Storie di Erotodo – gli Egiziani non seminano assolutamente fave; se crescono, crude non ne mangiano, né se ne nutrono dopo averle cotte: i sacerdoti non ne sopportano neppure la vista, ritenendo che si tratti di un legume impuro». Lo stupore del padre della storia non poteva però spingersi più oltre di tanto. Vero era che nel suo paese e nella stessa Magna Grecia, fave se ne coltivavano tante, ma era notorio che i sacerdoti di Giove non potevano cibarsene e si astenevano persino dal guardarle. Attento com'era, Erotodo non poteva oltre tutto ignorare le analoghe proibizioni dei vecchi riti orfici e le note fobie di Pitagora che, inseguito dai nemici, non aveva esitato a lasciarsi catturare piuttosto che attraversare un campo di fave. Di fave lesse in Grecia si facevano grosse scorpacciate nel mese di antesterione (febbraio), in omaggio a Bacco e Mercurio per le anime dei defunti. Le stesse usanze si riscontrano nelle antiche celebrazioni mortuarie romane. Per non parlare dei frati del monastero di Cluny che, costretti a mangiare una razione di fave al giorno, venivano autorizzati dal priore ad ingoiarne il doppio in occasione della commemorazione dei defunti, «perché potessero sostenersi meglio durante la lunga veglia funebre». Riti del genere sopravvivono fino ai nostri giorni: pietanze a base di fave se ne consumano ancora molte il 2 novembre in Italia, al sud come al centro e al nord. Dove non compaiono direttamente, le fave onorano la tradizione sotto forma di pesci o dolci, in modo non necessariamente mascherato, a giudicare dagli artistici baccelli di marzapane che la mattina del 2 gennaio, festa dei morti, i bimbi di Sicilia rinvengono tra i doni depositati nottetempo nel “cannistru” dai parenti passati a miglior vita. La fava dunque come tramite tra i morti e i vivi. Ne sapeva qualcosa un vecchietto del mio paese che, non potendosi permettere altrimenti il lusso di mangiare carne, teneva in tasca una fava larga legata alla punta di un laccio e, quando vedeva qualche gallina razzolare in un letamaio, gliela gettava in pasto (al riparo di occhi indiscreti) con la speranza che abboccasse come un pesce all’amo… Né può essere motivo di meraviglia il fatto che si chiama fava, in talune regioni d'Italia, l'organo di cui più si vanta l'umano maschio. Fava portentosa, a sentire certi toscanacci, fava acquietaprurito, fava consolavedove, fava per ogni gusto, da salotto e da sagrestia, come quella immortalata dal pennello di un ignoto imbrattamuri di Arezzo: «Dio ci guardi dai fulmini e dai tuoni e dalla fava di don Calone!». Simbolo fallico sin troppo scoperto, la fava è quindi sinonimo della vita che, rinnovandosi, continua. Altro che simbolo di morte, come ci vorrebbero far credere certi studiosi che si aggrappano persino alle macchioline scure del candido fiore della fava con l'illusione di fargli reggere il peso delle loro folli elucubrazioni! I contadini poveri di Sicilia hanno, al contrario, sempre considerato la fava un provvidenziale dono divino, una sorta di manna caduta dal Cielo, atta ad assicurare la sopravvivenza della specie umana persino in condizioni disperate. «Si sa per tradizione – scriveva nel 1898 il Cav. Uff. Salvatore Butera – che nel 1803 [anno di grande carestia] non pochi contadini di Vicari nell'epoca della seminagione delle fave, tenevano queste in un bagno d'acqua fresca per poco tempo, perché si rammollissero, indi le tagliavano a metta e così la parte superiore nella quale restava l'embrione la seminavano, l'altra metta la mangiavano per disfamarsi». Per farla breve, neppure a Baucina (ridente paesino del Palermitano) può trovare mai credito la teoria che considera la fava simbolo di morte, con buona pace di Pitré che pubblicò questa curiosa