di Nuccio Benanti
MARINEO. Nel volume Feste patronali in Sicilia, Giuseppe Pitrè richiama l’attenzione del lettore su un articolo apparso a puntate sul Corriere dell’Isola, tra il 21 e il 23 settembre 1894 (a firma di Francesco Sanfilippo) dal titolo “La Dimostranza di Marineo”, che pubblichiamo integralmente.
La Dimostranza di Francesco Pernice fu rappresentata a Marineo nel 1894, in un momento in cui, all’indomani della repressione del moto dei Fasci dei Lavoratori, in paese era in corso un ampio dibattito su varie tematiche storiche, sociali e politiche ad opera dei numerosi uomini di cultura presenti in paese. Tra il 1892 e il 1893, il sacerdote riformista Giuseppe Calderone aveva pubblicato le sue «Memorie storico-geografiche di Marineo e dintorni», unendo ad alcuni suoi scritti apparsi sull’«Archivio storico siciliano» (la rivista periodica della Società Siciliana di Storia Patria, della quale egli era membro). Ma in un campo in cui i sacerdoti dettavano legge, quell’anno l’organizzazione della sacra rappresentazione della vita di san Ciro fu invece affidata ad un laico, appunto, il maestro Pernice. Ciò avvenne in un momento in cui gli intellettuali siciliani, sempre più numerosi, abbracciavano l’ideologia socialista. E l’evento ebbe una grande eco a Palermo, tanto che il Corriere dell’Isola, tra il 21 e il 23 settembre di quell’anno decise di pubblicarne una dettagliata cronaca a puntate a firma di un altro marinese: Francesco Sanfilippo. Di questo clima rivoluzionario e della diffidenza sull’uso retorico della parola la cronaca della Dimostranza è specchio veritiero: tanto che nell’articolo vennero rappresentate diverse tenzoni oratorie di tipo sofistico (si fa per dire) come questa:
- Difensore: «Compare Peppi, siate uomo di pancia, vi prego io pel San Giovanni, gettate a libertà l’amico».
- Giudice: «Eh compare Paolino, non posso, l’omertà finìo, perché deve scontare il dito che rubò a San Giusto».
Fu in seguito a quei mutamenti sociali di fine Ottocento che alle recite cominciarono a partecipare anche i ceti più umili. Quale risposta, un gruppo di civili riuscì a ritagliarsi un proprio spazio attraverso l’introduzione dei cavalli nella spettacolare scena quindicesima. Ciò avvenne, evidentemente, anche per distinguersi dalla massa del popolo costretta a recitare a piedi, a guardare i civili col naso all’insù.
Così, quando l’imperatore Diocleziano colpì (per sbaglio, facendolo imbizzarrire) «il suo cavallo che si stava pacificamente gustando un po’ di prosodia» il sant’uomo protestò:
- San Ciro: «Ohè! Compare Caifas! Come diavolo vi chiamate, che ci debbo lasciare la pelle qui io forse? ».
- Imperatore: «Orbo degli occhi, è stato lo sceltro che ha urtato sul muso del cavallo, è stato…».
- San Ciro: «Che scecco e scecco! Lo buttate via lo scecco e ne fate senza! ».
E sono numerosi i passi in cui si accenna alla problematica relativa alle differenze sociali. Così leggiamo:
«Uno dei poveri che riceve l’elemosina da San Ciro suole essere un Vito Scarafuni - il quale - non crede ad altro che al nettare, la professione di fede che il Pulci fa dire al lercio gigante Margutte. Beve beato Scarafuni, egli non cerca arzigogoli, non si dilunga in ringraziamenti, non crede ad altro… che al vino».
Appartenente ad una famiglia povera, il diavolo era pagato dall’angelo che recitava nella stessa scena:
«Il Diavolo guadagna sei tarì al giorno; signori socialisti, aprite gli orecchi».
E sottilmente Sanfilippo polemizza: da un lato contro i falsi edotti, abili imbonitori di masse e spregiudicati prestigiatori di una vuota capacità oratoria; e dall’altro lato, contro le reticenze della massa appiedata ad accogliere le proposte innovative delle intelligenze liberali che animavano la vita culturale marinese.
Nella cronaca della Dimostranza del 1894 si legge, sottilmente, anche la critica alle sfere alte della politica nazionale. Riferendosi al prefetto Siriano, scrive Sanfilippo:
«Forse quel tribunale lì, in mezzo alla strada, ispirò l’on. Zanardelli il concetto di pretori ambulanti?»
La Dimostranza era stata una grande conquista per il popolo, che poteva finalmente prendersi beffa, nelle pubbliche piazze, del potere costituito, sia laico che religioso, trasformandola in un grande carnevale. Il potere costituito, invece, la difendeva come poteva: vale a dire con le vergate e le scalciate dei cavalli.
La cronaca si chiude con un significativo aneddoto, che vide protagonista un bambino rivoluzionario che lasciò la gloria: «Ci furono risa, ci furono rimproveri anco per il biricchino guastamestieri; ma il fatto sta che la Dimostranza per un bel tratto rimase senza la sintesi riflessa; e le ferventi donnicciuole senza il santo! E tutto per un pezzo di torrone!»
La Dimostranza di Francesco Pernice fu rappresentata a Marineo nel 1894, in un momento in cui, all’indomani della repressione del moto dei Fasci dei Lavoratori, in paese era in corso un ampio dibattito su varie tematiche storiche, sociali e politiche ad opera dei numerosi uomini di cultura presenti in paese. Tra il 1892 e il 1893, il sacerdote riformista Giuseppe Calderone aveva pubblicato le sue «Memorie storico-geografiche di Marineo e dintorni», unendo ad alcuni suoi scritti apparsi sull’«Archivio storico siciliano» (la rivista periodica della Società Siciliana di Storia Patria, della quale egli era membro). Ma in un campo in cui i sacerdoti dettavano legge, quell’anno l’organizzazione della sacra rappresentazione della vita di san Ciro fu invece affidata ad un laico, appunto, il maestro Pernice. Ciò avvenne in un momento in cui gli intellettuali siciliani, sempre più numerosi, abbracciavano l’ideologia socialista. E l’evento ebbe una grande eco a Palermo, tanto che il Corriere dell’Isola, tra il 21 e il 23 settembre di quell’anno decise di pubblicarne una dettagliata cronaca a puntate a firma di un altro marinese: Francesco Sanfilippo. Di questo clima rivoluzionario e della diffidenza sull’uso retorico della parola la cronaca della Dimostranza è specchio veritiero: tanto che nell’articolo vennero rappresentate diverse tenzoni oratorie di tipo sofistico (si fa per dire) come questa:
- Difensore: «Compare Peppi, siate uomo di pancia, vi prego io pel San Giovanni, gettate a libertà l’amico».
- Giudice: «Eh compare Paolino, non posso, l’omertà finìo, perché deve scontare il dito che rubò a San Giusto».
Fu in seguito a quei mutamenti sociali di fine Ottocento che alle recite cominciarono a partecipare anche i ceti più umili. Quale risposta, un gruppo di civili riuscì a ritagliarsi un proprio spazio attraverso l’introduzione dei cavalli nella spettacolare scena quindicesima. Ciò avvenne, evidentemente, anche per distinguersi dalla massa del popolo costretta a recitare a piedi, a guardare i civili col naso all’insù.
Così, quando l’imperatore Diocleziano colpì (per sbaglio, facendolo imbizzarrire) «il suo cavallo che si stava pacificamente gustando un po’ di prosodia» il sant’uomo protestò:
- San Ciro: «Ohè! Compare Caifas! Come diavolo vi chiamate, che ci debbo lasciare la pelle qui io forse? ».
- Imperatore: «Orbo degli occhi, è stato lo sceltro che ha urtato sul muso del cavallo, è stato…».
- San Ciro: «Che scecco e scecco! Lo buttate via lo scecco e ne fate senza! ».
E sono numerosi i passi in cui si accenna alla problematica relativa alle differenze sociali. Così leggiamo:
«Uno dei poveri che riceve l’elemosina da San Ciro suole essere un Vito Scarafuni - il quale - non crede ad altro che al nettare, la professione di fede che il Pulci fa dire al lercio gigante Margutte. Beve beato Scarafuni, egli non cerca arzigogoli, non si dilunga in ringraziamenti, non crede ad altro… che al vino».
Appartenente ad una famiglia povera, il diavolo era pagato dall’angelo che recitava nella stessa scena:
«Il Diavolo guadagna sei tarì al giorno; signori socialisti, aprite gli orecchi».
E sottilmente Sanfilippo polemizza: da un lato contro i falsi edotti, abili imbonitori di masse e spregiudicati prestigiatori di una vuota capacità oratoria; e dall’altro lato, contro le reticenze della massa appiedata ad accogliere le proposte innovative delle intelligenze liberali che animavano la vita culturale marinese.
Nella cronaca della Dimostranza del 1894 si legge, sottilmente, anche la critica alle sfere alte della politica nazionale. Riferendosi al prefetto Siriano, scrive Sanfilippo:
«Forse quel tribunale lì, in mezzo alla strada, ispirò l’on. Zanardelli il concetto di pretori ambulanti?»
La Dimostranza era stata una grande conquista per il popolo, che poteva finalmente prendersi beffa, nelle pubbliche piazze, del potere costituito, sia laico che religioso, trasformandola in un grande carnevale. Il potere costituito, invece, la difendeva come poteva: vale a dire con le vergate e le scalciate dei cavalli.
La cronaca si chiude con un significativo aneddoto, che vide protagonista un bambino rivoluzionario che lasciò la gloria: «Ci furono risa, ci furono rimproveri anco per il biricchino guastamestieri; ma il fatto sta che la Dimostranza per un bel tratto rimase senza la sintesi riflessa; e le ferventi donnicciuole senza il santo! E tutto per un pezzo di torrone!»
***
CORRIERE DELL’ISOLA,
CORRIERE DELL’ISOLA,
VENERDÌ-SABATO 21-22 SETTEMBRE 1894
USI E COSTUMI SICILIANI
La “Dimostranza” di Marineo
I.
La “Dimostranza” di Marineo
I.
Non è la solita novella piena di delirio poetico ch'io vi scrivo, perché non mi sento nato a buona luna; ma è lo studio accurato e veritiero delle cose e dei costumi montanari, che rendono la vita di quassù un soggetto osservabile, affatto differente dagli usi comuni di cui è piena la città.
E non intendo con ciò di mettere il ridicolo al mio paese, poichè in cima ad ogni mio ideale c'è stato sempre l'amor del nido natio; ma ho voluto fare come il pittore, se la penna non mi casca dalle dita: ritrarre e non inventare, per porre nella tavolozza il bello artistico, la semplicità paesana, l'azione primitiva correa al nascere del genio e farla ammirare e conoscere agli amatori di cosiffatti studii.
Marineo, a quanto ci assicura il rev. padre Calderone, sorgeva, nell'epoca greco-sicula, a poca distanza da dove essa sorge; e precisamente ove oggi c'è il camposanto. Era popolosa città elima, collegata sempre coi greci ed aveva nome Ancinae-Marinae, che significava vicino al mare. Nell'epoca saracena ebbe poi il nome Mirnau o Maranau, come attesta l'Amari, e dopo nel periodo normanno pigliò il nome odierno.
Molte vicende la distrussero e rimase in piedi il solo forte castello che nei Vespri Siciliani mandò pure il suo contingente di 300 barbute, per abbattere il giogo angioino. Fu nel 1530 che pel Congresso di Bologna tra Carlo V e Clemente VII, si concedette il feudo di Marineo al nobile Francesco Beccadelli di Bologna della famiglia del Panormita, e poi verso il 1553 cominciò a sorgere il nuovo castello baronale e il nuovo borgo.
In processo di tempo, per diritto d'eredità, il feudo fu incamerato dalla famiglia dei marchesi Pilo, ma oggi non c'è più un erede presuntivo, bensì un complesso di condomini che traggono guadagno dall'enfiteusi.
Marineo ha un'aria saluberrima ed una posizione delle più ridenti: essa guarda al mar Tirreno. E' posta sul declivo d'una catena di colline che gli fanno corona, con in mezzo ad esse, a cavalieri su tutta la rocca, masso a picco, alto e meraviglioso come una gran piramide. A chi venendo da Palermo guarda il borgo, gli si presenta come un grosso pastore che vegli un branco di pecore.
Di notevole non c'è altro che il castello; e se non ha nulla d'artistico, perché è un fabbricato tozzo e barocco, pure nel contemplare quella vetustà, quei merli, quegli androni e quelle finestre ferrate, l'immaginazione rianda i secoli e pensa con mestizia l'oscurantismo, la tirannide, il romanzo, i feroci baroni con le leggende delle vergini forzate e tradite; gli spadoni, gli elmi e i misteri dei trovatori che nella notte facevano udire il flebile suono del liuto; mentre su in alto al verone il bel viso della castellana spandeva il sorriso di grazia e di amore.
Il castello è appollaiato all'estremità occidentale del paese, sul picco d'un gran dirupo, come una vetta sul ciglione; e dalle sue torri vi si gode una vista incantevole. Spaziando lo sguardo verso il mare, l'occhio s'arricchisce d'un bel panorama nell'aprirsi la sottostante valle tutta a seminerio, a vigne, a giardini, a uliveti, cosparsa di bianchi casolari; finché, oltre il bel Misilmeri, la vista non discerne più che un sol verde il quale più lontana si confonde con l'azzurro del mare ove vi si scorgono nel bel tempo gli isolotti d'Alicudi e Filicudi.
La festa di S.Ciro, che in Marineo suole ricorrere in agosto, è una delle feste più caratteristiche ed attraenti e chiama molti estranei: ma quelle volte che si fa la “dimostranza”, ossia la vita e morte figurata da S.Ciro, allora la calca che accorre è stragrande.
Facciamo la storia. Signore mie, in ab-antico vennero su per la valle due santi, cioè S.Ciro e S.Giusto: l'uno veniva d'Egitto; l'altro non so. Questi due santi, innamoratisi del dolce clima, pensarono di farne la loro dimora. Ma forse per quistione di mestiere o d'interesse positivo, mentre si dividevano i territori, vennero a forte contesa, cioè a tiro- tira, e come suol dirsi, dalle parole passarono ai fatti, si accapigliarono ben bene. Alla fine però, per intercessione di comuni amici, si accomodarono e perciò San Ciro rimase in Marineo; San Giusto in Misilmeri. Ma quando San Giusto, in pompa magna, salì sul suo stallo, alzando la mano per benedire il suo popolo, egli si accorse che aveva quattro dita, invece che cinque!
