domenica 16 marzo 2014
La storia di Totuccio Migliaccio e l’ultima corsa del Suparbanu
di Pippo Oddo
L’idea di raccontare la storia di Totuccio, per l’anagrafe Salvatore Migliaccio (Campofiorito 1/02/1919 – ivi 25/02/1983), si profilò d’improvviso nella mia mente sul finire del 2012, quando appresi dai mass media che in una gelida notte di fine autunno a New York l’ufficiale di polizia Lawrence Deprimo, 25 anni di Long Island, aveva regalato un paio di stivali nuovi di zecca al senzatetto scalzo Jeffrey Hillman.
La scena fu immortalata da uno scatto di una turista dell'Arizona, Jennifer Foster, che spedì la foto al Dipartimento di polizia di New York. Il quale non perse tempo a caricarla sul proprio profilo Facebook. Nel giro di poche ore, su quell’immagine si registrarono quasi 2 milioni di “Mi piace” e ben 20.000 commenti. Appena una settimana dopo il clochard tornò a circolare a piedi nudi nel cuore della Grande Mela. Ad un certo punto un cronista del New York Times gli chiese dove avesse lasciato gli stivali e lui, forse nelle grazie di Bacco, dichiarò in palese stato confusionale: «Li ho nascosti. Valgono un sacco di soldi. Potrei rischiare la vita». Il caso presentava parecchie analogie (ma anche non poche differenze sostanziali) con la vicenda del nostro Totuccio. Ma a botta calda, pur essendo animato dal proposito di dimostrare che in fin dei conti tutto il mondo è paese e che non ci sono poi differenze abissali tra l’umanità derelitta della più grande metropoli statunitense e quella di un paesino della Sicilia rurale interna – chissà perché –, preferii sfogare il mio bisogno di comunicazione raccontando su Facebook la storia del bizzarro scemo di Cefalà Diana, Giuseppino Malacria. Storia che commosse molti lettori, non ultimo dei quali Antonino Schimmenti (per gli amici Nino), che però mi fece notare (con tutto il garbo di cui è dotato) che, da buon villafratese, io avrei dovuto narrare anche la vicenda umana di Totuccio, sul quale lui stesso, sua madre e alcuni suoi parenti avrebbero potuto fornirmi dei particolari interessanti e poco conosciuti. Cosa che ho avuto modo di verificare presto. Accingendomi a colmare questo vuoto narrativo, tengo a precisare che le informazioni ricevute dalla famiglia Schimmenti hanno trovato un sorprendente riscontro in quelle ripescate a fatica dal fondo dei miei ricordi personali. Dovevo ancora compiere sette anni quel memorabile martedì grasso del Quarantasette, quando incontrai per la prima volta il povero minorato psichico di Campofiorito, che abitava a Villafrati da un paio di mesi. A mettermi sulle sue tracce era stata l’eco del corteo carnevalesco che schiamazzava all’angolo della strada di casa mia marciando verso una catasta di legna dove sarebbe stato messo al rogo il “Nannu”, pupazzo di paglia simboleggiante il Carnevale. Mi portai d’istinto fuori e, dopo che la chiassosa processione scomparve alla mia vista, ritornai tutto giulivo dentro con le scarpe imbrattate di fango. «Ma chi è funnacu, sta casa?», mi sgridò la mamma dandomi un sonoro ceffone, cui ne sarebbero seguiti per certo altri, se mio padre non fosse stato svelto a frapporsi fra me e lei. Mi guardò le scarpette e notando che, oltre ad essere sporche, erano anche vecchiotte, papà mi prese per mano e mi accompagnò da un nostro parente calzolaio (mastro Peppino Messina, che abitava all’estrema periferia del paese, al confine con la strada nazionale) per farmene fare un paio su misura. Prima d’arrivarci, passando dall’abbeveratoio della via Procida, mio padre mi pulì le scarpe e mi fece pure sorridere ripetendo in tono scherzoso le parole della mamma: Ma chi è funnacu, sta casa? «Papà chi è u funnacu – gli chiesi –, a stadda?». Papà mi accarezzò i capelli: «Ci su i staddi dintra u funnacu ma ci dorminu puru i cristiani». (Ci sono le stalle dentro il fondaco ma vi dormono pure le persone). E mi spiegò che l’unico fondaco del paese si trovava proprio accanto alla bottega dello “zu Pippinu u scarparu”. Quando ci arrivammo me lo mostrò. Potei così farmi una prima vaga idea sulla funzione cui assolvevano quegli stallaggi fungenti anche da locanda, dove sostavano (per passarvi la notte, rifocillarsi e far riposare le bestie) i carrettieri, alcuni dei quali trasportavano a Palermo zolfo estratto nelle zolfare dell’Agrigentino