credenza tutta baucinese: «Mettendo una fava entro un teschio e poi seminandola, le fave seminate produrranno fave molto cucivuli». Ora, senza voler mettere minimamente in discussione la veridicità di quanto ha scritto lo studioso palermitano, non può esserci ombra di dubbio che i contadini di Baucina ricorressero al macabro rito solo in casi estremi, e sempre animati dalla speranza di produrre fave di facile cottura, adatte a preparare il maccu, erede diretto della "puls fabata", nota poltiglia di fave che i Romani offrivano in sacrificio a Giunone. Macco, impareggiabile capolavoro di cucina povera, vanto delle massaie rurali di tutta l'Italia! Però, onestamente, è in Sicilia che la sostanziosa pietanza raggiunge una qualità d'eccellenza, capace di suscitare rare suggestioni gustative, ma anche visive e olfattive. Comunque preparato, con fave secche o verdi, con cotenne di maiale o assieme ad altri legumi (come nella migliore tradizione delle tavolate di san Giuseppe), il maccu siciliano è spesso insaporito dal finocchietto riccio, di montagna, come... la pasta con le sarde, stavo per dire. Ma perché importunare una squisitezza culinaria d'origine urbana avendo a portata di mano tanti piatti campagnoli col finocchietto che non temono il confronto con Sua Maestà, la pasta con le sarde? Penso alla frittedda di favette verdi, ai taglierini di casa con le fave che i devoti della Madonna del Furi la Domenica in Albis fino a pochi decenni addietro cucinavano nei campi attorno al santuario, in quel di Cinisi. Penso anche alla pasta con faviani e ricotta del Ragusano, alle fave pizzicate, e persino a quelle a cunigghiu del Palermitano, quando sono cucinate come Dio comanda: col finocchietto riccio, di montagna. Che arma potente, però, la fava, direbbe la buonanima del favaloro. Non si possono contare i servizi da essa resi ai siciliani. Se, subito dopo l'unità d'Italia, i contadini di Sicilia osservati da Franchetti e Sonnino erano meno denutriti di quelli padani, e per di più nemmeno sfiorati dalla pellagra, qualche piccolo merito l'avrà pure avuto l'umile pianticella coltivata dai favalori. «La fava – scriveva nel 1902 il geografo Paolo Revelli – colla sua notevole quantità di materie azotate, costituisce non solo la base principale dell'alimentazione del contadino modicano, ma quasi generalmente la sola alimentazione». Ma solo di quello modicano? In tutta la Sicilia fino ai primi anni sessanta, della fava (come del porco) non si sprecava nulla: con i germogli più teneri si rimediava una squisita insalata e, all'occorrenza, una minestra verde; e, in periodi di fame nera, si cucinava finanche la lupa, noto parassita della fava che i botanici chiamano Orobanche major. Gli stessi steli secchi, almeno dalle mie parti, erano fonte di riscaldamento domestico, alimento per forni, focolari e luminarie, combustibile industriale, se industrie si potevano chiamare le carcare, quelle rudimentali fornaci per la preparazione del gesso e della calce viva, o gli stazzuna dove si fabbricavano tegole e mattonelle di terracotta. La cenere degli steli divorati dal fuoco faceva le veci del sapone nelle diuturne "battaglie" al fiume delle lavandaie. Quest'ultima circostanza dovette impressionare non poco Goethe, considerato ciò che scrisse: «Lo stelo della fava si brucia e con la cenere che ne risulta lavano la biancheria. Di sapone non fanno uso». Rimane però il fatto che nemmeno le fave sono esenti da nei: si credeva che, mangiate allo stato crudo, facessero venire i vermi. Ma, a parte questo piccolo inconveniente, cui quasi nessuno badava, le fave erano ritenute rimedio sicuro contro molti mali. Grosse scorpacciate di fave verdi erano consigliate a Castelbuono per combattere le febbri malariche