Sapete chi era stato? Il suo rivale in santità, che siccome era un medico di fama, ed aveva con s‚ forti dosi malefiche, nel momento del furore (o, come si direbbe oggi, eccitazione nervosa) gliene unse un po’ e gli fece cadere un dito per farlo rimanere non più giusto.
Da qui odii, guerre surde, libelli e pettegolezzi tra i due santi, che si trasmisero ai figli in fino a noi e che finiranno, credo, quando il sole non illuminerà più sulle sciagure umane. Questa è la leggenda in bocca al popolino, e questa vi racconto.
Ma in fatto sta che verso il terzo secolo dell'era nostra, quando l'impero Romano precipitava nella china del suo sfacelo e imperava ancora sull'Oriente, nacque da nobile prosapia Santo Ciro, in Alessandria d'Egitto.
Egli divenne fervente cristiano, filantropo e gran taumaturgo ed operò varii miracoli. Ma lo impero romano, sospettoso e crudele repressore delle nuove idee, lo incarcerò e lo martirizzò decapitandolo a Canopo, sobborgo d'Alessandria, ove il santo fu sepolto. Dopo morto, però, il santo operava ancora miracoli, e la fama arrivava infino al pontefice di quei tempi Costantino, questi ne fece ritirare le mortali spoglie in Roma, ponendole in una chiesa della via Portuense.
Fu nel secolo scorso che dal papa Pio VI (sic) venne concesso il teschio miracoloso si S.Ciro a Marineo; e s'istituì la festa il 31 gennaro, giorno che per la prima volta entrò solennemente la reliquia in paese. Ma per beneplacido dei marinensi, una bolla arcivescovile permise loro di trasportare il trionfo ed il tripudio nel mese d'agosto; mese molto comodo ai campagnuoli che hanno terminato il raccolto.
Ai marinesi venne in mente, per vieppiù glorificare le gesta del santo, di rappresentare la vita di S.Ciro tutta figurata, (una specie di martirio di Cristo) ove si mettono in rilievo le virtù sue somme e i miracolosi prodigi a fronte dei suoi feroci persecutori. Ed è questa la Dimostranza di cui voglio parlare; la quale suole rappresentarsi in istrada da quasi duecento personaggi e addobbata coi vestiari apprestati dal povero don Settimo Cane da Palermo. E dico povero, perché ogni volta bisogna che si metta il cuore in pace a far ritorno con la voce rauca; delle celate, delle gonne e qualche manta di S.Ciro non consegnate che in carnevale fanno le metamorfosi da S.Ciro sulle spalle, d'un bersagliere da guerriero sulla zuccoccia d'un babbau.
L'epoca della prima rappresentazione io non posso precisarla, ma ritengo che sarà coeva alla venuta del santo, giacché una vecchia di casa mia, la quale conta quattro ventine e quattro anni (così mi dice lei), mi racconta che a' suoi tempi costumavasi rappresentarsi; e che sua madre le facesse menzione pure di altre “dimostranze”. Quei tempi però ch'erano più oscuri e l'istruzione meno larga, essa veniva rappresentata dalle persone più rispettabili del paese e da per s‚ pigliava una certa serietà; oggi invece che il progresso è latente, non ci concorrono che i contadini e gli operai, per istroppiare lingua, modi, usi, tutto, per di vestirsi con l'imbuto in testa e la durlindana a lato e farsi ammirare dalle amorose.
*
Per quanto ne ricordi io il fautore, l'artista, il direttore di scena e maestro di musica, l'omnibus umano insomma, che impartiva ordini del come si doveva camminare e recitare, era un prevosto: il padre Oliva, buon'anima sua. Uomo alla buona, scempione crudo crudo senza leziosaggini, e pasta vecchia che rimasticava il Credo e l'Ave Maria nella dottrina cristiana, somministrando ai ragazzi vergate da asini. Ma era un cattolico intransigente sviscerato, tanto che predicava dal pulpito “d'aversi chiappato il povero Gesù Cristo il tronco della croce e d'essere scappato su a corsa pel monte calvario, appunto per non vedere da vicino quelle facce da porci degli scribi e farisei, suoi crocifissori”.
Quindi la Dimostranza avea l'impronta sua: personaggi goffi, un tantino triviali e arrabbiati come idrofobi. Una volta egli aveva insegnato ad un villano balbuziente a fare il S.Ciro in catene che si rivolge pietoso all'imperatore Diocleziano chiedendogli: “Perché mi perseguiti?” Ma profferita da quell'attore in quel modo a spiccicare e curioso suonava: “Perché mi persecuti?” a cui l'imperatore, per emulazione rispondeva a tono: “Sì, ti persecuterò fino alla tomba!” terminando quest'ultima parola col sonito d'una campana. Queste e simili scempiaggini si succedevano nella Dimostranza diretta da quel buon uomo. Ma se non altro lasciò l'incremento.
Morto il padre Oliva, lo surrogò il padre don Antonio Scarpulla, uomo eminentemente pietoso, bonario come un agnello, artista e poeta nato, che si lambiccava il cervello a pittare le diverse fasi di S.Ciro con un accento dolce dolce. Fabbricava pur quasi tutte le poesie da mettere in bocca ai personaggi; ed aveva un bell'estro. Ci consumava tre mesi (da maggio ad agosto) a creare soggetti, ad azzeccare le parti; a provare i cori, a contentare ora un imperatore, ora un decurione romano che volevano aggiunte in coda alle loro recite qualche versetto amoroso e dolce; a spendere quattrini, magari del suo, per amor di questa benedetta arte! Era la sua passione. La Dimostranza del padre Scarpulla aveva incarnato qualcosa di mellifluo: pareva il Parnaso ambulante, e parte delle poesie che si recitano ancor oggi sono avanzi suoi, ma di quei versi da bargello del padre Oliva non ce ne è più memoria alcuna, neanco i ruderi.
Morto quest'ultimo, colui che prese le redini per “vox clamanti”, in questa faticosa professione e che diede nuovo impulso, fu il presente signor maestro Francesco Pernice, che col permesso del Macchiavelli gli ho dato in vita il suo epitaffio: “Tanto nomiui nullum par elogium.”
Trattandosi di Dimostranza, signore mie, il Pernice è un uomo che non par più quello. Gusto, udito, odorato, intelletto, tutto mette a buon pro per amor di far bene; è infatti da dieci anni in qua le cose vanno in ben altro modo. Egli si picca di poesia in tutti i generi: eroica, erotica, sacra, eroicomica e la spende pel sul lavoro; coltiva la musica pei cori, crea i gonfaloni con le scritture, costruisce le caldaie di cartone, le carceri, le casette, le grotte, i monti di legno; e poi divide le parti bene e sa scegliere a puntino i personaggi. Insomma è, senza che passi per un elogio, un uomo enciclopedico. Morte e vita, vita e morte di San Ciro: ecco il compendio della sua vita.
Vi farà meraviglia che un uomo possa interessarsi con intelletto d'amore della Dimostranza marinense: ma i gusti son gusti, è questione di vocazione. Ma vi passerà allor quando lo vedrete all'opera lì in mezzo alla strada e ne apprezzerete il suo valore: non mi darete torto. Io dico che potrebbe con orgoglio, se lo volesse, esclamare come quel re di Francia che diceva: “Lo stato son io” e sostituirvi: “La Dimostranza son io”, poiché sembra che la Dimostranza non possa andare senza il Pernice; come per ragione inversa il Pernice senza la Dimostranza. L'uomo e la cosa paiono nati per intendersi.
M'ingegnerò di presentarvi questa processione parlante, anzi questo arruffio, che gira in paese e si svolge in alcune ore (dalle 10 alle 5). La mattina del sabato, in mezzo ad una folla a festa, ad uno schiamazzìo di voci, d'evviva, d'esclamazioni, di risa, al suono di due musiche: una che precede, l'altra che segue; e sotto un sole torrido che fa sudare come salici piangenti e fa risaltare quella pompa, quella magnificenza di pennacchi, di gualdrappe, di manti, di nastri multicolori e lampeggiare gli elmi, le sciabole, gli ori, i monili, trasportandovi in una bella scena medievale.
Avete letto qualche torneo antico ove la mattina concorrono per misurarsi: eccovi l'idea. Con la differenza, che al torneo convenivano i soli uomini d'arme e le dame; qui la mattina della festa, al levar del sole, i personaggi della Dimostranza sbucano da ogni strada come per incanto, arrecandosi tutti in un luogo designato per ivi mettersi in ordine; partire in processione e far ritorno al punto di partenza dopo un cinque o sei ore.
Uomini d'arme; cavalieri in gran cimiero col paggio dietro; decurioni e soldati romani coi larghi lerandi e con le corazze a squame; la genesi di San Ciro: ora fanciullo, ora adulto, ora dottore, ora eremita, poi morto e risuscitato; una diecina di carnefici in maglia con le mazze e i coltellacci; il boia con la mannaia; alabardieri e barbute alla spagnola, tamburi, littori e magistrati romani; donne e uomini egiziani coi caschi e coi turbanti sui crini disciolti; fanciulle arabe; un nugolo di angioletti; diavoli, furie infernali, gli angioli dell'apocalisse e infine la caratteristica cavalleria romana in elmo e corazza con l'imperatore Diocleziano: tutti, tutti si convergono nella strada del Convento, che sembra la valle di Giosafat. Ed ognuno s'ingegna come può per abbellirsi secondo il proprio gusto, a segno di non riconoscere più se siano soldati, angioli, diavoli o arlecchini.
I nastrini di vari colori disposti nei cimieri che scendono come lunghe code; fasci d'orecchini antichi a pendaglio, a cerchietti, a stellette, appesi sul petto, nelle spalle, nelle braccia; braccialetti nei polsi; le dita corazzate d'anelli; i cimieri coi lunghi pennacchi; le testiere degli elmi tappezzati di corna di coralli, orologetti, campanelli di argento come pecorini: e il tintinnio di quei metalli le fa sembrare tante oreficerie ambulanti. Tutto per amor di parere belli e ricchi. E le strette di mano tra loro, rumori di puntali di sciabole; nitriti di cavalli, voci, risa, un chiamarsi a vicenda: il pandemonio; - e in mezzo a tutti tuoneggia il direttore Pernice, che si spolmona, che si scalmana per mettere in ordine tutti e cominciare anco lui la via Crucis. Qui si conosce l'uomo.
Mette a posto un villano barbuto che, intento a contemplare l'innamorata, sta fermo come un palo e non pensa più che ha un dovere da compiere; suggerisce a memoria qualche verso dimenticato ad un timido verecondo che si confonde, e gli fa fare la figura; aggiusta un quadro plastico, ricorda la mimica marinese, fa i cenni d'incoraggiamento; condivide la rabbia, il pianto, il giubilo dei suoi, diciamo così allievi pro-tempore; prova l'orchestra; dirige i cori, dispone ed ordina tutti nei propri posti e “di qua, di là, di su, di giù gli mena”.
E la folla estatica, rovescia una navigata di lodi al direttore, il quale risponde in fretta educatamente, appoggiandosi col suo bastone di comando, per trasportare la sua obesità dall'Orco all'Occàso, sudando, stancando, ma senza darsi vinto prima che non abbia messo a branco il bailamme.
Come Dio vuole, dopo un paio d'ore di raccapezzare il popolame in trasmigrazione, tutto è pronto: il direttore si pianta su due piedi, alza in alto il bastone e fa segno: la banda che precede intuona una marcia e il gran corteo si apre.
E non intendo con ciò di mettere il ridicolo al mio paese, poichè in cima ad ogni mio ideale c'è stato sempre l'amor del nido natio; ma ho voluto fare come il pittore, se la penna non mi casca dalle dita: ritrarre e non inventare, per porre nella tavolozza il bello artistico, la semplicità paesana, l'azione primitiva correa al nascere del genio e farla ammirare e conoscere agli amatori di cosiffatti studii.
Marineo, a quanto ci assicura il rev. padre Calderone, sorgeva, nell'epoca greco-sicula, a poca distanza da dove essa sorge; e precisamente ove oggi c'è il camposanto. Era popolosa città elima, collegata sempre coi greci ed aveva nome Ancinae-Marinae, che significava vicino al mare. Nell'epoca saracena ebbe poi il nome Mirnau o Maranau, come attesta l'Amari, e dopo nel periodo normanno pigliò il nome odierno.
Molte vicende la distrussero e rimase in piedi il solo forte castello che nei Vespri Siciliani mandò pure il suo contingente di 300 barbute, per abbattere il giogo angioino. Fu nel 1530 che pel Congresso di Bologna tra Carlo V e Clemente VII, si concedette il feudo di Marineo al nobile Francesco Beccadelli di Bologna della famiglia del Panormita, e poi verso il 1553 cominciò a sorgere il nuovo castello baronale e il nuovo borgo.
In processo di tempo, per diritto d'eredità, il feudo fu incamerato dalla famiglia dei marchesi Pilo, ma oggi non c'è più un erede presuntivo, bensì un complesso di condomini che traggono guadagno dall'enfiteusi.
Marineo ha un'aria saluberrima ed una posizione delle più ridenti: essa guarda al mar Tirreno. E' posta sul declivo d'una catena di colline che gli fanno corona, con in mezzo ad esse, a cavalieri su tutta la rocca, masso a picco, alto e meraviglioso come una gran piramide. A chi venendo da Palermo guarda il borgo, gli si presenta come un grosso pastore che vegli un branco di pecore.
Di notevole non c'è altro che il castello; e se non ha nulla d'artistico, perché è un fabbricato tozzo e barocco, pure nel contemplare quella vetustà, quei merli, quegli androni e quelle finestre ferrate, l'immaginazione rianda i secoli e pensa con mestizia l'oscurantismo, la tirannide, il romanzo, i feroci baroni con le leggende delle vergini forzate e tradite; gli spadoni, gli elmi e i misteri dei trovatori che nella notte facevano udire il flebile suono del liuto; mentre su in alto al verone il bel viso della castellana spandeva il sorriso di grazia e di amore.
Il castello è appollaiato all'estremità occidentale del paese, sul picco d'un gran dirupo, come una vetta sul ciglione; e dalle sue torri vi si gode una vista incantevole. Spaziando lo sguardo verso il mare, l'occhio s'arricchisce d'un bel panorama nell'aprirsi la sottostante valle tutta a seminerio, a vigne, a giardini, a uliveti, cosparsa di bianchi casolari; finché, oltre il bel Misilmeri, la vista non discerne più che un sol verde il quale più lontana si confonde con l'azzurro del mare ove vi si scorgono nel bel tempo gli isolotti d'Alicudi e Filicudi.