e del Nisseno. Di più, ebbi modo di vedere da vicino Totuccio. Affondava i piedi ignudi nel fango della via Stazzone e portava sulle spalle un covone di fieno destinato ai cavalli ospitati nelle stalle del fondaco gestito da donna Giovannina Mendola, vedova Schimmenti. Il nome della proprietaria l’avrei però appreso solo di recente dalla viva voce dei suoi nipoti Nino Schimmenti e Raffaella Maggio. Quel giorno fu già tanto se realizzai che mai a memoria d’uomo s’era visto a Villafrati una persona lavorare senza scarpe ai piedi. Solo gli anziani ricordavano, per averlo sentito dire ai loro padri, che prima c’erano dei contadini che invece degli scarponi chiodati portavano le “pezze da piedi”. In seguito avrei anche appreso che i pastori transumanti provenienti dai lontani Nebrodi calzavano scarpe di pelle di suino nero con il pelo, dette “zampitti” o “scarpi di pilu”. Ma Totuccio, che pure all’età di dieci anni era stato colpito da una grave forma di menengite che ne aveva compromesso l’equilibrio psichico, conservava pur sempre la lucidità necessaria per restare se stesso. Non si era lasciato incantare da nessun tipo di calzatura quando abitava nella sua Campofiorito e si guadagnava la pagnotta rifornendo d’acqua potabile la caserma dei carabinieri e le poche famiglie agiate del paese, e non aveva certo cambiato idea alla soglia dei ventotto anni, quando decise di mettersi in cammino con il cavallo di San Francesco verso Villafrati, dove arrivò stanco morto e con le estremità inferiori sanguinanti. Ad accoglierlo con calore fu una sua vecchia conoscenza: l’appuntato dei carabinieri Vincenzo Maggio (genero della proprietaria del fondaco), che aveva prestato servizio per diversi anni a Campofiorito. E fu sempre lui ad offrirgli la possibilità di guadagnarsi qualcosa collaborando con sua suocera nella gestione del fondaco; lui a procurargli l’alloggio in un cantuccio di una “pagghialora” (fienile) di donna Giovannina, sita in via Stazzone, n. 2; lui e sua moglie a mettergli a disposizione una branda, un pagliericcio, una lattiera, alcuni piatti d’alluminio e qualche altro piccolo oggetto. In compenso, Totuccio si mise a servizio dei Maggio e degli Schimmenti, cui non fece mai mancare l’acqua potabile che andava ad attingere alla fontanella. Pochi mesi dopo la sua immagine di forestiero educato e servizievole era divenuta familiare ai villafratesi, anche se l’uomo olezzava troppo spesso di vino ed era considerato, se non proprio lo scemo del paese, un povero menomato. Non passò molto tempo e l’appuntato Maggio si trasferì per ragioni di servizio con la famiglia a Firenze. Totuccio si sentì mancare la terra sotto i piedi. Se non se ne tornò subito a Campofiorito fu solo perché nel frattempo aveva stretto ottimi rapporti con donna Giovannina Mendola, che continuò ad ospitarlo nella pagghialora. D’altronde nel fondaco c’era ancora bisogno di lui, anche se i tempi cominciavano a cambiare, erano sempre meno i viaggiatori di passaggio che si fermavano a Villafrati e quasi nessuno trasportava più zolfo col carretto a Palermo. Un paio d’anni dopo l’appuntato Maggio riuscì a farsi trasferire di nuovo in Sicilia per prestare servizio nella caserma di Villafranca Sicula, in provincia di Agrigento. Ma lungi dal portarvi anche la moglie e le due figliolette (Raffaella e Giovanna) in età scolare, decise di farle tornare a vivere a Villafrati, dove lui sarebbe venuto una volta la settimana, compatibilmente con le esigenze di lavoro. Totuccio divenne l’Angelo Custode delle bambine, che ogni giorno seguiva a debita distanza fino a scuola. E si rammaricava quando non poteva farlo, magari perché doveva andare a trovare – rigorosamente a piedi e senza scarpe – sua madre e la sua cara sorella Giacomina a Campofiorito cantando a squarciagola “Mamma son tanto felice”… Quanto grande fosse stato l’affetto di Totuccio verso le figlie dell’appuntato Maggio, ho potuto notarlo di persona in occasione di una memorabile processione del Crocifisso. La “vara” con il simulacro del Santissimo era (come sempre a mia memoria) portata a spalla per le vie del paese da giovani forzuti e accompagnata da una fiumana di fedeli d’ambo i sessi e d’ogni età che, a piedi ignudi e con grossi ceri accesi in mano, ringraziavano il Redentore per le grazie ricevute. Il momento più