martedì 7 aprile 2015

In Sicilia si afferma sempre di più la coltivazione dei grani antichi


di Antonino Barcia
Negli ultimi anni si è assistito ad un preoccupante aumento delle intolleranze alimentari causate da molecole contenute negli alimenti in quantità eccessive come ad esempio il glutine (principale proteina del grano) responsabile della celiachia, definita molto genericamente come: “malassorbimento intestinale” della proteina del grano. 
Una recente indagine condotta da 15 Centri della Società Italiana di Gastroenterologia ed Epatologia Pediatrica su circa 18.000 studenti delle scuole medie inferiori ha dimostrato la presenza di celiachia, pari a 1 caso su 150. A questo punto nasce un interrogativo: “come mai in pochi decenni si è passati da un’incidenza di 1 a migliaia, ad un’incidenza di 1 a 150, tanto da far sospettare un incremento ancora maggiore (1 a 100) nell’imminente futuro?”. Di fronte a questa situazione, (oltre alle altre possibili cause scatenanti, attualmente in fase di studio), alcuni ricercatori stanno estendendo le loro osservazioni anche alle moderne varietà di grano (monitorando quindi il consumo attuale di pane e pasta), dal momento che da millenni fino a circa 40 anni fa circa, si sono normalmente consumati i grani antichi (e i loro sottoprodotti) come alimento base, con incidenze della famosa intolleranza al glutine molto basse! Per capire meglio tale fenomeno, bisogna fare un’attenta analisi storica della granicoltura siciliana e distinguere due periodi: il primo periodo va dalla comparsa dell’agricoltura fino al 1950 circa e l’altro, molto più breve dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. In Sicilia, si hanno notizie indirette delle coltivazioni di grano da reperti archeologici datati 7.300-6.500 A.C, dove sono stati trovati paglia e chicchi di grano carbonizzati. L’isola divenne un vero e proprio granaio prima con i Greci e poi con l’Impero Romano. Tra il VIII e il XIII secolo si ebbe un notevole incremento della granicoltura. La coltura del grano tornò ad avere importanza a partire dalla metà del quattrocento, allorché la popolazione cominciò a ricrescere vertiginosamente. Essa vide poi una particolare fioritura tra la fine del 1700 e gli inizi del 1900. Fino al 1900 circa, i grani antichi rappresentarono il patrimonio genetico appartenente alla biodiversità mediterranea e frutto della selezione fatta dai contadini, praticamente, dalla nascita dell’agricoltura. Fra i grani antichi siciliani si ricordano la varietà Tumminìa o Timilìa: antico grano duro a ciclo breve ampiamente diffuso in Sicilia dove si hanno notizie risalenti addirittura all’assedio di Lentini (guerra dei 90 anni, 1282-1372), si legge infatti: …“Erasi in quell’epoca e per quella guerra venne introdotta la coltivazione del grano marzuolo, che allora diceasi Diminia perché, venendo in maturità in minor tempo degli altri frumenti, credeano gli agricoltori di correre meno pericolo. Pure ciò nulla giovò a’ Lentinesi nell’aprile del 1359” […]- Palermo, 1883 - Niccolò Palmeri, Carlo Somma – Opere edite et inedite - Pagina 802, Stabilimento Tipografico P. Pensante - . Venne coltivato ampiamente anche nelle nostre campagne di Marineo fino agli anni’70-80 del secolo scorso. Generalmente veniva seminato dai nostri nonni nel mese di marzo nelle annate molto piovose che non consentivano a novembre-dicembre le regolari semine di altri grani a ciclo più lungo. Di questo cereale se ne conoscono due sottospecie: Timilia a reste nere (Triticum durum Desf. var. reichenbachii Koern) e Timilia a reste bianche (Triticum durum Desf. var. affine Koern). La sua semola presenta un glutine meno forte rispetto alle varietà moderne. È ideale sia per la pastificazione ma soprattutto per la panificazione, oggi rivalutato nell’areale di Castelvetrano, dove un suo sottoprodotto il “pane nero di Castelvetrano” rappresenta un’importante presidio Slow Food. Fra i grani antichi a ciclo più lungo si annovera il grano Russello (Triticum durum Desf. var. hordeiforme Koern) secondo alcuni studiosi tra i quali il Prof. Ugo De Cillis (I frumenti siciliani-Pubblicazione n. 9- 1942) è stata una delle popolazioni di grano maggiormente coltivate in Sicilia (a Marineo era conosciuto con il nome di Ruscia, Gianti, o Gianti Russu) chiamato così proprio per l'altezza della spiga che in certe annate superava anche il metro e mezzo, con la granella più grande circa due volte rispetto ad un grano moderno. La cariosside (chicco) presenta un più basso contenuto in glutine fino al 30-40 % in meno rispetto alle moderne varietà canadesi. Dalle semole di questo splendido cereale venivano prodotti pane e pasta di ottima qualità e salubrità. La sua coltivazione venne sempre più accantonata, in quanto, l’altezza delle spighe, in certe annate ricche di vento e pioggia, rappresentava un fattore limitante: la pianta infatti si “allettava” (si adagiava sul terreno) rendendo difficoltosa la raccolta. Da ricordare fra i grani antichi anche le varietà Realforte (Triticum durum Desf. var. melanopus Koern) coltivato nell’areale dei monti Sicani anch’esso per ottimi usi panificatori e il grano Biancuccia (Triticum durum Desf. var. leucomelan Koern) dalla cui granella si ottiene una semola che conferisce un forte aroma al pane. Un discorso a parte merita l’antico grano siciliano Perciasacchi, chiamato così per la forma appuntita del chicco che bucava appunto i sacchi di juta, detto anche “Farro lungo siciliano” (ma non si tratta di un farro), che veniva coltivato invece in maniera più ampia nell’areale dell’ennese e del catanese. Secondo alcune ipotesi, l’antico grano siciliano perciasacchi avrebbe un’affinità genetica e quindi risulterebbe un parente stretto del tanto pubblicizzato “Kamut” (il Kamut non è il nome di un grano, ma di un marchio commerciale posto su una antica varietà di frumento che una società ha registrato negli Stati Uniti, coltivato e venduto in regime di monopolio in tutto il mondo). Si tratterebbe in realtà del frumento iraniano Khorasan – (Triticum turgidum subsp. turanicum) che presenta un fusto alto fino a 1,80 m, chiamato anche il “grano del faraone” perché si racconta che i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla metà del secolo scorso da un aviatore americano nel 1949 in una tomba egizia ed esportati nel Montana (USA), dove dopo migliaia di anni sono stati “risvegliati” e moltiplicati. Oggi è vietata l’autoproduzione del seme Kamut, tanto vale reintrodurre il “nostrano” grano Perciasacchi, libero da royalties! Per la produzione di farine per dolci e torte varie, i nostri agricoltori nei millenni avevano anche selezionato un’importante popolazione di grano tenero siciliano ossia il Maiorca (Triticum vulgare Host. var. albidum Koern), e il “Maiorcone”(Triticum vulgare Host. var.erythrospermum Koern), che venivano coltivati nelle pianure sino nella bassa collina siciliana al riparo dai forti venti, dalle cui pregiata semola si ottenevano ottimi dolci e prodotti da forno ( alcuni studiosi sostengono che la scorza del cannolo siciliano sia nata appunto con questa farina). Oggi la farina di Maiorca è stata sostituta dalle moderna e “pericolosa” farina tipo “00” (definita proprio un veleno da alcuni oncologi come il Prof. Berrino -Milano). In Italia, con un pioniere della genetica agraria, il marchigiano Nazareno Strampelli (1866-1942), si cominciarono a migliorare i grani antichi. Egli selezionò sul campo le piante migliori e compì veri e propri incroci tra varietà diverse. Dopo 30 anni di sperimentazioni, nel 1915 venne iscritta dallo stesso Strampelli la varietà “Senatore Cappelli” celebre cultivar dalla spiga a reste nere e svettante. Venne a lungo coltivato anche in Sicilia, (nelle nostre campagne marinesi era conosciuto con il nome Bidi’o Birì ). Intanto, negli anni che seguirono il secondo dopoguerra arriviamo alla cosiddetta “Rivoluzione verde”: si preferivano man mano grani a taglia sempre più bassa facilmente meccanizzabili nella raccolta e più produttivi. Di questi grani derivanti da una prima “correzione” della taglia ricordiamo il grano Capeiti e i “discendenti” siciliani del grano Cappelli: Hymera e Trinakria (costituiti dal Prof. Ballatore dell’Istituto di Agronomia dell’Univ. di Palermo). Dopo varie sperimentazioni, nel 1974 il “povero” grano Senatore Cappelli venne però sottoposto in un laboratorio dell’Enea a irradiazioni con raggi gamma del cobalto radioattivo e incrociato con una varietà a sua volta originata da un parentale messicano, dando vita al grano duro var. Creso. Si trattò di un frumento originato per mutagenesi indotta, geneticamente «nanizzato» e pertanto data la sua struttura resistente non si “adagiava più sul terreno”. Il Creso ebbe un grande successo fino agli anni’90 del secolo scorso e rappresenta in un certo senso il capostipite di molti grani attuali. Negli stessi anni in cui nacque il grano Creso, cominciò a svilupparsi altresì l’industria chimica: con la concimazione chimica il grano creso allora, ed oggi le varietà moderne, vengono forzate a produrre anche il doppio, il triplo rispetto ai grani antichi, perché tanto, essendo a taglia più bassa, non si “adagiano” più sul terreno. Il grano Creso attualmente risulta essere uno degli imputati fra le cause dell’intolleranza al glutine: viene ipotizzato infatti che: “alla modifica indotta del cereale in questione sia correlato il cambiamento della sua proteina, e in particolare di una frazione del glutine (gliadina), responsabile del malassorbimento degli alimenti e, conseguentemente, della comparsa di celiachia nell’individuo”.  Con la farina del grano canadese “manitoba” si arriva addirittura al 16-17% di solo glutine, con inevitabili ripercussioni sul nostro intestino che, come sottolineano alcuni esperti gastroenterologi: “non si è adeguato di pari passo con la modificazione genetica del grano” . Considerato che la ricerca sulle cause della celiachia è ancora aperta, non possiamo concludere con certezza se esista o meno una causa (il grano Creso o altri grani moderni) che ha provocato e che continui a provocare un aumento dei casi di intolleranza. Oggi, purtroppo, dobbiamo assistere comunque a questa realtà: viene imposto dalle multinazionali un cibo commerciale che, talvolta, non è adatto alla digestione e, il mancato assorbimento intestinale causa patologie degenerative e funzionali sul sistema gastro-intestinale dei consumatori. L’eccesso delle proteine e degli amidi nei grani moderni influisce altresì sull’indice glicemico, favorisce l’ingrassamento, il sovrappeso e le patologie come il diabete. In Sicilia però qualche imprenditore agricolo ha deciso di cambiare rotta, abbandonando le moderne tecniche di coltivazione delle “sospette” varietà moderne di grano e rimettendo a coltura invece le varietà antiche (Timila, Russello, Realforte,Biancuccia, Bidì, Perciasacchi, Maiorca etc..) essendo consapevoli che tali varietà di grano offrono nei loro sottoprodotti (farine, semole..) maggiori quantità di fibre e minerali e minor quantità di glutine. Contengono inoltre più vitamine e sostanze antiossidanti risultando quindi importanti per prevenire le intolleranze come la celiachia oltre che le malattie cardiovascolari, i tumori, l’obesità e il diabete. Inoltre, la loro coltivazione si sposa bene con i metodi dell’agricoltura biologica in quanto, essendo varietà antiche, si adattano molto bene nei nostri ambienti, hanno un’elevata abilità competitiva e non fanno sviluppare in maniera eccessiva le erbe infestati (e quindi si evitano eccessive spese per il diserbo chimico), hanno bisogno di poche concimazioni (e quindi si evita l’uso eccessivo di concimi ). Non ultimo, il prezzo di vendita del grano viene deciso localmente (attraverso i contratti di coltivazione stipulati con alcuni mulini tradizionali in pietra presenti anche un Sicilia), anziché imposto dalla borsa mondiale del grano presso Chicago, a settemila chilometri di distanza! Per concludere, volendo citare uno degli obiettivi fondamentali della prossima fiera mondiale Expò 2015: “Assicurare un’alimentazione sana e di qualità a tutti gli esseri umani”, confermerebbe che le future generazioni dipendano molto dalla riscoperta delle nostre antiche e genuine radici… prima che sia troppo tardi.