La festa di S.Ciro, che in Marineo suole ricorrere in agosto, è una delle feste più caratteristiche ed attraenti e chiama molti estranei: ma quelle volte che si fa la “dimostranza”, ossia la vita e morte figurata da S.Ciro, allora la calca che accorre è stragrande.
Facciamo la storia. Signore mie, in ab-antico vennero su per la valle due santi, cioè S.Ciro e S.Giusto: l'uno veniva d'Egitto; l'altro non so. Questi due santi, innamoratisi del dolce clima, pensarono di farne la loro dimora. Ma forse per quistione di mestiere o d'interesse positivo, mentre si dividevano i territori, vennero a forte contesa, cioè a tiro- tira, e come suol dirsi, dalle parole passarono ai fatti, si accapigliarono ben bene. Alla fine però, per intercessione di comuni amici, si accomodarono e perciò San Ciro rimase in Marineo; San Giusto in Misilmeri. Ma quando San Giusto, in pompa magna, salì sul suo stallo, alzando la mano per benedire il suo popolo, egli si accorse che aveva quattro dita, invece che cinque!
Sapete chi era stato? Il suo rivale in santità, che siccome era un medico di fama, ed aveva con s‚ forti dosi malefiche, nel momento del furore (o, come si direbbe oggi, eccitazione nervosa) gliene unse un po’ e gli fece cadere un dito per farlo rimanere non più giusto.
Da qui odii, guerre surde, libelli e pettegolezzi tra i due santi, che si trasmisero ai figli in fino a noi e che finiranno, credo, quando il sole non illuminerà più sulle sciagure umane. Questa è la leggenda in bocca al popolino, e questa vi racconto.
Ma in fatto sta che verso il terzo secolo dell'era nostra, quando l'impero Romano precipitava nella china del suo sfacelo e imperava ancora sull'Oriente, nacque da nobile prosapia Santo Ciro, in Alessandria d'Egitto.
Egli divenne fervente cristiano, filantropo e gran taumaturgo ed operò varii miracoli. Ma lo impero romano, sospettoso e crudele repressore delle nuove idee, lo incarcerò e lo martirizzò decapitandolo a Canopo, sobborgo d'Alessandria, ove il santo fu sepolto. Dopo morto, però, il santo operava ancora miracoli, e la fama arrivava infino al pontefice di quei tempi Costantino, questi ne fece ritirare le mortali spoglie in Roma, ponendole in una chiesa della via Portuense.
Fu nel secolo scorso che dal papa Pio VI (sic) venne concesso il teschio miracoloso si S.Ciro a Marineo; e s'istituì la festa il 31 gennaro, giorno che per la prima volta entrò solennemente la reliquia in paese. Ma per beneplacido dei marinensi, una bolla arcivescovile permise loro di trasportare il trionfo ed il tripudio nel mese d'agosto; mese molto comodo ai campagnuoli che hanno terminato il raccolto.
Ai marinesi venne in mente, per vieppiù glorificare le gesta del santo, di rappresentare la vita di S.Ciro tutta figurata, (una specie di martirio di Cristo) ove si mettono in rilievo le virtù sue somme e i miracolosi prodigi a fronte dei suoi feroci persecutori. Ed è questa la Dimostranza di cui voglio parlare; la quale suole rappresentarsi in istrada da quasi duecento personaggi e addobbata coi vestiari apprestati dal povero don Settimo Cane da Palermo. E dico povero, perché ogni volta bisogna che si metta il cuore in pace a far ritorno con la voce rauca; delle celate, delle gonne e qualche manta di S.Ciro non consegnate che in carnevale fanno le metamorfosi da S.Ciro sulle spalle, d'un bersagliere da guerriero sulla zuccoccia d'un babbau.
L'epoca della prima rappresentazione io non posso precisarla, ma ritengo che sarà coeva alla venuta del santo, giacché una vecchia di casa mia, la quale conta quattro ventine e quattro anni (così mi dice lei), mi racconta che a' suoi tempi costumavasi rappresentarsi; e che sua madre le facesse menzione pure di altre “dimostranze”. Quei tempi però ch'erano più oscuri e l'istruzione meno larga, essa veniva rappresentata dalle persone più rispettabili del paese e da per s‚ pigliava una certa serietà; oggi invece che il progresso è latente, non ci concorrono che i contadini e gli operai, per istroppiare lingua, modi, usi, tutto, per di vestirsi con l'imbuto in testa e la durlindana a lato e farsi ammirare dalle amorose.
*
Per quanto ne ricordi io il fautore, l'artista, il direttore di scena e maestro di musica, l'omnibus umano insomma, che impartiva ordini del come si doveva camminare e recitare, era un prevosto: il padre Oliva, buon'anima sua. Uomo alla buona, scempione crudo crudo senza leziosaggini, e pasta vecchia che rimasticava il Credo e l'Ave Maria nella dottrina cristiana, somministrando ai ragazzi vergate da asini. Ma era un cattolico intransigente sviscerato, tanto che predicava dal pulpito “d'aversi chiappato il povero Gesù Cristo il tronco della croce e d'essere scappato su a corsa pel monte calvario, appunto per non vedere da vicino quelle facce da porci degli scribi e farisei, suoi crocifissori”.
Quindi la Dimostranza avea l'impronta sua: personaggi goffi, un tantino triviali e arrabbiati come idrofobi. Una volta egli aveva insegnato ad un villano balbuziente a fare il S.Ciro in catene che si rivolge pietoso all'imperatore Diocleziano chiedendogli: “Perché mi perseguiti?” Ma profferita da quell'attore in quel modo a spiccicare e curioso suonava: “Perché mi persecuti?” a cui l'imperatore, per emulazione rispondeva a tono: “Sì, ti persecuterò fino alla tomba!” terminando quest'ultima parola col sonito d'una campana. Queste e simili scempiaggini si succedevano nella Dimostranza diretta da quel buon uomo. Ma se non altro lasciò l'incremento.
Morto il padre Oliva, lo surrogò il padre don Antonio Scarpulla, uomo eminentemente pietoso, bonario come un agnello, artista e poeta nato, che si lambiccava il cervello a pittare le diverse fasi di S.Ciro con un accento dolce dolce. Fabbricava pur quasi tutte le poesie da mettere in bocca ai personaggi; ed aveva un bell'estro. Ci consumava tre mesi (da maggio ad agosto) a creare soggetti, ad azzeccare le parti; a provare i cori, a contentare ora un imperatore, ora un decurione romano che volevano aggiunte in coda alle loro recite qualche versetto amoroso e dolce; a spendere quattrini, magari del suo, per amor di questa benedetta arte! Era la sua passione. La Dimostranza del padre Scarpulla aveva incarnato qualcosa di mellifluo: pareva il Parnaso ambulante, e parte delle poesie che si recitano ancor oggi sono avanzi suoi, ma di quei versi da bargello del padre Oliva non ce ne è più memoria alcuna, neanco i ruderi.
Morto quest'ultimo, colui che prese le redini per “vox clamanti”, in questa faticosa professione e che diede nuovo impulso, fu il presente signor maestro Francesco Pernice, che col permesso del Macchiavelli gli ho dato in vita il suo epitaffio: “Tanto nomiui nullum par elogium.”
Trattandosi di Dimostranza, signore mie, il Pernice è un uomo che non par più quello. Gusto, udito, odorato, intelletto, tutto mette a buon pro per amor di far bene; è infatti da dieci anni in qua le cose vanno in ben altro modo. Egli si picca di poesia in tutti i generi: eroica, erotica, sacra, eroicomica e la spende pel sul lavoro; coltiva la musica pei cori, crea i gonfaloni con le scritture, costruisce le caldaie di cartone, le carceri, le casette, le grotte, i monti di legno; e poi divide le parti bene e sa scegliere a puntino i personaggi. Insomma è, senza che passi per un elogio, un uomo enciclopedico. Morte e vita, vita e morte di San Ciro: ecco il compendio della sua vita.
Vi farà meraviglia che un uomo possa interessarsi con intelletto d'amore della Dimostranza marinense: ma i gusti son gusti, è questione di vocazione. Ma vi passerà allor quando lo vedrete all'opera lì in mezzo alla strada e ne apprezzerete il suo valore: non mi darete torto. Io dico che potrebbe con orgoglio, se lo volesse, esclamare come quel re di Francia che diceva: “Lo stato son io” e sostituirvi: “La Dimostranza son io”, poiché sembra che la Dimostranza non possa andare senza il Pernice; come per ragione inversa il Pernice senza la Dimostranza. L'uomo e la cosa paiono nati per intendersi.
M'ingegnerò di presentarvi questa processione parlante, anzi questo arruffio, che gira in paese e si svolge in alcune ore (dalle 10 alle 5). La mattina del sabato, in mezzo ad una folla a festa, ad uno schiamazzìo di voci, d'evviva, d'esclamazioni, di risa, al suono di due musiche: una che precede, l'altra che segue; e sotto un sole torrido che fa sudare come salici piangenti e fa risaltare quella pompa, quella magnificenza di pennacchi, di gualdrappe, di manti, di nastri multicolori e lampeggiare gli elmi, le sciabole, gli ori, i monili, trasportandovi in una bella scena medievale.
Avete letto qualche torneo antico ove la mattina concorrono per misurarsi: eccovi l'idea. Con la differenza, che al torneo convenivano i soli uomini d'arme e le dame; qui la mattina della festa, al levar del sole, i personaggi della Dimostranza sbucano da ogni strada come per incanto, arrecandosi tutti in un luogo designato per ivi mettersi in ordine; partire in processione e far ritorno al punto di partenza dopo un cinque o sei ore.
Uomini d'arme; cavalieri in gran cimiero col paggio dietro; decurioni e soldati romani coi larghi lerandi e con le corazze a squame; la genesi di San Ciro: ora fanciullo, ora adulto, ora dottore, ora eremita, poi morto e risuscitato; una diecina di carnefici in maglia con le mazze e i coltellacci; il boia con la mannaia; alabardieri e barbute alla spagnola, tamburi, littori e magistrati romani; donne e uomini egiziani coi caschi e coi turbanti sui crini disciolti; fanciulle arabe; un nugolo di angioletti; diavoli, furie infernali, gli angioli dell'apocalisse e infine la caratteristica cavalleria romana in elmo e corazza con l'imperatore Diocleziano: tutti, tutti si convergono nella strada del Convento, che sembra la valle di Giosafat. Ed ognuno s'ingegna come può per abbellirsi secondo il proprio gusto, a segno di non riconoscere più se siano soldati, angioli, diavoli o arlecchini.
I nastrini di vari colori disposti nei cimieri che scendono come lunghe code; fasci d'orecchini antichi a pendaglio, a cerchietti, a stellette, appesi sul petto, nelle spalle, nelle braccia; braccialetti nei polsi; le dita corazzate d'anelli; i cimieri coi lunghi pennacchi; le testiere degli elmi tappezzati di corna di coralli, orologetti, campanelli di argento come pecorini: e il tintinnio di quei metalli le fa sembrare tante oreficerie ambulanti. Tutto per amor di parere belli e ricchi. E le strette di mano tra loro, rumori di puntali di sciabole; nitriti di cavalli, voci, risa, un chiamarsi a vicenda: il pandemonio; - e in mezzo a tutti tuoneggia il direttore Pernice, che si spolmona, che si scalmana per mettere in ordine tutti e cominciare anco lui la via Crucis. Qui si conosce l'uomo.
Mette a posto un villano barbuto che, intento a contemplare l'innamorata, sta fermo come un palo e non pensa più che ha un dovere da compiere; suggerisce a memoria qualche verso dimenticato ad un timido verecondo che si confonde, e gli fa fare la figura; aggiusta un quadro plastico, ricorda la mimica marinese, fa i cenni d'incoraggiamento; condivide la rabbia, il pianto, il giubilo dei suoi, diciamo così allievi pro-tempore; prova l'orchestra; dirige i cori, dispone ed ordina tutti nei propri posti e “di qua, di là, di su, di giù gli mena”.
E la folla estatica, rovescia una navigata di lodi al direttore, il quale risponde in fretta educatamente, appoggiandosi col suo bastone di comando, per trasportare la sua obesità dall'Orco all'Occàso, sudando, stancando, ma senza darsi vinto prima che non abbia messo a branco il bailamme.
Come Dio vuole, dopo un paio d'ore di raccapezzare il popolame in trasmigrazione, tutto è pronto: il direttore si pianta su due piedi, alza in alto il bastone e fa segno: la banda che precede intuona una marcia e il gran corteo si apre.
***
(SABATO-DOMENICA 22-23 SETTEMBRE 1894)
II.
(SABATO-DOMENICA 22-23 SETTEMBRE 1894)
II.
Ecco, immediatamente dopo la banda musicale vengono quattro angioli con le grandi ali, vestiti del color fiamma viva e coronati d'allori. Nelle destre impugnano le spade fiammeggianti e nelle sinistre le lunghe trombe all'egiziaca: sono gli angioli dell'Apocalisse.
Segue un gran cavallo bardato riccamente con gualdrappa reale e suvvi un bel cavaliero vestito all'eroica, giacché è il Genio o meglio l'angelo tutelare della festa, della guerra e dell'arte. Egli ha corazza ed elmo d'oro; imbraccia un grande scudo con suvvi la scritta: “Honanificentia populi”, quasi a dimostrare lo sfarzo; cinge una grossa spada e nella destra sostiene un grosso stendardo di seta, sormontato dalla croce, con la figura di San Ciro in atto d'aiutare un povero. Due scudieri, che sogliono essere due montanari alti e robusti, vestiti in modo succinto con pugnaletti, trattengono la briglia al nobile animale che, quasi conscio del regale peso e della pompa signorile, scuote il capo e nitrisce superbamente.
Questo primo gruppo con personaggi muti che danno mostra di loro, ed emblemificano il bello e la grandiosità che deve svolgersi, se non che le cose di questo mondo spesso vanno al rovescio; per rappresentare il Genio, che importa nell'ordine naturale il più bel giovane del paese, egli paga cinque lire di mancia a quei due scudieri, che fanno da staffieri, da servi e talvolta da castigamatti, quando qualche impertinente giovinastro vorrebbe fare dello spirito. Vanno lenti e maestosi, fermandosi volentieri vicino ai gruppi di spettatori e a vista dei loro idealacci, come diceva un mio amico per farsi contemplare nei loro splendidi bagliori. Intendono compiacere le esclamazioni che partono dalla folla: “Ih che gioia! Uhi ch'è bello! Oh che ricchezza!” Ringraziano tronfi e superbi con dei brevi cenni del capo. E quando lì vicino si trova una madre o un parente, accettano anch'essi come proprio le lodi e se ne vanno in visibilio, in sollucchero!