bello ed emozionante fu quello della tradizionale “volata degli angeli”. A metà della salita del corso la processione fece sosta e due bambine biancovestite con le ali, imbragate e pendenti da corde parallele, si misero a tessere le lodi del SS. Crocifisso ed esortare il popolo di Villafrati ad avere fede in Lui. Ad una delle due funi era appesa mia sorella Maria, che cominciò a declamare: «Sono stati i peccatori che così ti hanno ridotto…». E l’altra bimba con le ali, Raffaella Maggio, le fece eco: «Essi ciechi nell’orrore ti continuano a flaggellar…». Io tremavo di commozione e di paura che potesse spezzarsi la corda che reggeva la mia adorata sorellina. Ma più di me era commosso e spaventato Totuccio che, appena sentì la prima parola della recita di Raffaella, cominciò a piangere come un vitello orfano e a gridare: «A piccilidda, a piccilidda… ». Quasi tre mesi dopo, l’11 dicembre 1953, passò a miglior vita donna Giovannina Mendola. Totuccio non indugiò a mettersi all’occhiello un bottone nero in segno di lutto. Ne aveva ben donde perché, morta lei, il fondaco chiuse definitivamente i battenti e i suoi figli (nessuno dei quali possedeva cavalli, muli, asini o bardotti) decisero di destinare ad altri usi la pagghialora di via Stazzone. Ma si guardarono bene dall’abbandonare il povero minorato al suo destino. Gli procurarono un nuovo alloggio nella casa disabitata di un loro parente (soprannominato “u capu truncu” perché era stato responsabile del tronco ferroviario Palemo-Villafrati), sita a pochi passi dalla prima, e non gli fecero mai mancare calore umano e qualcosa da mettere sotto i denti. Ma Totuccio non si rassegnò a sopravvivere della sola carità delle famiglie Maggio e Schimmenti. Vuoi per comprarsi il vino di cui allora non sapeva purtroppo fare a meno, vuoi perché s’era prefisso di mettere da parte i soldi per costruire una tomba a Bellanova (Campofiorito), per ospitarvi (oltre alle proprie spoglie) anche quelle della madre e della sorella Giacomina, si mise a servizio degli abitanti del quartiere Casale che avessero bisogno d’avere riempita qualche “quartara” d’acqua potabile. Ma il risultato fu che si attirò le male parole del “calamignaro”, un contadino di Ventimiglia di Sicilia che, per venire a fare l’acquaiolo a Villafrati, aveva acquistato due asini con i relativi basti alla fiera di Santa Fortunata a Baucina. Un destino perseguitava insomma Totuccio, fino al punto che qualcuno cominciò a parlare tra il serio e il faceto di lui come del classico tipo che se si fosse messo a fabbricare “cuppuluneddi pi picciriddi, i picciriddi avissiru nasciutu senza testa”. Oh, manco a farlo apposta, due anni dopo l’acqua potabile cominciò a scorrere, ancorché ad intermitezza, in tutte le case di Villafrati; le “quartare” di coccio furono buttate nelle soffitte o negli immondezzai e, in parte, regalate o svendute a collezionisti della città. E, ironia della sorte, mentre u zu Ninu biccaru (il calamignaru) potè tornarsene a Calamigna con gli asini ben pasciuti e il denaro per comprarsi la casa, Totuccio non aveva neanche i soldi per pagare il biglietto del treno di sola andata per Bellanova. Pressato dal bisogno, cominciò a chiedere l’elemosina in ogni angolo del paese e a prestare per pochi spiccioli opera di facchinaggio alla stazione di Villafrati, dove soprattutto con l’ultimo treno della sera (detto u Suparbanu), tornavano da Palermo non pochi viaggiatori con grossi pacchi e pesanti valigie di cartone legate con lo spago. L’iniziativa si dimostrò subito valida e, dopo poco più di un mese, Totuccio potè vantarsi – con gli occhi rivolti all’edicola votiva del “Saraminteddu”, che considerava il suo santo protettore – che non era mai tornato dalla stazione senza aver portato la valigia ad un cliente e che era sempre stato ricompensato bene. Ma già una settimana dopo, davanti al sagrato della chiesa del Casale, si lamentava che uno degli ultimi galantuomini del paese (di quelli, per intenderci, che pretendevano di essere salutati con tanto di “baciamu li manu”), si era fatto portare dalla stazione alla sua casa al Castello una valigia che sembrava piena di piombo, ma voleva dargli la metà del denaro che gli aveva corrisposto la sera prima un “tintu viddanu d’u Puzziddu” (modesto contadino del quartiere Pozzillo) per un bagaglio