venerdì 29 agosto 2014
La fine dell'industria italiana: finanza speculativa e delocalizzazione
di Nino Di Sclafani
Nel volumetto “La scomparsa dell’Italia industriale”, dato alle stampe nel 2003 presso Einaudi, dal sociologo Luciano Gallino, si interpretavano, con coerenza e lucidità, i segnali inequivocabili del declino della manifattura italiana individuando responsabilità politiche e industriali e prefigurando un futuro a tinte fosche per il settore secondario italiano.
Le visioni di Gallino, a distanza di un decennio, risultano profetiche. Al colpevole abbandono di segmenti di eccellenza in cui l’Italia aveva avuto negli anni '80 e '90 un ruolo di leader (uno per tutti l’informatica con la Olivetti), si aggiungono oggi il fenomeno delle delocalizzazioni ed il rapace colonialismo finanziario che vede i brand più prestigiosi dell’industria nazionale cadere nelle mani di investitori esteri non sempre mossi da sincere intenzioni di rilancio. La delocalizzazione non è un fenomeno nuovo. Dall’apertura verso est, conseguente alla caduta del muro di Berlino, nuovi distretti industriali sono sorti in Polonia, Albania, Slovenia, Croazia e progressivamente anche in Romania e Bulgaria. La possibilità di utilizzare mano d’opera a basso costo e fruire di regimi fiscali agevolati con legislazioni assai permissive in tema di inquinamento ambientale e sicurezza sul lavoro, ha motivato certi industriali assai sensibili a massimizzare il profitto a scapito delle tutele e dei diritti dei lavoratori, a smontare nottetempo i loro macchinari per reimpiantarli dopo pochi giorni in uno di questi paesi facendo trovare nella casella della posta una fredda lettera di licenziamento agli operai italiani. L’esplosione del fenomeno Cina e del sub continente indiano ha dato il colpo di grazia. I capitani d’industria occidentali possono contare dai Balcani all’oceano Pacifico su due miliardi di operai disposti a lavorare anche 16-18 ore die per un paio di dollari al giorno. La prossima frontiera riguarderà il terziario. Sono milioni i giovani cinesi ed indiani che ogni anno conseguono una laurea e si mettono sul mercato a condizioni assai competitive. Pensate che potrà esserci un futuro lavorativo per i nostri giovani? La crisi scatenata tra 2007 e 2008 dal fenomeno dei subprime e dal colpevole comportamento di alcune banche americane ha rappresentato l’alibi perfetto per acuire ancor più il fenomeno delle delocalizzazioni giustificando le scelte aziendali dall’irrinunciabile esigenza di “stare sul mercato” , “migliorare la competitività”, abbattendo i costi della forza lavoro. Nel frattempo, però, la crisi finanziaria è felicemente superata, le borse sono ai massimi, l’economia reale europea, invece, è al collasso con milioni di licenziamenti e fallimenti. Non è necessario essere economisti per comprendere che lo stratagemma di delocalizzare le attività industriali verso paesi che offrono larghi margini di risparmio risulta vincente solo se riguarda una limitata porzione del complesso produttivo di un sistema industriale. Quando il fenomeno invece si estende a porzioni significative di quel sistema, si verifica un depauperamento della componente reddituale della fascia lavoratrice che genererà di conseguenza un calo della domanda interna tale da innescare quel processo recessivo che sta falcidiando l’occupazione nel nostro paese. Un sistema industriale debole attira gli appetiti delle multinazionali che, disponendo di capitali enormi, vengono a saccheggiare quel che resta dell’italica industria, sfruttando il miope e pavido atteggiamento dei nostri industriali pronti a disimpegnarsi e monetizzare le loro partecipazioni per indirizzarle su investimenti nella finanza speculativa in qualche paradiso fiscale. Mentre questo disastro si consuma cosa fa la nostra politica? Il presidente del Consiglio ha più volte sostenuto che «la globalizzazione rappresenta una grande opportunità» e, commentando l’acquisto dell’italiana Indesit da parte dell’americana Whirpool, ha sostenuto che si trattava di «un’operazione fantastica. Spiace constatare che il segretario del partito che ha raccolto l’eredità di una forza politica che, pur tra luci ed ombre, ha rappresentato per decenni lo strenuo baluardo di difesa della classe operaia, si lanci in proclami quanto mai discutibili. In che misura l’attuale fallimentare condizione dell’industria italiana determinata da una selvaggia globalizzazione può rappresentare, per qualche furbastro, un’opportunità? Ve lo dirò prossimamente.