*
Viene dopo la Prudenza, figura allegorica che si riferisce ad una delle virtù del santo, con la scritta in petto: “Qui audit me non confundetur”, per dimostrare che San Ciro, unito al gran sapere e alla religione cristiana, accoppierà anco questa che vince ogni ostacolo. Veste all'amazzone con elmo di bronzo, per ripararsi bene i colpi della sventura, corazza spessa e scudo largo come una targa del '500. Nella destra porta un serpente allibito che sta cheto appunto perché non può vincere questa grande dea.
*
Dopo si vede la Religione, e precede la nascita del santo, come a dirci ch'Essa nasce con noi ed è principio e fine immortale. Ha veste talare bianca; piviale sulle spalle, tiara e bacolo pontificio. Nel braccio ha un cartello con lettere cubitali: “Olim in prophetisé novissime in filio”.
*
Quindi un cherubino splendente di luce, con una colonna di fuoco (di cartone) nella sinistra, che annunzia la nascita del santo dicendo: “Signum magnum”. Gran segno è quel fuoco: è nato l'uomo pel cielo.
*
Seguono due nobili vecchi egiziani, vestiti l'uno col turbante, la cappa e i sandali, l'altro col casco d'oro sui crini candidi e con le vesti tempestate di gemme e di zaffiri. Essi sono i genitori di San Ciro che conducono seco il fanciulletto biondo e raggiante di beltà: quella beltà che predice tanto. A lato, un po' scostata, li segue un'altra donna vestita meno ricca, poichè è la nutrice.
*
Ecco che viene San Ciro, ragazzino di quasi cinque anni (vedete come si cresce in Marineo?) vestito all'egiziana, vispo e intelligente che va cogli occhi rivolti al cielo facendo l'apoteosi del Cristo Redentore, quasi preconizza la sua vita; e pei pericoli ch'esso potrà incorrere, in quei tempi di barbare repressioni per la libertà del pensiero, il cielo lo fa seguire e proteggere da un Angelo custode con la spada sguainata e con grande scudo, che lo veglia ovunque per ispianargli la via. Infatti, l'angelo ha scritto il detto nello scudo: “Ad custodiendum viam”.
*
S'avanza dopo, con passo solenne, una Giustizia che si mostra al precursore con la sua inesorabile spada a due tagli, che scaccia gl'indegni alla prova: e con la bilancia che saggia le colpe e i meriti. E' una donna vestita come tutte le giustizie di questo mondo. La vediamo dappertutto ove si fa ludibrio in suo nome; la vediamo nei tribunali, la vediamo nelle monete, quasi a dimostrare che moneta e tribunale siano nati per comprare l'una o l'altro. Ma la Giustizia qui è incorrotta e incorruttibile, e non c'è verso che pieghi il capo a minacce, a preghi, a lamenti: è nella Dimostranza.
...torre ferma che non crolla
giammai la cima pel soffiar dei venti.
*
Poi si vede un'altra donna tutta in bianco: essa è la Fede. E' la figura mistica e al vederla vengono sulle labbra i versi del divino poeta:
A noi venia la creatura bella,
bianco vestita e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Ha bianca la veste talare; bianco il velo cimerale che le scende da capo a piè velando il viso; bianco il vergine calice che tiene in mano; bianca la lunga croce che porta. La figura celeste è sublimemente bella che chiama a s‚ i miseri che conforta i tribolati e terge furtivamente la lacrima dell'orfana e della madre afflitta e vedovata. La fede porta lo scritto: “In hoc signu credimus” ed è scesa al cuore del giovinetto pagano che ha fatta di sé e per sé.
*
Allora dopo c'è il giovinetto Ciro che, inginocchiandosi chiede con brama al patriarca Teofilo d'Alessandria il battesimo; Teofilo con gran barba fluente, veste gli abiti alla greca, cio‚ gran cappa bianca tessuta in oro, il baculo e la mitra, siedendo in fra due ministri. Egli con gran voce chiede a Ciro: “Ciro, ti vuoi battezzare?” a cui il giovinetto risponde che sì; Teofilo l'asperge con acqua proferendo le sacramentali parole: “Ego ti bactizzo etc.”, e, ricevuto il quale, Ciro si alza e ringrazia con le braccia, con il viso, con le gambe, recitando questa quartina giubilante e dolce come uno zeffiro, favoritogli dalla musa del padre Scarpulla:
Contento già sono,
Soave rapito,
Per questo gran dono
Davver saporito!
e ricominciano a camminare.
Ogni recita s'attira una calca di persone che, o per sentire, o per fare la satira, o per gustare le mosse e le parole o per commuoversi, s'attorniano agli attori, i quali rimangono incerchiati in un piccolo vuoto come i giocolieri da piazza. E voi vedete in una strada sei o sette capannelli di persone con in mezzo chi grida alzando le braccia; altri più sopra che gesticola come uno spiritato; altri che brandisce la sciabola ferocemente; altri ancora che rulla il tamburo facendo un bel contrasto. E quell'andirivieni, quei personaggi vestiti di nuovo conio, fanno un bel risalto al vestire comune degli uomini e delle donne che si pigiano sui marciapiedi, sulle soglie delle porte, sui davanzali delle finestre e sui balconi pieni zeppi di cappellini, di ombrelli, di mantelline, di fazzoletti, di busti di ogni colore che si riparano il sole con coltri disposte al disopra, trattenute da due pertiche come capanne.
*
Due anni addietro, colui che faceva il San Ciro in atto di ricevere il battesimo, era un ragazzo biricchino e furbo, che ha nome Palicchio; ragazzo che se il Berni è “maestro e padre del burlesco stile” questi è “allievo e figlio del burlesco fare”. E' una testuccia inquieta e disperazione di tutti: ma molto più del sagrestano don Filippo, docente nella sagrestia, per la dottrina cristiana, il quale ha provato la sorpresa qualche volta di sedersi nella sua cattedra unta di terebentina e di saltare come molla, mettendosi frettolosamente le mani al di dietro ove per l'appunto ci si era conficcato qualche spillo.
La sua parte la svolgeva con serietà, che a quel volto di barboncino ci accresceva la furberia; ed ogni qualvolta recitava gli si attorniavano molti ragazzi che, spesso, furtivamente gli indirizzavano un frizzo o un motto per vizzarlo. Ai quali pungoli il povero Palicchio si struceva di non potere rispondere adeguatamente con un ciottolo sul cocuzzolo, per amor del suo ministero, e si contentava di muovere gli occhi e di saettare gl'importuni. Ma quella volta, mentre recitava la quartina dolce, ringraziando il vescovo Teofilo, gliene dissero una così ineducata che molti sghignazzarono. Palicchio si trovò fra le spine; biascicò una parola e stava per dire..., ma vista quella faccia di terra cotta del patriarca con l'asperges in mano, si ricacciò la bile e tacque: non sapendo ch'egli rimase a mezzo della recita.
Il vescovo gli sussurrò: “Dunque, com'è finita?” ma Palicchio confuso taceva, e in quel silenzio uno screanzato gli gridò: “Palicchio, che sei stato animale a quattro piedi che te lo pigli oggi il battesimo?” e la buffonata fu accolta con delle risa. Allora Palicchio, non potendosi più contenere, si voltò grullo grullo verso quegli e li rimproverò, su per giù, con questa cosa qui ermafrodita che non potrò mai dimenticare:
Non capite mica niente;
Siete gente delle stalle
E dignitosamente
Vi rivolgo le spalle.
Dette queste parole, solennemente fece punto, chiudendosi nel silenzio del disprezzo, degno di quel fanciullo sennato ch'egli era. Gran mercè, Palicchio, la facesti proprio come un presidente di ministri. Ma venne poi il direttore Pernice e con l'autorità rimise la calma gridando a riprese: “Avanti! avanti! avanziamo!” come un generale in una battaglia.
Questi sono gli aneddoti che si succedono nella Dimostranza, e ne riporterò qualche altro: ma se li dicessi tutti non finirei più. La scena è seria nel suo complesso; eppure se si dovesse piangere sempre, credete a me, nessuno accorrerebbe. Sono queste barzellette e queste picche, che attirano vieppiù gli spettatori, perché il popolo vuole stare a sgangherarsi per farne contare i denti.
Intanto succede la reazione. In grazia di quel dito (capite?) che San San Ciro tirò a San Giusto, i misilmeresi ci hanno sempre l'acrimonia in corpo con questo santo, e perciò dinanzi a simili spettacoli ti fanno una satira sanguinante e piena di frizzi itterici. Proprio per la smania di quel benedetto dito, s'arriva anco alla pornografia illustrata che se la martellano a vicenda, nel popolino. Tant'è l'amor di patria!
*
A pochi passi dal San Ciro battezzato, si vede una giovinetta con veste candidissima, con fronde verdi alla fronte e coi gigli nella destra. E' l'Innocenza col detto: “Nive candidior”, come a dire che la purgazione del paganesimo rese il Ciro scevro di qualunque macchia.
*
San Ciro, divenuto adolescente, comincia ad avere la coscienza del suo, o si prepara all'ascetismo. Egli va dopo l'innocenza e cammina pensoso col Cristo in mano dicendo: “Sub umbra illos”, sotto il tuo sguardo percorrerò la via disagevole.
*
E dopo, eccovi la Speranza, quella speranza del poi, che rende Ciro forte. Indossa veste di color verde; ha in fronte le verdi foglie e in mano un'ancora con la scritta: “Spes illorum immortalitate plena”, che mi fa rammentare con mestizia la torre della Speranza d'Amsterdam, del De Amicis. A quanti sogni noi non ci appigliamo con la fermezza del reale? Quante cose belle noi non crediamo di realizzare? E' la speranza. Quante volte non rammentiamo i morti pensando alle caducità presenti, e lo sconforto ci sovrasta il cuor che par si rompa? Ma la misteriosa madre si solleva il cuore e con voce benefica ci sussurra: “Spes”, a cui l'animo rinfrancato risponde: “Spes”. E noi ci afferriamo a quell'ancora come il naufrago, per salvarsi dalla procella che da un momento all'altro può involgerci e buttarci nel nulla, nel vuoto interminabile e nell'abisso! Chi non ha rivolto l'animo alla luna? Chi non ha provato un senso di mestizia profondo ed uno sconforto potente nella solitudine e nel silenzio della notte da desiderarsi con feroce voluttà la morte? Ah! Eppure sono stati ottimi, poiché, sorretto dall'amica dea, l'animo risorge e si riapre a nuovi sogni, orizzonti dorati, ideali fecondi e divini, altro mondo:
Laghi, perenni fonti, aure beate!
E' la speranza.
Segue un gran cavallo bardato riccamente con gualdrappa reale e suvvi un bel cavaliero vestito all'eroica, giacché è il Genio o meglio l'angelo tutelare della festa, della guerra e dell'arte. Egli ha corazza ed elmo d'oro; imbraccia un grande scudo con suvvi la scritta: “Honanificentia populi”, quasi a dimostrare lo sfarzo; cinge una grossa spada e nella destra sostiene un grosso stendardo di seta, sormontato dalla croce, con la figura di San Ciro in atto d'aiutare un povero. Due scudieri, che sogliono essere due montanari alti e robusti, vestiti in modo succinto con pugnaletti, trattengono la briglia al nobile animale che, quasi conscio del regale peso e della pompa signorile, scuote il capo e nitrisce superbamente.
Questo primo gruppo con personaggi muti che danno mostra di loro, ed emblemificano il bello e la grandiosità che deve svolgersi, se non che le cose di questo mondo spesso vanno al rovescio; per rappresentare il Genio, che importa nell'ordine naturale il più bel giovane del paese, egli paga cinque lire di mancia a quei due scudieri, che fanno da staffieri, da servi e talvolta da castigamatti, quando qualche impertinente giovinastro vorrebbe fare dello spirito. Vanno lenti e maestosi, fermandosi volentieri vicino ai gruppi di spettatori e a vista dei loro idealacci, come diceva un mio amico per farsi contemplare nei loro splendidi bagliori. Intendono compiacere le esclamazioni che partono dalla folla: “Ih che gioia! Uhi ch'è bello! Oh che ricchezza!” Ringraziano tronfi e superbi con dei brevi cenni del capo. E quando lì vicino si trova una madre o un parente, accettano anch'essi come proprio le lodi e se ne vanno in visibilio, in sollucchero!
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Viene dopo la Prudenza, figura allegorica che si riferisce ad una delle virtù del santo, con la scritta in petto: “Qui audit me non confundetur”, per dimostrare che San Ciro, unito al gran sapere e alla religione cristiana, accoppierà anco questa che vince ogni ostacolo. Veste all'amazzone con elmo di bronzo, per ripararsi bene i colpi della sventura, corazza spessa e scudo largo come una targa del '500. Nella destra porta un serpente allibito che sta cheto appunto perché non può vincere questa grande dea.
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Dopo si vede la Religione, e precede la nascita del santo, come a dirci ch'Essa nasce con noi ed è principio e fine immortale. Ha veste talare bianca; piviale sulle spalle, tiara e bacolo pontificio. Nel braccio ha un cartello con lettere cubitali: “Olim in prophetisé novissime in filio”.
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Quindi un cherubino splendente di luce, con una colonna di fuoco (di cartone) nella sinistra, che annunzia la nascita del santo dicendo: “Signum magnum”. Gran segno è quel fuoco: è nato l'uomo pel cielo.
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Seguono due nobili vecchi egiziani, vestiti l'uno col turbante, la cappa e i sandali, l'altro col casco d'oro sui crini candidi e con le vesti tempestate di gemme e di zaffiri. Essi sono i genitori di San Ciro che conducono seco il fanciulletto biondo e raggiante di beltà: quella beltà che predice tanto. A lato, un po' scostata, li segue un'altra donna vestita meno ricca, poichè è la nutrice.
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Ecco che viene San Ciro, ragazzino di quasi cinque anni (vedete come si cresce in Marineo?) vestito all'egiziana, vispo e intelligente che va cogli occhi rivolti al cielo facendo l'apoteosi del Cristo Redentore, quasi preconizza la sua vita; e pei pericoli ch'esso potrà incorrere, in quei tempi di barbare repressioni per la libertà del pensiero, il cielo lo fa seguire e proteggere da un Angelo custode con la spada sguainata e con grande scudo, che lo veglia ovunque per ispianargli la via. Infatti, l'angelo ha scritto il detto nello scudo: “Ad custodiendum viam”.
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S'avanza dopo, con passo solenne, una Giustizia che si mostra al precursore con la sua inesorabile spada a due tagli, che scaccia gl'indegni alla prova: e con la bilancia che saggia le colpe e i meriti. E' una donna vestita come tutte le giustizie di questo mondo. La vediamo dappertutto ove si fa ludibrio in suo nome; la vediamo nei tribunali, la vediamo nelle monete, quasi a dimostrare che moneta e tribunale siano nati per comprare l'una o l'altro. Ma la Giustizia qui è incorrotta e incorruttibile, e non c'è verso che pieghi il capo a minacce, a preghi, a lamenti: è nella Dimostranza.