molto più leggero. Per pronta risposta, Totuccio agguantò il bagaglio e glielo riportò alla stazione. Da quel momento non ebbe più bisogno di stendere la mano per ricevere l’elemosina dai villafratesi e nemmeno di patteggiare il compenso per il trasporto dei bagagli. Poi, il 1° febbraio 1959, il glorioso Suparbanu partì la mattina col buio pesto per Palermo e non fece mai più ritorno a Villafrati. Frattanto erano successe tante cose. Un anno prima l’appuntato Maggio era stato promosso maresciallo e trasferito alla Legione dei carabinieri a Palermo. E aveva fissato la propria residenza in città. Totuccio si affidò alle cure della famiglia di Benedetto Schimmenti (figlio di donna Giovannina) e in modo particolare a sua moglie donna Gina Calì, che cominciò a trattarlo alla stregua dei propri familiari, fino a farlo sedere ogni giorno a tavola insieme con il marito e i figli e di assisterlo anche nell’amministrazione dei modesti risparmi provenienti dalle elemosine e dai compensi per i lavoretti saltuari. Tra gli introiti più cospicui di cui Totuccio beneficiava in quel periodo merita una menzione speciale il ricavato dell’annuale pellegrinaggio al Santuario di Tagliavia, da dove il nostro ritornava olezzante di carne ovina arrostita, ubriaco fradicio e con un grosso gruzzoletto di denaro in tasca. Denaro che un bel giorno donna Gina gli fece versare in un libretto postale nominativo intestato a lui. In segno di riconoscenza la sera della festa dell’Ascensione dell’anno dopo Totuccio le portò in regalo una bella bandierina colorata di palma nana con l’immagine della Madonna di Tagliavia. Ma tutti gli Schimmenti erano voluti bene da Totuccio. Basti ricordare che un mese prima della soppressione della ferrovia si ammalò gravemente uno dei tanti figli della buonanima di donna Giovannina: Pietro che abitava a Palermo. Totuccio cominciò a fare il diavolo a quattro perché voleva andare a fargli visita. Donna Gina ne approfittò per costringerlo a calzare un paio di scarpe che gli fece preparare alla svelta da mastro Peppino Messina. Da quel momento Totuccio non si vide mai più in giro per il paese scalzo. E quando, l’11 dicembre 1960 (settimo anniversario della morte di donna Giovannina), a Palermo cessò di vivere anche il maresciallo Vincenzo Maggio, il nostro non poteva più avere nessun complesso d’inferiorità per salire sull’autobus sostitutivo delle Ferrovie dello Stato che l’avrebbe portato in città con la fascia nera al braccio. È appena il caso di aggiungere che, con tutti i suoi limiti, a Villafrati Totuccio godeva di grande stima anche da parte degli amministratori locali, che ad un certo momento gli assegnarono l’unica casa di proprietà comunale, sita in via Bevaio, 55. Né erano pochi gli amici che lo proteggevano dagli insulti gratuiti dei ragazzacci e degli adulti saputelli. Per citarne solo uno, oltre che agli Schimmenti, il pensiero vola allo zu Cola, il proprietario del bar di fronte al Saraminteddu, che peraltro fece di tutto per fargli togliere il vizio di alzare il gomito. Ma predicava al vento. Ci riuscì invece, ancora una volta con un mezzo ricatto, donna Gina (ora novantenne) il giorno che si tagliò accidentalmente un dito e Totuccio per consolarla andò a comprarle un gelato al limone. «Perché mi hai comprato il gelato?», gli chiese in siciliano. E lui di rimando: «Comu picchì? Picchi la vogghiu beni». La risposta di donna Gina non si fece attendere: «Si mi vo’ beni, levati u viziu d’u vinu». Detto fatto. Da alcolizzato Totuccio diventò quasi astemio. Certo è – e sfido chiunque a smentirmi – che nell’ultimo quindicennio della sua permanenza a Villafrati Totuccio portava le scarpe e aveva l’alito pulito. A metà ottobre 1982, giorno più giorno meno, se ne tornò al paese natio cantando come al solito “Mamma son tanto felice” e con il denaro in tasca per costruirsi finalmente la tomba. Pochi mesi dopo volò in cielo. Al suo funerale c’erano diversi Schimmenti, che ancora oggi si mantengono in contatto con i Migliaccio di Campofiorito. Ma se lo meritava, povero Totuccio, icona della Villafrati arcaica e contadina, involontario e triste testimone di un passaggio d’epoca unico e irripetibile, che ha portato anche benessere, ma non ci ha certo risparmiato nuove ingiustizie e prepotenze, sprechi, distruzione di risorse e di valori!