lunedì 13 aprile 2015

Intitolata una via a Vincenza Benanti, lavoratrice della Triangle Shirtwaist


di Nuccio Benanti
Sabato 11 aprile il Comune di Marineo ha intitolato il nome di una via (in zona Gorgaccio) a Vincenza Benanti, giovane marinese vittima del lavoro il 25 marzo 1911. Nel corso della giornata è stato presentato anche il libro di Ester Rizzo che ricostruisce le dinamiche di quel tragico evento: “Camicette bianche. Oltre l’8 marzo” (Navarra editore).
Nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company di New York persero la vita 146 lavoratori e lavoratrici. In realtà, ben 126 erano donne, in maggioranza ragazze di un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. E fra esse 38 erano di nazionalità italiana, di cui 24 partite dalla Sicilia. Vincenza Benanti, figlia di Girolamo, era nata a Marineo il 18 febbraio 1888. Era emigrata nel 1905 ed aveva trovato residenza, assieme alla madre, Francesca Lo Pinto, a New York, al 17 Marlon Street. Come la maggioranza delle sue giovanissime colleghe di lavoro, cuciva camicette per 7 dollari a settimana, costretta a turni di lavoro massacranti di 12, ed anche 14 ore al giorno, con straordinari sottopagati e controlli rigidissimi. Solo dopo l’incendio è stato scoperto che i proprietari della fabbrica tenevano le porte con i lucchetti chiusi a chiave per poter controllare, a fine turno di lavoro, le borse delle oltre 500 lavoratrici. Anche per questo motivo molte donne sono state ritrovate carbonizzate, morte bruciate, soffocate o calpestate mentre cercavano di aprirsi una via di fuga dentro l’edificio in fiamme. Alcune di loro, tra cui Vincenza Benanti, hanno addirittura scelto di saltare dalle finestre del palazzo, nell’estremo tentativo di sottrarsi alla morsa del fuoco. Su Vincenza i medici legali hanno, infatti, riscontrato una tipologia di ferite compatibili con da caduta dal nono piano, dove prestava servizio. Il certificato di morte comunque indica, genericamente, come causa di morte l'asfissia. Quel sabato pomeriggio Vincenza era, dunque, seduta davanti alla sua macchina per cucire. Quando è scoppiato l’incendio mancavano pochi minuti alla fine del turno settimanale di lavoro. Le cause non sono state mai scoperte. Ma in pochi istanti il fuoco avvolse i mucchi di stoffa e camicette già confezionate di ben tre piani dell’edificio: l’ottavo, il nono e il decimo. Il giornale New York Times riferì che in pochi attimi «fu l'inferno». Molte porte rimasero con i lucchetti chiusi perché, nel frattempo, alla vista delle fiamme i capisquadra impiegati al controllo si erano messi in salvo. I giornali riferirono che la scala antincendio si spezzò subito a causa dell’eccessivo peso delle persone che vi transitarono sopra. E poi bruciò anche la struttura che reggeva l'ascensore, che precipitò al piano terra con il suo carico umano. Fu allora che molte ragazze, strette dalla morsa del caldo e del fumo, si affacciarono alle finestre per respirare. Ma quando le lingue di fuoco le raggiunsero cominciarono a lanciarsi per non bruciare vive. Furono scene strazianti, con i soccorritori impotenti. Scene che i giornali americani descrissero nei minimi dettagli: una donna baciò un uomo che aveva accanto e poi si lasciarono andare nel vuoto; due sorelle precipitarono tenendosi per la mano; una giovane donna si lasciò cadere e sembrava una torcia umana. Una «macabra grandinata», scrisse un reporter. Vincenza Benanti anche lei – molto probabilmente - si lanciò, forse nella speranza di aggrapparsi all’edificio accanto o nel tentativo di raggiungere la rete dei pompieri. Ma terminò anche lei la sua giovane vita sul marciapiede sottostante. Molte ragazze furono identificate nei giorni seguenti da un anello, da un pezzo di vestito o da una scarpa. Vincenza venne identificata, qualche giorno dopo, dal fratello Fedele. Una sua cugina, Tessa Benanti, di soli 16 anni, figura nella lista dei sopravvissuti. La madre di Vincenza, Francesca Lo Pinto, già malata di cancro, morì poco tempo dopo e fu sepolta assieme alla figlia. L’iscrizione lapide recita: “Dato il dolore di sua figlia, la madre ha cessato di vivere”. I proprietari della fabbrica uscirono assolti dal processo, mentre le assicurazioni risarcirono le famiglie con pochi dollari. Nei mesi seguenti furono istituite delle commissioni per indagare sulle condizioni di vita nelle fabbriche, e furono apportate importanti modifiche al diritto del lavoro dei lavoratori e delle lavoratrici dello Stato di New York. Per questo motivo, ed anche per un equivoco storico, questo incidente viene spesso ricordato come l'atto di origine della festa della donna dell'8 marzo.