...torre ferma che non crolla
giammai la cima pel soffiar dei venti.
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Poi si vede un'altra donna tutta in bianco: essa è la Fede. E' la figura mistica e al vederla vengono sulle labbra i versi del divino poeta:
A noi venia la creatura bella,
bianco vestita e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Ha bianca la veste talare; bianco il velo cimerale che le scende da capo a piè velando il viso; bianco il vergine calice che tiene in mano; bianca la lunga croce che porta. La figura celeste è sublimemente bella che chiama a s‚ i miseri che conforta i tribolati e terge furtivamente la lacrima dell'orfana e della madre afflitta e vedovata. La fede porta lo scritto: “In hoc signu credimus” ed è scesa al cuore del giovinetto pagano che ha fatta di sé e per sé.
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Allora dopo c'è il giovinetto Ciro che, inginocchiandosi chiede con brama al patriarca Teofilo d'Alessandria il battesimo; Teofilo con gran barba fluente, veste gli abiti alla greca, cio‚ gran cappa bianca tessuta in oro, il baculo e la mitra, siedendo in fra due ministri. Egli con gran voce chiede a Ciro: “Ciro, ti vuoi battezzare?” a cui il giovinetto risponde che sì; Teofilo l'asperge con acqua proferendo le sacramentali parole: “Ego ti bactizzo etc.”, e, ricevuto il quale, Ciro si alza e ringrazia con le braccia, con il viso, con le gambe, recitando questa quartina giubilante e dolce come uno zeffiro, favoritogli dalla musa del padre Scarpulla:
Contento già sono,
Soave rapito,
Per questo gran dono
Davver saporito!
e ricominciano a camminare.
Ogni recita s'attira una calca di persone che, o per sentire, o per fare la satira, o per gustare le mosse e le parole o per commuoversi, s'attorniano agli attori, i quali rimangono incerchiati in un piccolo vuoto come i giocolieri da piazza. E voi vedete in una strada sei o sette capannelli di persone con in mezzo chi grida alzando le braccia; altri più sopra che gesticola come uno spiritato; altri che brandisce la sciabola ferocemente; altri ancora che rulla il tamburo facendo un bel contrasto. E quell'andirivieni, quei personaggi vestiti di nuovo conio, fanno un bel risalto al vestire comune degli uomini e delle donne che si pigiano sui marciapiedi, sulle soglie delle porte, sui davanzali delle finestre e sui balconi pieni zeppi di cappellini, di ombrelli, di mantelline, di fazzoletti, di busti di ogni colore che si riparano il sole con coltri disposte al disopra, trattenute da due pertiche come capanne.
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Due anni addietro, colui che faceva il San Ciro in atto di ricevere il battesimo, era un ragazzo biricchino e furbo, che ha nome Palicchio; ragazzo che se il Berni è “maestro e padre del burlesco stile” questi è “allievo e figlio del burlesco fare”. E' una testuccia inquieta e disperazione di tutti: ma molto più del sagrestano don Filippo, docente nella sagrestia, per la dottrina cristiana, il quale ha provato la sorpresa qualche volta di sedersi nella sua cattedra unta di terebentina e di saltare come molla, mettendosi frettolosamente le mani al di dietro ove per l'appunto ci si era conficcato qualche spillo.
La sua parte la svolgeva con serietà, che a quel volto di barboncino ci accresceva la furberia; ed ogni qualvolta recitava gli si attorniavano molti ragazzi che, spesso, furtivamente gli indirizzavano un frizzo o un motto per vizzarlo. Ai quali pungoli il povero Palicchio si struceva di non potere rispondere adeguatamente con un ciottolo sul cocuzzolo, per amor del suo ministero, e si contentava di muovere gli occhi e di saettare gl'importuni. Ma quella volta, mentre recitava la quartina dolce, ringraziando il vescovo Teofilo, gliene dissero una così ineducata che molti sghignazzarono. Palicchio si trovò fra le spine; biascicò una parola e stava per dire..., ma vista quella faccia di terra cotta del patriarca con l'asperges in mano, si ricacciò la bile e tacque: non sapendo ch'egli rimase a mezzo della recita.
Il vescovo gli sussurrò: “Dunque, com'è finita?” ma Palicchio confuso taceva, e in quel silenzio uno screanzato gli gridò: “Palicchio, che sei stato animale a quattro piedi che te lo pigli oggi il battesimo?” e la buffonata fu accolta con delle risa. Allora Palicchio, non potendosi più contenere, si voltò grullo grullo verso quegli e li rimproverò, su per giù, con questa cosa qui ermafrodita che non potrò mai dimenticare:
Non capite mica niente;
Siete gente delle stalle
E dignitosamente
Vi rivolgo le spalle.
Dette queste parole, solennemente fece punto, chiudendosi nel silenzio del disprezzo, degno di quel fanciullo sennato ch'egli era. Gran mercè, Palicchio, la facesti proprio come un presidente di ministri. Ma venne poi il direttore Pernice e con l'autorità rimise la calma gridando a riprese: “Avanti! avanti! avanziamo!” come un generale in una battaglia.
Questi sono gli aneddoti che si succedono nella Dimostranza, e ne riporterò qualche altro: ma se li dicessi tutti non finirei più. La scena è seria nel suo complesso; eppure se si dovesse piangere sempre, credete a me, nessuno accorrerebbe. Sono queste barzellette e queste picche, che attirano vieppiù gli spettatori, perché il popolo vuole stare a sgangherarsi per farne contare i denti.
Intanto succede la reazione. In grazia di quel dito (capite?) che San San Ciro tirò a San Giusto, i misilmeresi ci hanno sempre l'acrimonia in corpo con questo santo, e perciò dinanzi a simili spettacoli ti fanno una satira sanguinante e piena di frizzi itterici. Proprio per la smania di quel benedetto dito, s'arriva anco alla pornografia illustrata che se la martellano a vicenda, nel popolino. Tant'è l'amor di patria!
*
A pochi passi dal San Ciro battezzato, si vede una giovinetta con veste candidissima, con fronde verdi alla fronte e coi gigli nella destra. E' l'Innocenza col detto: “Nive candidior”, come a dire che la purgazione del paganesimo rese il Ciro scevro di qualunque macchia.
*
San Ciro, divenuto adolescente, comincia ad avere la coscienza del suo, o si prepara all'ascetismo. Egli va dopo l'innocenza e cammina pensoso col Cristo in mano dicendo: “Sub umbra illos”, sotto il tuo sguardo percorrerò la via disagevole.
*
E dopo, eccovi la Speranza, quella speranza del poi, che rende Ciro forte. Indossa veste di color verde; ha in fronte le verdi foglie e in mano un'ancora con la scritta: “Spes illorum immortalitate plena”, che mi fa rammentare con mestizia la torre della Speranza d'Amsterdam, del De Amicis. A quanti sogni noi non ci appigliamo con la fermezza del reale? Quante cose belle noi non crediamo di realizzare? E' la speranza. Quante volte non rammentiamo i morti pensando alle caducità presenti, e lo sconforto ci sovrasta il cuor che par si rompa? Ma la misteriosa madre si solleva il cuore e con voce benefica ci sussurra: “Spes”, a cui l'animo rinfrancato risponde: “Spes”. E noi ci afferriamo a quell'ancora come il naufrago, per salvarsi dalla procella che da un momento all'altro può involgerci e buttarci nel nulla, nel vuoto interminabile e nell'abisso! Chi non ha rivolto l'animo alla luna? Chi non ha provato un senso di mestizia profondo ed uno sconforto potente nella solitudine e nel silenzio della notte da desiderarsi con feroce voluttà la morte? Ah! Eppure sono stati ottimi, poiché, sorretto dall'amica dea, l'animo risorge e si riapre a nuovi sogni, orizzonti dorati, ideali fecondi e divini, altro mondo:
Laghi, perenni fonti, aure beate!
E' la speranza.
***
(DOMENICA-LUNEDÌ 23-24 SETTEMBRE 1894)
III.
(DOMENICA-LUNEDÌ 23-24 SETTEMBRE 1894)
III.
San Ciro è adulto e studia. Egli s'avanza ispirato dalla parola dei profeti e dalla verità della scienza. Va coi libri nella sinistra, e con la destra porge l'elemosina a quattro poverelli egiziani che pieni di gratitudine gli baciano i lembi della veste esaltandone l'animo nobile. Uno dei poveri che riceve l'elemosina di San Ciro, suole essere quasi sempre un Vito Scarafuni, giovane capo ameno che visita spesso il domopetri. La carità del santo, la gratitudine, sono un passivo per Scarafuni, perché egli non crede ad altro che al nettare. Gli si può mettere in bocca, e gli sta bene, la professione di fede che il Pulci fa dire al lercio gigante Margutte:
Nella cervagia è quand'io n'ho nel mosto,
E' molto più nell'aspro che il margurro,
Ma sopra tutto nel buon vino ha fede
E credo che sia salvo chi ci crede.
Beve e beato Scarafuni, egli non cerca arzigogoli, non si dilunga in ringraziamenti, non crede ad altro. Vestito da povero, porta appeso un fiasco alla cintola e con esso egli discorre tutta la processione protestando con motti che egli crede al solo contenuto. Immaginate quali e quanti monellacci s'attiri a s‚ lo Scarafuni, che, invece di svolgere seriamente la parte sua beve, beve e beve finché arriva a casa col capo fra le nuvole. E non crediate ch'esso sia solo nella bisogna, perché c'è un suo compare Cuticchio il quale ha grandissimo odio per l'acqua.
*
Dopo i poveri si vede un'altra figura di donna vestita del color di porpora con un cuore fiammeggiante in mano. E' la carità, feconda con la scritta in petto: “Amore langue”.
*
Enumerate le virtù del santo, eccoci San Ciro già uomo completo, laureato medico che prodiga le cure agli ammalati poveri e fa i prodigi. Egli come tutti i taumaturghi veste con zimmarra, cappello a cilindro e canna d'America col pomo d'argento. (Badate: in quell'epoca del martirio, cioè al terzo secolo dell'era nostra, in Alessandria d'Egitto questa moda dei cappelli a cilindro c'era; forse fu modellata su qualche geroglifico. Ed è per questo che si suol dire: cose d'Egitto).
La fama del santo è arrivata al suo apogeo. Come medico fa miracoli; come cristiano è l'esempio d'una vita intemerata piena d'amore e d'abnegazione pel prossimo. Ma, “ora incomincian le dolenti note”. L'infermo geloso dei suoi progressi si scaglia contro lui per dannarlo; ma il paradiso il protegge. Sorge quindi il contrasto e ad ogni furia infernale è contrapposto un messaggero divino.
*
S'avanza un uomo pallido in faccia con la barba setolosa ed unta, capelli sconvolti, gli occhi iniettati come iena e con le labbra contorte che le muove ad uno scherno che veste a vari colori con indumenti quasi femminili tutto scomposti. E' la Disperazione dal cruce animo. Guarda San Ciro e si morde in pensando alla strada ch'egli è avviato; gli va incontro e con le pugna serrate urla:
M'arrabbio e monto in furia
Veggendo in tanto bene
Ciro progredir, m'arrabbio,
Mi struggo in odio e pene.
Sguaina un pugnale e assalisce il santo per ferirlo: ma... San Ciro non si muove niente affatto sicuro del fatto suo; (e come no?) e la disperazione col braccio in alto impedito misteriosamente, non potendo altro, vomita parole d'esecrazione e di maledizione per s‚, pel mondo, pei suoi genitori, per Dio, per tutti, con gesti da ossessa e con salti da puledro selvaggio. Oh illustre Pitrè, ci venga qui e vedrà se quello che con somma arte hanno rappresentato gli illustri Ximenesé Civiletti e Cocchiara al Politeama Garibaldi, quì non si succede nel modo più logico e naturale. Qui (giù la molestia) è la vis comica senza squadro. Ma torniamo a noi.
*
Un coro di dodici fanciullette, vestite bianco con le frondi verdi in capo, cantano la canzoncina aurea, per quietare l'animo feroce della Disperazione:
Quanto costa il tuo delitto
Sconsigliata umanità;
All'idea di quelle pene
Che il tuo dio per te sostiene,
Tutto geme il mondo afflitto
Solo tu non hai pietà.
E replicano il ritornello:
Solo tu non hai pietà.
A cui la furia crucciata grida:
Basta, basta ch'io lo so
Lo comprendo quanto costi il mio delitto!
*
Quando la musa del Pernice non è ispirata, egli poverino va in prestito; piglia a dozzina delle poesie e le appiccica qui. Questa sarà credo dell'Orioles e dev'essere pel martorio di Cristo: ma in Marineo s'accetta per San Ciro. Nella Dimostranza, pure non manca la nota di quell'effetto dolce e soave. Il sentire l'argentina voce di tante fanciullette, tutte vestite bianco, vi sembra qualche cosa di celeste che rammenta le canzoncine piene di grazia e di fantasie sublimi degli anni vostri più belli.
E la musica che l'accompagna? Esto il Busillos. Non è la musica classica straniera ch'è entrata dappertutto e che anco alla marina certe sere suonano, lì sentite un grido di piatti, rumori di gran cassa e timpani, rulli di tamburo, ghirigori di tromboni, squilli di tromba a iosa e roboati cupi e tutto finisce. Vi dicono ch'è musica difficile ed esecuzione magistrale. Ma che v'importa a voi quando nell'animo non v'ha svegliato il fulgore d'una rimembranza? Né un sussurro arcano? Né una voce fatidica? Né un affetto che tenete riposto nel cuore, per assopirvi placidamente? Oh cosa avete capito di quella musica? Nulla! E' stata: terremoto musicarum,- ed il rumore non è figlio delle ninfe.
Qui invece la musica è quieta come olio. Chi accompagna il coro è Menico il violinista che ritrae suoni come voci di topi e Mariano che suona il violoncello, appeso sulla pancia come una madia, con corde di spago che fa grugniti tirando l'arco giù e su. E tra loro i suonatori non cessano mai di gridarsi a vicenda le note da pigliare: “Gesefauttu! L'amirè minore! Elemi con settima, passaggio e cadenza! Do o o o!” E quel dolce che ispirano le ragazzine si digerisce subito e ci si cambia in un risolino di sdegno che si vorrebbe esprimere con una tirata di nerbate sul muso ai suonatori.