recidive, a meno che non si preferisse masticare ciuffi di artemisia già posti dentro le scarpe nella stagione delle fave verdi. Il tumore alla milza non era poi male incurabile a Palermo, sempre che chi assisteva il paziente non provasse schifo a sfilare un rustico rosario con grani di fava già ammollati nell'urina di un coetaneo dell'ammalato, recitando nel contempo uno scongiuro noto alle fattucchiere. Persino le prescrizioni mediche a volte prevedevano (e prevedono ancora) l'uso di fave. Senza scomodare le ricette secentesche e i farmaci consigliati dal protomedico palermitano Alaimo (a base di cimici e bucce di fave verdi) è un fatto che ai sofferenti di diarrea tutt'oggi si consiglia di mangiare fave lesse, non già da ciarlatani, ma da medici seri, fedeli al giuramento di Ippocrate. Potrei chiuderla qui, se non dovessi invitare i lettori a quella chiassosa, tradizionale abbuffata collettiva di fave che da alcuni lustri si chiama "Sagra" (delle fave, manco a dirlo) e che si ripropone puntualmente ogni anno nell'esclusiva cornice madonita della piazza di Isnello in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo. E, già che me ne ricordo, non vorrei venir meno al dovere di segnalare anche la Sagra del macco, di cui mena vanto l'operosa città di Raffadali, nell'Agrigentino.

sabato 1 febbraio 2014

Sole, pioggia, vento: triste spettacolo del palco montato in piazza Castello


di Barbara Cangialosi
MARINEO. Che il vento di scirocco di questi giorni abbia provocato disagi alla popolazione era - di fatto - un dato scontato. Meteoropatie e emicranie si sono diffuse in lungo e in largo tra la cittadinanza e, si sa, quello del tempo è tradizionalmente l'argomento di discussione più in voga tra la gente. 
Ma nessuno (o almeno nessuna persona previgente) avrebbe mai immaginato che le forti raffiche di vento (fino a 90 km orari) che hanno colpito il nostro Comune e non solo, sarebbero riuscite a mettere a repentaglio la sicurezza di tutti, spostando di fatto pericolosi oggetti di grosse dimensioni. Certo, si sa, gli agenti atmosferici a volte sono imprevedibili; tuttavia è quasi sempre l'incuria umana a dimostrarsi la vera causa di terribili eventi. Come tanti marinesi avranno notato, infatti, a distanza di numerosi mesi in Piazza Castello c'è ancora montato il palco, anche se, a dirla tutta, ormai di “montato” resta ben poco. Avevamo immaginato un brindisi di fine anno, una festa per la cittadinanza, anche una semplice esibizione che giustificasse, agli occhi dell'opinione pubblica, tale sbadataggine da parte dell'amministrazione. La struttura è lì da ormai diversi mesi, esposta ora al freddo, ora all'acqua, ora ai raggi del sole. I visitatori attenti del nostro tanto amato Castello, conosciuto in tutta la Sicilia per via degli importantissimi reperti ivi custoditi, si trovano davanti questa struttura ingombrante e fatiscente. Se non fosse che da qualche mese il palco, per tanto tempo usato come luogo di gioco per i tanti bambini che si dilettavano a saltarvi sopra o ad immaginare un concerto dei quale erano i protagonisti, appare oggi non omogeneo e vuoto in alcuni punti. I pannelli, che temevamo fossero stati tolti e rubati da qualche ignobile individuo, sono in realtà sparpagliati nel perimetro della struttura, ora sopra il palco ora sotto lo stesso. E così il vento, amico di acqua, freddo e sole che hanno in questi mesi esibito la loro forza proprio su quel palco, adesso ha deciso di portare a termine il lavoro iniziato. E così, i tanti pannelli staccati nel corso dei mesi sono riusciti persino a prendere il volo! non curanti di tutto ciò che vi sta attorno, delle automobili passanti e dei bambini avventurieri. Per quanto ancora dovremo assistere a questo triste spettacolo?