*
Viene la Sapienza col motto: “Sapientia timor Domini.” Esso ora è concetto nel santo e lo tiene veglio per non cadere nelle frolezze umane. Indossa una veste color di porpora e sul capo porta una corona che tramanda raggi di luce: la luce che dirada le tenebre dell'oscurantismo.
*
Ma dietro gli tiene la Discordia che molesta, vestita a toppe come un arlecchino, brutta, fangosa e cinta dalle idre infernali, vorrebbe sconvolgere l'anima alla Sapienza; ma un angelo con le grandi ali ed una spada in mano la protegge. E non basta, perché un altro personaggio che si chiama la Persecuzione con elmo, corazza e scudo, con arco e turcasso pieno di frecce, tiene lontana la furia. E quando questa importuna, la Persecuzione le scocca uno strale, e l'anima dannata fugge atterrita per un venti passi; poi si volta, ritorna a poco a poco, insinuandosi tra la folla tutta guardinga e s'apposta dietro al suo soggetto per ricominciare daccapo a far le fiche.
*
La fama del santo, arriva al governo romano, che geloso delle idee va in cerca per arrotarlo. Si vede quindi un decurione, col motto: “Filii diaboli” (vedete quanti ne ha Marineo?) armato fino ai denti, col bastone di comando come un antico maresciallo di Francia, e seguito da venti barbute, che fiuta ovunque come tutti i suoi simili, per iscovare il reprobo. Poi esorta quei soldati, che forse stanchi ed affamati vorrebbero pronunciare, li dispone in circolo e parla così:
Soldati miei cari,
Il vostro zelo non vacilli per ora,
Chi si trattiene sul mezzo corso
Della sua vittoria,
Degno è sol di biasimo
E non di gloria.
E terminata questa cancione, quei cervelli son persuasi. Egli seguito dai suoi fidi si rimette in cammino strascinando la lunga sciabola come un bravazzone e salutando ora un amico, ora un parente.
*
Ed ecco San Ciro che abbandona il mondo. Egli dispensa tutto il suo avere ad altri poveri egiziani e dà danaro, robba, carte di valore, libri, e quei ficcano avidamente tutto il costituendo del dottore il quale si ritira sui monti a far l'anacoreta.
*
Quindi si vede dopo, vestito pellegrino con a lato la Castità, una delle sue doti, in bianco con la palma in mano.
*
Indi un altro San Ciro nell'eremo, proprio in una grotta in legno portatile creata dal Pernice, ove il santo sta innanzi alla bocca col Cristo in mano vestito di sacco, coronato di spine. E' l'emblema della Penitenza.
*
Ma due donne, l'una distinta dall'altra vengono a tentare San Ciro. La prima è una diavola femmina furente, con la faccia vizza e scarna (sarà la madre dei Filii diaboli?) con un tamburello in mano che balla attorno al penitente come una sguaiataccia, per attirarlo a s‚ coi sorrisi, con le flessuosità del corpo e coi movimenti ritmici. Ma San Ciro è un povero vecchierello che non lo potrebbe smuovere nemmeno il Can-can.
*
Allora l'Inferno vedendo che questo mezzo è disadatto, perché la diavola non ha tatto diplomatico, manda la za Carolina, ossia la Vanità, una donna qui del paese che s'atteggia a bella, con la faccia lustra come una petronciana, esatta e simmetrica al pari d'una geometria. L'assalto, per espugnare la fortezza, è strategico.
Ella veste scollata e piena di fronzoli, tutta sorrisi dolci; con uno specchio in mano che si ammira nella propria grazia e gira d'attorno ad un altro San Ciro vecchierello, facendo cento moine per farlo cadere nel paretaio. Scioccherie! San Ciro guarda attonito e non capisce un'acca di tutta questa gazzarra; egli non fa che un solo movimento; ogni tanto si gratta la pera come a significare: “Ho altre mene pel capo; mondo più non fa per me.”
*
E l'Inferno? l'Inferno non s'arrende; anzi diviene furibondo e rincara la dose. Se i mezzi mondaine, come direbbe un poliglotta moderno, non riescono, allora ricorre alla prepotenza. Manda un Cerbero, un brutto diavolo con una mascheraccia e le corna in fronte, vestito di rosso maculato e coi piedi avvolti in due pezzi di pelle pecorina. Esso è rattenuto da una catena avvolta al corpo che dà l'uno dei capi ad un angelo, il quale sta con la spada snodata in atto di ferire. Questo cerbero è pagato a sei tarì al giorno perché il suo lavoro è faticoso. (Il Diavolo guadagna sei tarì al giorno; signori socialisti, aprite gli orecchi). Egli vorrebbe sorpassare ad ogni costo la barriera, che consiste nell'Angelo, per abbrancare il San Ciro e portarselo con sé! Ma non può e si morde ferocemente dando in ismanie. Ora si dispone ad assalire l'angiolo direttamente; ma spaventato fugge a precipizio: poi ritorna piano piano, raccoglie la catena che l'avvinghia, la tiene a sé; avanza il passo curvato e, circospetto come una belva, spia con gli occhi la distanza che lo divide; già s'avvicina tutto giulivo alla meta; cammina ancora... dà un altro passo... è arrivato... sorpassa.... Ma l'angiolo subitamente si volta e lo punta con la spada: e quegli fugge tremante dandosi delle mani nel capo, sollevando un gran polverio e dando urtoni a chi intoppa degni del diavolo.
Però la faccenda non dura sempre così. Nelle cinque o sei ore di percorso, ogni tanto il diavolo scappa ed entra in una casa (già si sa, ficca le corna dove vuole) mettendo lo spavento a tutti. Abbraccia le donne che modestamente lo sgridano; fa garrire i marmocchi; dà ceffoni agli amici, pedate ai cani che lo ringhiano paurosi e poi calmatisi un po', si siede o invita l'angiolo ad entrare, ch'è accolto da angiolo. E quì, signore mie, succede quello che in nessun angolo del mondo mai s'è visto: il diavolo e l'angiolo in Marineo scendono a patti fraternamente! Per un momento l'eterno dualismo s'arresta: gli elementi tacciono perché c'è uno stato di transizione passeggera, avverandosi il detto di Isaia: “Il lupo e l'agnello mangeranno insieme lo strame.” Accozzano i piatti e mangiano pane, cacio e vino che loro viene offerto. Uno si satolla l'epa, l'altro si rifocilla l'angelico corpo; l'uno si forbisce l'atre bocca col dorso della mano; l'altro si terge le tumide labbra con una pezzuola angelica. Terminato questo ciclo storico ognuno riprende la sua parte e sua figura. Vedete come si usa in Marineo?
Ah Dante Alighieri, quale ragione c'era di avere con s‚ il buon Virgilio per sorpassare le porte dell'inferno? Perché il tuo duca dovette stendere le spanne e con le pugna piene di terra,
Là gittò dentro le bramose canne.
Dì Cerbero? Se fossi nata ora non ci sarebbe stato bisogno. Potevi tu venire in Marineo e con un po' di pane, cacio e vino a questo diavolo eri libero di girare tutte le bolge a tuo piacimento. E tu o Milton a ch'è valso il paradiso perduto? Ma chi poteva supporne questo fenomenale avvenimento? Andate a far pronostici.
Nella cervagia è quand'io n'ho nel mosto,
E' molto più nell'aspro che il margurro,
Ma sopra tutto nel buon vino ha fede
E credo che sia salvo chi ci crede.
Beve e beato Scarafuni, egli non cerca arzigogoli, non si dilunga in ringraziamenti, non crede ad altro. Vestito da povero, porta appeso un fiasco alla cintola e con esso egli discorre tutta la processione protestando con motti che egli crede al solo contenuto. Immaginate quali e quanti monellacci s'attiri a s‚ lo Scarafuni, che, invece di svolgere seriamente la parte sua beve, beve e beve finché arriva a casa col capo fra le nuvole. E non crediate ch'esso sia solo nella bisogna, perché c'è un suo compare Cuticchio il quale ha grandissimo odio per l'acqua.
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Dopo i poveri si vede un'altra figura di donna vestita del color di porpora con un cuore fiammeggiante in mano. E' la carità, feconda con la scritta in petto: “Amore langue”.
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Enumerate le virtù del santo, eccoci San Ciro già uomo completo, laureato medico che prodiga le cure agli ammalati poveri e fa i prodigi. Egli come tutti i taumaturghi veste con zimmarra, cappello a cilindro e canna d'America col pomo d'argento. (Badate: in quell'epoca del martirio, cioè al terzo secolo dell'era nostra, in Alessandria d'Egitto questa moda dei cappelli a cilindro c'era; forse fu modellata su qualche geroglifico. Ed è per questo che si suol dire: cose d'Egitto).
La fama del santo è arrivata al suo apogeo. Come medico fa miracoli; come cristiano è l'esempio d'una vita intemerata piena d'amore e d'abnegazione pel prossimo. Ma, “ora incomincian le dolenti note”. L'infermo geloso dei suoi progressi si scaglia contro lui per dannarlo; ma il paradiso il protegge. Sorge quindi il contrasto e ad ogni furia infernale è contrapposto un messaggero divino.
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S'avanza un uomo pallido in faccia con la barba setolosa ed unta, capelli sconvolti, gli occhi iniettati come iena e con le labbra contorte che le muove ad uno scherno che veste a vari colori con indumenti quasi femminili tutto scomposti. E' la Disperazione dal cruce animo. Guarda San Ciro e si morde in pensando alla strada ch'egli è avviato; gli va incontro e con le pugna serrate urla:
M'arrabbio e monto in furia
Veggendo in tanto bene
Ciro progredir, m'arrabbio,
Mi struggo in odio e pene.
Sguaina un pugnale e assalisce il santo per ferirlo: ma... San Ciro non si muove niente affatto sicuro del fatto suo; (e come no?) e la disperazione col braccio in alto impedito misteriosamente, non potendo altro, vomita parole d'esecrazione e di maledizione per s‚, pel mondo, pei suoi genitori, per Dio, per tutti, con gesti da ossessa e con salti da puledro selvaggio. Oh illustre Pitrè, ci venga qui e vedrà se quello che con somma arte hanno rappresentato gli illustri Ximenesé Civiletti e Cocchiara al Politeama Garibaldi, quì non si succede nel modo più logico e naturale. Qui (giù la molestia) è la vis comica senza squadro. Ma torniamo a noi.
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Un coro di dodici fanciullette, vestite bianco con le frondi verdi in capo, cantano la canzoncina aurea, per quietare l'animo feroce della Disperazione:
Quanto costa il tuo delitto
Sconsigliata umanità;
All'idea di quelle pene
Che il tuo dio per te sostiene,
Tutto geme il mondo afflitto
Solo tu non hai pietà.
E replicano il ritornello:
Solo tu non hai pietà.
A cui la furia crucciata grida:
Basta, basta ch'io lo so
Lo comprendo quanto costi il mio delitto!
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Quando la musa del Pernice non è ispirata, egli poverino va in prestito; piglia a dozzina delle poesie e le appiccica qui. Questa sarà credo dell'Orioles e dev'essere pel martorio di Cristo: ma in Marineo s'accetta per San Ciro. Nella Dimostranza, pure non manca la nota di quell'effetto dolce e soave. Il sentire l'argentina voce di tante fanciullette, tutte vestite bianco, vi sembra qualche cosa di celeste che rammenta le canzoncine piene di grazia e di fantasie sublimi degli anni vostri più belli.
E la musica che l'accompagna? Esto il Busillos. Non è la musica classica straniera ch'è entrata dappertutto e che anco alla marina certe sere suonano, lì sentite un grido di piatti, rumori di gran cassa e timpani, rulli di tamburo, ghirigori di tromboni, squilli di tromba a iosa e roboati cupi e tutto finisce. Vi dicono ch'è musica difficile ed esecuzione magistrale. Ma che v'importa a voi quando nell'animo non v'ha svegliato il fulgore d'una rimembranza? Né un sussurro arcano? Né una voce fatidica? Né un affetto che tenete riposto nel cuore, per assopirvi placidamente? Oh cosa avete capito di quella musica? Nulla! E' stata: terremoto musicarum,- ed il rumore non è figlio delle ninfe.
Qui invece la musica è quieta come olio. Chi accompagna il coro è Menico il violinista che ritrae suoni come voci di topi e Mariano che suona il violoncello, appeso sulla pancia come una madia, con corde di spago che fa grugniti tirando l'arco giù e su. E tra loro i suonatori non cessano mai di gridarsi a vicenda le note da pigliare: “Gesefauttu! L'amirè minore! Elemi con settima, passaggio e cadenza! Do o o o!” E quel dolce che ispirano le ragazzine si digerisce subito e ci si cambia in un risolino di sdegno che si vorrebbe esprimere con una tirata di nerbate sul muso ai suonatori.
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Viene la Sapienza col motto: “Sapientia timor Domini.” Esso ora è concetto nel santo e lo tiene veglio per non cadere nelle frolezze umane. Indossa una veste color di porpora e sul capo porta una corona che tramanda raggi di luce: la luce che dirada le tenebre dell'oscurantismo.
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Ma dietro gli tiene la Discordia che molesta, vestita a toppe come un arlecchino, brutta, fangosa e cinta dalle idre infernali, vorrebbe sconvolgere l'anima alla Sapienza; ma un angelo con le grandi ali ed una spada in mano la protegge. E non basta, perché un altro personaggio che si chiama la Persecuzione con elmo, corazza e scudo, con arco e turcasso pieno di frecce, tiene lontana la furia. E quando questa importuna, la Persecuzione le scocca uno strale, e l'anima dannata fugge atterrita per un venti passi; poi si volta, ritorna a poco a poco, insinuandosi tra la folla tutta guardinga e s'apposta dietro al suo soggetto per ricominciare daccapo a far le fiche.
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La fama del santo, arriva al governo romano, che geloso delle idee va in cerca per arrotarlo. Si vede quindi un decurione, col motto: “Filii diaboli” (vedete quanti ne ha Marineo?) armato fino ai denti, col bastone di comando come un antico maresciallo di Francia, e seguito da venti barbute, che fiuta ovunque come tutti i suoi simili, per iscovare il reprobo. Poi esorta quei soldati, che forse stanchi ed affamati vorrebbero pronunciare, li dispone in circolo e parla così:
Soldati miei cari,
Il vostro zelo non vacilli per ora,
Chi si trattiene sul mezzo corso
Della sua vittoria,
Degno è sol di biasimo
E non di gloria.
E terminata questa cancione, quei cervelli son persuasi. Egli seguito dai suoi fidi si rimette in cammino strascinando la lunga sciabola come un bravazzone e salutando ora un amico, ora un parente.
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Ed ecco San Ciro che abbandona il mondo. Egli dispensa tutto il suo avere ad altri poveri egiziani e dà danaro, robba, carte di valore, libri, e quei ficcano avidamente tutto il costituendo del dottore il quale si ritira sui monti a far l'anacoreta.
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Quindi si vede dopo, vestito pellegrino con a lato la Castità, una delle sue doti, in bianco con la palma in mano.
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Indi un altro San Ciro nell'eremo, proprio in una grotta in legno portatile creata dal Pernice, ove il santo sta innanzi alla bocca col Cristo in mano vestito di sacco, coronato di spine. E' l'emblema della Penitenza.
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Ma due donne, l'una distinta dall'altra vengono a tentare San Ciro. La prima è una diavola femmina furente, con la faccia vizza e scarna (sarà la madre dei Filii diaboli?) con un tamburello in mano che balla attorno al penitente come una sguaiataccia, per attirarlo a s‚ coi sorrisi, con le flessuosità del corpo e coi movimenti ritmici. Ma San Ciro è un povero vecchierello che non lo potrebbe smuovere nemmeno il Can-can.
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Allora l'Inferno vedendo che questo mezzo è disadatto, perché la diavola non ha tatto diplomatico, manda la za Carolina, ossia la Vanità, una donna qui del paese che s'atteggia a bella, con la faccia lustra come una petronciana, esatta e simmetrica al pari d'una geometria. L'assalto, per espugnare la fortezza, è strategico.
Ella veste scollata e piena di fronzoli, tutta sorrisi dolci; con uno specchio in mano che si ammira nella propria grazia e gira d'attorno ad un altro San Ciro vecchierello, facendo cento moine per farlo cadere nel paretaio. Scioccherie! San Ciro guarda attonito e non capisce un'acca di tutta questa gazzarra; egli non fa che un solo movimento; ogni tanto si gratta la pera come a significare: “Ho altre mene pel capo; mondo più non fa per me.”
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E l'Inferno? l'Inferno non s'arrende; anzi diviene furibondo e rincara la dose. Se i mezzi mondaine, come direbbe un poliglotta moderno, non riescono, allora ricorre alla prepotenza. Manda un Cerbero, un brutto diavolo con una mascheraccia e le corna in fronte, vestito di rosso maculato e coi piedi avvolti in due pezzi di pelle pecorina. Esso è rattenuto da una catena avvolta al corpo che dà l'uno dei capi ad un angelo, il quale sta con la spada snodata in atto di ferire. Questo cerbero è pagato a sei tarì al giorno perché il suo lavoro è faticoso. (Il Diavolo guadagna sei tarì al giorno; signori socialisti, aprite gli orecchi). Egli vorrebbe sorpassare ad ogni costo la barriera, che consiste nell'Angelo, per abbrancare il San Ciro e portarselo con sé! Ma non può e si morde ferocemente dando in ismanie. Ora si dispone ad assalire l'angiolo direttamente; ma spaventato fugge a precipizio: poi ritorna piano piano, raccoglie la catena che l'avvinghia, la tiene a sé; avanza il passo curvato e, circospetto come una belva, spia con gli occhi la distanza che lo divide; già s'avvicina tutto giulivo alla meta; cammina ancora... dà un altro passo... è arrivato... sorpassa.... Ma l'angiolo subitamente si volta e lo punta con la spada: e quegli fugge tremante dandosi delle mani nel capo, sollevando un gran polverio e dando urtoni a chi intoppa degni del diavolo.
Però la faccenda non dura sempre così. Nelle cinque o sei ore di percorso, ogni tanto il diavolo scappa ed entra in una casa (già si sa, ficca le corna dove vuole) mettendo lo spavento a tutti. Abbraccia le donne che modestamente lo sgridano; fa garrire i marmocchi; dà ceffoni agli amici, pedate ai cani che lo ringhiano paurosi e poi calmatisi un po', si siede o invita l'angiolo ad entrare, ch'è accolto da angiolo. E quì, signore mie, succede quello che in nessun angolo del mondo mai s'è visto: il diavolo e l'angiolo in Marineo scendono a patti fraternamente! Per un momento l'eterno dualismo s'arresta: gli elementi tacciono perché c'è uno stato di transizione passeggera, avverandosi il detto di Isaia: “Il lupo e l'agnello mangeranno insieme lo strame.” Accozzano i piatti e mangiano pane, cacio e vino che loro viene offerto. Uno si satolla l'epa, l'altro si rifocilla l'angelico corpo; l'uno si forbisce l'atre bocca col dorso della mano; l'altro si terge le tumide labbra con una pezzuola angelica. Terminato questo ciclo storico ognuno riprende la sua parte e sua figura. Vedete come si usa in Marineo?
Ah Dante Alighieri, quale ragione c'era di avere con s‚ il buon Virgilio per sorpassare le porte dell'inferno? Perché il tuo duca dovette stendere le spanne e con le pugna piene di terra,
Là gittò dentro le bramose canne.
Dì Cerbero? Se fossi nata ora non ci sarebbe stato bisogno. Potevi tu venire in Marineo e con un po' di pane, cacio e vino a questo diavolo eri libero di girare tutte le bolge a tuo piacimento. E tu o Milton a ch'è valso il paradiso perduto? Ma chi poteva supporne questo fenomenale avvenimento? Andate a far pronostici.
***
(LUNEDÌ-MARTEDÌ 24-25 SETTEMBRE 1984)
IV.
IV.
Ma San Ciro è trionfato da quelle furie, predica la Fede. Intorno al santo ne ascoltano la parola quattro donne arabe coi crini disciolti e coi sacchi d'oro. Sono tre vergini: Teotista, Teodora, Eudossia e la loro madre, la vedova Atanasia, che sono accorse a sentirlo. Elle lo ascoltano in ginocchio ed abiurano il paganesimo, divenendo le seguaci anime di San Ciro, quasi novelle Maddalene, che gli tergono amorosamente il sudore.
*
Il decurione romano però viene seguito dai soldati, le investe e le arresta tutte; mentre il santo coraggiosamente fa l'apologia della Fede e le esorta a morire pel Cristo. Le donne vengono poste in una casetta ambulante che ha una finestra ferrata: è la carcere.
*
Ecco che vedesi sbloccare la balda cavalleria con alla testa l'imperatore Diocleziano, che va in giro per la provincia, coronato e con gran manto d'ermellino. Egli tiene lo scettro e l'aquila romana: segno di dominio. Son venti guerrieri; quattro grandi di corte; due littori coi fasci delle verghe; un decurione e due paggi. E' un quadro bizzarro: paiono i cavalieri della disfida di Barletta; e sotto quegli elmi spuntano visi abbronzati e giovanili che li rendono fieri e marziali. Le couriole dei cavalli che sgambettano; lo scintillio delle armi; i lampi che proiettano gli elmi e gli ori: quell'insieme di colori, di pennacchi e di nastrini e quelle pose gagliarde e spedite fanno venire in mente i celebri versi del Manzoni:
E il lampo dei manipoli
E l'onda dei cavalli
E il concitato imperio
E il celere ubbidir.
L'imperatore si ferma e additando San Ciro lo chiama: “Ciro, vòltati.” Il Ciro si volta e viene introdotto dai soldati in mezzo ai cavalli, al cospetto di Cesare. Il quale volgendosi ai suoi ordina:
Soldati fermate il piè (addita Ciro)
Le vesti togliete a questo infame
Nudo alle catene or or si leghi.
I cavalieri snudano le sciabole e i soldati spogliano il santo, che comparisce in maglia. E Cesare continua:
Sotto i flagelli
Semivivo resti.
E ben conviene
In queste acerbe pene
L'ire nostre appagar; finché lo spirto
Non manchi al vostro core,
Sfogate contro lui tutto il furore.
A grado a grado ch'ei pronunzia queste roventi parole, ci sono dei ribaldi soldati (è stato sempre mondo) che guardano torvo il povero San Ciro, scuotendo il capo come a dirgli: la pagherai stavolta! Ma il martire sta imperterrito attendendo la sua morte, quindi non impreca n‚ si difende. E l'imperatore continua impetuosamente:
Tu le spine raddoppia, e tu la destra
Arma d'aspre catene.
Corra dalle sue vene
Tutto a torrente il sangue.
Ma neanco queste minacce commuovono San Ciro e quegli s'infuria e grida!
Vada in aria la carne, e nervi ed ossa,
Lacerate, struggete!
Uh! Proprio un cataclisma come il Filicaia nell'assedio di Vienna.
San Ciro ha udito quel furore e sta a capo chino tutto pietoso; poi fattosi un po’ d'animo, si rivolge al suo carnefice e gli risponde in questi versi commoventissimi, ispirati dalla musa di Pernice:
Tu vuoi darmi la morte
Con terribile minaccia;
Ma sempre mi ride in faccia
Il giusto mio Signor!
E fortuna che il Signore gli ride in faccia, perché viene consegnato di nuovo ai soldati, che lo conducono innanzi al tribunale per giudicarlo. A me mi pare che prima viene impiccato e poi condannato; ma osservo però che anco in quei tempi c'era il tribunale, e non si faceva giustizia sommaria, affatto! Questo San Ciro, in mezzo alla cavalleria è il più in pericolo, poiché si trova continuamente esposto fra le bestie. Una volta, ricordo che l'imperatore recitava, mentre proferiva con voce concitata il verso concitatissimo: “Lacerate, struggete”, egli, per dare maggior forza, fece con le braccia il movimento come a dimostrare l'effetto. Ma nella destra impugnava lo scettro, e in quel furore la punta d'esso sbattè sul muso d'un indomito cavallo che stava pacificamente a lato gustando un po' di prosodia. L'animale, a quella carezza insalutata, dette un gran salto indietro ed investì un suo compagno; questi alla sua volta tira due calci che li riceve un altro e il male si contagiò a tutti. Per un momento vi fu un putiferio. Cavalieri caracollanti in alto e in basso che spronano e frenano; spettatori che fuggono; soldati che guizzano dalle gambe; voci, nitriti: un diavolìo generale.
Ma il più spaventato fu il povero San Ciro, che per fortuna si ebbe i soli piedi pestati: chetatosi un po' l'arruffìo, il San Ciro con le tasche piene, si rivolge all'imperatore, extra Dimostranza, e gli grida: “Ohè! Compare Caifas! Come diavolo voi vi chiamate, che ci debbo lasciar la pelle qui io forse? Sangue...” (a San Ciro). E l'imperatore tutto rosso: “Orbo degli occhi, ma chi ci ha colpa? E' stato lo scettro che ha urtato sul muso d'un cavallo, è stato...”
“Che scecco e scecco,” urlava quegli gesticolando, “peste che vi pigli, lo buttate via lo scecco e ne fate senza! Oh! Sangue di... (Ah!!!)”.
Ma venne il direttore però, e con voci, con autorità e con testi anco latini, rimise la quiete in quelle bestie e si continuò a percorrere. San Ciro era gonfio fino ai capelli e non s'era rabbonito affatto; egli andava avanti per ubbidire, ma ruminava contro tutte le cavallerie romane del mondo. Fatti pochi passi, l'imperatore, vedendo un grande uditorio, credè giusto di sciorinare anco qui un po’ d'eloquenza, e si dispose a recitare. Fu un atto impolitico veramente, e mi meraviglio in persona di Diocleziano; ma tutti si può sbagliare. Fermatosi, dunque, si rivolse a Ciro e con voce terribile lo chiamò: “Ciro, vòltati!”
Quegli intese; voltò la testa, lo guardò bieco e poi tirò avanti senza darsi per inteso parlando tra'denti: “O malanaggia a tutti! Sta' a vedere che oggi mi ho a fare la festa buona, mi ho, con questo anticristo qui!”
L'imperatore ripetè tuonando: “Ciro, vòltati!”
Allora San Ciro scattò invelenito; “Non mi volto, gnornò, manco se viene Dio!” e infilata una straduccia se ne corse a casa gridando: “Gnornò, gnornò, gnornò” e gesticolando improperì fra le risa e lo stupore degli astanti. E che volete, anco i santi si hanno il termometro nella pazienza!
*
Ma silenzio, viene il tribunale che giudicherà San Ciro. E' composto dal prefetto Siriano che veste la lunga toga col tocco in testa e da due giudici anch'essi togati: più sei carnefici con le facce abbruttite di nero, che lo vestono con casacche e lunghi berrettoni come i bravi del secolo XVI ed armati di brandi e di mazze che tengono in mezzo il San Ciro.
Siriano, col processo in mano, si legge l'atto di accusa, e dopo un cinque o sei inarcate di sopracciglia è un paio di crollatine del capo, sottopone il colpevole ad un breve interrogatorio, e ora con minacce ora con dolci parole, vorrebbe distoglierlo argutamente dalla sua via per renderlo reo confesso. Visto però che le buone parole sono inutili, il giudica gli grida acerbamente: Ebbene, al rege io drizzo
Frettoloso le piante;
Ma non sperar, malvagio,
Miglior sorte ai tuoi falli: ognor m'avrai
Implacabil nemico.
Sarò sempre l'istesso
Finché ti vegga morto, estinto e oppresso!
Ah crudeltà d'un giudice! lo vuole morto ed estinto, lo vuole! Ma il Dio non paga il sabato; e lo vedrete.
Siriano corre dall'imperatore e poco dopo torna sbuffando con la sentenza scritta, che la legge al martire; il quale ad ogni postulato e ad ogni articolo di legge appone il Cristo che tiene in mano. Egli viene condannato, in nome di Diocleziano, ad essere lapidato e poi cotto in una caldaia piena d'olio e di materie resinose. Cose d'inferno!
Forse quel tribunale lì, in mezzo alla strada, ispirò all'on. Zanardelli il concetto dei pretori ambulanti? Chi può dirlo? Certo è che per un mero caso sogliono farsi le grandi scoperte. Galileo Galilei dall'oscillazione della lampada, non inventò quel che inventò?
Posso assicurarvi però che il prefetto Siriano, investito della sua carica, è un funzionario che in diritto ai tre aggettivi di zelante, onesto ed integerrimo; ed a provarvelo io vi racconterò un fattarello che nella sua semplicità fa rifulgere luminosamente il contegno della magistratura odierna della Dimostranza.
Un furbo misilmerese, essendo amico personale del prefetto Siriano, si ricordò che una qualche buona parola dell'amico poteva se non altro lenire in parte in parte la dura condanna di San Ciro. Avvicinatolo mentre questo istruisce, l'abbraccia e bacia e poi in tono di preghiera serio gli dice: “Compare Peppi, siate uomo di pancia, vi prego io pel San Giovanni, gettate a libertà l'amico”. Ma il Siriano pronto risponde: “Eh compare Palino, non posso, l'omertà finìo, perché deve scontare il dito che rubò a San Giusto”. La condanna si mette inesorabilmente in esecuzione e comincia il martirio.
Si vede un San Ciro nudo, circondato da quattro tiranni che gli ballano attorno, dando colpi di mazza l'uno dopo l'altro come se ribadissero i cerchi d'una botte. E non è difficile che ogni tanto qualcuno sbagli o finga di sbagliare, dando qualche legnata sulle spalle per davvero. Succedono gli incidenti, i battibecchi, la serqua degli improperi tra santo e tiranno; però tutto finisce lì, per amor di far la figura.
Il prefetto Siriano, visto e considerato che le legnate non sono di utile effetto, ordina che si ponga nella caldaia. Quindi si vede un altro San Ciro messo per l'appunto. Questa caldaia è di cartone senza fondo, caldaia comodissima, di modo che il santo essendovi dentro possa camminare.
E' portata da due vice carnefici che tengono nell'altra mano un fascetto di stoppia con in punta un brandello di carta rossa, per significare che la stoppia è accesa e che questa alimenti il fuoco della caldaia (l'intenzione del direttore è questa). Ed anco qui San Ciro, tutto che cuoce, viene segnato come bersaglio da quattro tiranni che lo lapidano coi brandi. Questi carnefici hanno una paga, e vengono quasi sempre arruolati dalla schiera dei facchini da piazza che in quell'ufficio intanto triste ci sguazzano!
Vidi una volta uno di questi carnefici ch'era insatanato. Gli altri erano più umani; ma questo esercitava forse con intelletto d'amore, perché non finiva mai di diluviare colpi di brando sul povero santo. Ogni tanto gli stava attorno fiutando a gozzo aperto come una belva; poi lo palpava tutto come a misurare lo spessore e la resistenza di quelle membra, e con gli occhi torvi, con le labbra aguzze, col cipiglio turpe chiedeva a modo suo al povero vecchierello: “Ti penti, pezzo d'infame?” a cui il santo Ciro rispondeva con una vocetta fessa: “No non mi pentirò”. Allora ricominciavano le ridda come gli antropofaghi. Ma la loro rabbia diveniva furore, a misura che davano colpi; perché San Ciro, essendo medico (e qui consisteva il miracolo) appena riceveva le ferite ci passava la mano su con l'unguento suo e guariva.
Quel tal manigoldo, allora, l'osservavo bene, si centuplicava. Dava colpi di punta, di taglio e manrovesci con grande velocità (e senza regole cavalleresche) per saziare il suo istinto ferino. Ora faceva finta di segare il collo, scuotendo villanamente la zucca al povero vecchierello, come per pigliare spinta, andava indietro un dieci passi, si fermava trucemente e col brando a due mani ritornava alla carica con un salto per dare il colpo di grazia e poi ricominciare da capo più feroce di prima.
Fu in uno di questi ritrovati che, saltando a piè pari, il tristaccio scivolò con tutt'e due i piedi, caracollò e cadde lì, sul selciato, sbattendo la nuca come un asino. Le risa furono generali! Risero i suoi compagni; rise pure San Ciro! Ma il peggio fu che, nel cadere a terra, la lama del brando si sconficcò violentemente dal manico e andò a ferire la gamba ad una ragazzina! Il carnefice, alzatosi da terra, fu preso da due carabinieri e dovette andare dal delegato di pubblica sicurezza così insafordato nella faccia com'era, la trippa in testa e il manico del brando in mano, per sentirsi la lezione del come doveva regolarsi nel fare il carnefice. Anch'io ci ebbi gusto, perché quel povero San Ciro rimase con un formidabile aguzzino di meno. Poi fra me pensavo: “Ma vedete come l'uomo ha l'istinto di martirizzare il suo simile: quel bestione poteva essere più umano nell'esercizio della sua professione, o almeno fingere di esserlo, perché così si usa in paese. Meno male però, gliela dovette spiegare il delegato la lezione.”
*
Il decurione romano però viene seguito dai soldati, le investe e le arresta tutte; mentre il santo coraggiosamente fa l'apologia della Fede e le esorta a morire pel Cristo. Le donne vengono poste in una casetta ambulante che ha una finestra ferrata: è la carcere.
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Ecco che vedesi sbloccare la balda cavalleria con alla testa l'imperatore Diocleziano, che va in giro per la provincia, coronato e con gran manto d'ermellino. Egli tiene lo scettro e l'aquila romana: segno di dominio. Son venti guerrieri; quattro grandi di corte; due littori coi fasci delle verghe; un decurione e due paggi. E' un quadro bizzarro: paiono i cavalieri della disfida di Barletta; e sotto quegli elmi spuntano visi abbronzati e giovanili che li rendono fieri e marziali. Le couriole dei cavalli che sgambettano; lo scintillio delle armi; i lampi che proiettano gli elmi e gli ori: quell'insieme di colori, di pennacchi e di nastrini e quelle pose gagliarde e spedite fanno venire in mente i celebri versi del Manzoni:
E il lampo dei manipoli
E l'onda dei cavalli
E il concitato imperio
E il celere ubbidir.
L'imperatore si ferma e additando San Ciro lo chiama: “Ciro, vòltati.” Il Ciro si volta e viene introdotto dai soldati in mezzo ai cavalli, al cospetto di Cesare. Il quale volgendosi ai suoi ordina:
Soldati fermate il piè (addita Ciro)
Le vesti togliete a questo infame
Nudo alle catene or or si leghi.
I cavalieri snudano le sciabole e i soldati spogliano il santo, che comparisce in maglia. E Cesare continua:
Sotto i flagelli
Semivivo resti.
E ben conviene
In queste acerbe pene
L'ire nostre appagar; finché lo spirto
Non manchi al vostro core,
Sfogate contro lui tutto il furore.
A grado a grado ch'ei pronunzia queste roventi parole, ci sono dei ribaldi soldati (è stato sempre mondo) che guardano torvo il povero San Ciro, scuotendo il capo come a dirgli: la pagherai stavolta! Ma il martire sta imperterrito attendendo la sua morte, quindi non impreca n‚ si difende. E l'imperatore continua impetuosamente:
Tu le spine raddoppia, e tu la destra
Arma d'aspre catene.
Corra dalle sue vene
Tutto a torrente il sangue.
Ma neanco queste minacce commuovono San Ciro e quegli s'infuria e grida!
Vada in aria la carne, e nervi ed ossa,
Lacerate, struggete!
Uh! Proprio un cataclisma come il Filicaia nell'assedio di Vienna.
San Ciro ha udito quel furore e sta a capo chino tutto pietoso; poi fattosi un po’ d'animo, si rivolge al suo carnefice e gli risponde in questi versi commoventissimi, ispirati dalla musa di Pernice:
Tu vuoi darmi la morte
Con terribile minaccia;
Ma sempre mi ride in faccia
Il giusto mio Signor!
E fortuna che il Signore gli ride in faccia, perché viene consegnato di nuovo ai soldati, che lo conducono innanzi al tribunale per giudicarlo. A me mi pare che prima viene impiccato e poi condannato; ma osservo però che anco in quei tempi c'era il tribunale, e non si faceva giustizia sommaria, affatto! Questo San Ciro, in mezzo alla cavalleria è il più in pericolo, poiché si trova continuamente esposto fra le bestie. Una volta, ricordo che l'imperatore recitava, mentre proferiva con voce concitata il verso concitatissimo: “Lacerate, struggete”, egli, per dare maggior forza, fece con le braccia il movimento come a dimostrare l'effetto. Ma nella destra impugnava lo scettro, e in quel furore la punta d'esso sbattè sul muso d'un indomito cavallo che stava pacificamente a lato gustando un po' di prosodia. L'animale, a quella carezza insalutata, dette un gran salto indietro ed investì un suo compagno; questi alla sua volta tira due calci che li riceve un altro e il male si contagiò a tutti. Per un momento vi fu un putiferio. Cavalieri caracollanti in alto e in basso che spronano e frenano; spettatori che fuggono; soldati che guizzano dalle gambe; voci, nitriti: un diavolìo generale.
Ma il più spaventato fu il povero San Ciro, che per fortuna si ebbe i soli piedi pestati: chetatosi un po' l'arruffìo, il San Ciro con le tasche piene, si rivolge all'imperatore, extra Dimostranza, e gli grida: “Ohè! Compare Caifas! Come diavolo voi vi chiamate, che ci debbo lasciar la pelle qui io forse? Sangue...” (a San Ciro). E l'imperatore tutto rosso: “Orbo degli occhi, ma chi ci ha colpa? E' stato lo scettro che ha urtato sul muso d'un cavallo, è stato...”
“Che scecco e scecco,” urlava quegli gesticolando, “peste che vi pigli, lo buttate via lo scecco e ne fate senza! Oh! Sangue di... (Ah!!!)”.
Ma venne il direttore però, e con voci, con autorità e con testi anco latini, rimise la quiete in quelle bestie e si continuò a percorrere. San Ciro era gonfio fino ai capelli e non s'era rabbonito affatto; egli andava avanti per ubbidire, ma ruminava contro tutte le cavallerie romane del mondo. Fatti pochi passi, l'imperatore, vedendo un grande uditorio, credè giusto di sciorinare anco qui un po’ d'eloquenza, e si dispose a recitare. Fu un atto impolitico veramente, e mi meraviglio in persona di Diocleziano; ma tutti si può sbagliare. Fermatosi, dunque, si rivolse a Ciro e con voce terribile lo chiamò: “Ciro, vòltati!”
Quegli intese; voltò la testa, lo guardò bieco e poi tirò avanti senza darsi per inteso parlando tra'denti: “O malanaggia a tutti! Sta' a vedere che oggi mi ho a fare la festa buona, mi ho, con questo anticristo qui!”
L'imperatore ripetè tuonando: “Ciro, vòltati!”
Allora San Ciro scattò invelenito; “Non mi volto, gnornò, manco se viene Dio!” e infilata una straduccia se ne corse a casa gridando: “Gnornò, gnornò, gnornò” e gesticolando improperì fra le risa e lo stupore degli astanti. E che volete, anco i santi si hanno il termometro nella pazienza!
*
Ma silenzio, viene il tribunale che giudicherà San Ciro. E' composto dal prefetto Siriano che veste la lunga toga col tocco in testa e da due giudici anch'essi togati: più sei carnefici con le facce abbruttite di nero, che lo vestono con casacche e lunghi berrettoni come i bravi del secolo XVI ed armati di brandi e di mazze che tengono in mezzo il San Ciro.
Siriano, col processo in mano, si legge l'atto di accusa, e dopo un cinque o sei inarcate di sopracciglia è un paio di crollatine del capo, sottopone il colpevole ad un breve interrogatorio, e ora con minacce ora con dolci parole, vorrebbe distoglierlo argutamente dalla sua via per renderlo reo confesso. Visto però che le buone parole sono inutili, il giudica gli grida acerbamente: Ebbene, al rege io drizzo
Frettoloso le piante;
Ma non sperar, malvagio,
Miglior sorte ai tuoi falli: ognor m'avrai
Implacabil nemico.
Sarò sempre l'istesso
Finché ti vegga morto, estinto e oppresso!
Ah crudeltà d'un giudice! lo vuole morto ed estinto, lo vuole! Ma il Dio non paga il sabato; e lo vedrete.
Siriano corre dall'imperatore e poco dopo torna sbuffando con la sentenza scritta, che la legge al martire; il quale ad ogni postulato e ad ogni articolo di legge appone il Cristo che tiene in mano. Egli viene condannato, in nome di Diocleziano, ad essere lapidato e poi cotto in una caldaia piena d'olio e di materie resinose. Cose d'inferno!
Forse quel tribunale lì, in mezzo alla strada, ispirò all'on. Zanardelli il concetto dei pretori ambulanti? Chi può dirlo? Certo è che per un mero caso sogliono farsi le grandi scoperte. Galileo Galilei dall'oscillazione della lampada, non inventò quel che inventò?
Posso assicurarvi però che il prefetto Siriano, investito della sua carica, è un funzionario che in diritto ai tre aggettivi di zelante, onesto ed integerrimo; ed a provarvelo io vi racconterò un fattarello che nella sua semplicità fa rifulgere luminosamente il contegno della magistratura odierna della Dimostranza.
Un furbo misilmerese, essendo amico personale del prefetto Siriano, si ricordò che una qualche buona parola dell'amico poteva se non altro lenire in parte in parte la dura condanna di San Ciro. Avvicinatolo mentre questo istruisce, l'abbraccia e bacia e poi in tono di preghiera serio gli dice: “Compare Peppi, siate uomo di pancia, vi prego io pel San Giovanni, gettate a libertà l'amico”. Ma il Siriano pronto risponde: “Eh compare Palino, non posso, l'omertà finìo, perché deve scontare il dito che rubò a San Giusto”. La condanna si mette inesorabilmente in esecuzione e comincia il martirio.
Si vede un San Ciro nudo, circondato da quattro tiranni che gli ballano attorno, dando colpi di mazza l'uno dopo l'altro come se ribadissero i cerchi d'una botte. E non è difficile che ogni tanto qualcuno sbagli o finga di sbagliare, dando qualche legnata sulle spalle per davvero. Succedono gli incidenti, i battibecchi, la serqua degli improperi tra santo e tiranno; però tutto finisce lì, per amor di far la figura.
Il prefetto Siriano, visto e considerato che le legnate non sono di utile effetto, ordina che si ponga nella caldaia. Quindi si vede un altro San Ciro messo per l'appunto. Questa caldaia è di cartone senza fondo, caldaia comodissima, di modo che il santo essendovi dentro possa camminare.
E' portata da due vice carnefici che tengono nell'altra mano un fascetto di stoppia con in punta un brandello di carta rossa, per significare che la stoppia è accesa e che questa alimenti il fuoco della caldaia (l'intenzione del direttore è questa). Ed anco qui San Ciro, tutto che cuoce, viene segnato come bersaglio da quattro tiranni che lo lapidano coi brandi. Questi carnefici hanno una paga, e vengono quasi sempre arruolati dalla schiera dei facchini da piazza che in quell'ufficio intanto triste ci sguazzano!
Vidi una volta uno di questi carnefici ch'era insatanato. Gli altri erano più umani; ma questo esercitava forse con intelletto d'amore, perché non finiva mai di diluviare colpi di brando sul povero santo. Ogni tanto gli stava attorno fiutando a gozzo aperto come una belva; poi lo palpava tutto come a misurare lo spessore e la resistenza di quelle membra, e con gli occhi torvi, con le labbra aguzze, col cipiglio turpe chiedeva a modo suo al povero vecchierello: “Ti penti, pezzo d'infame?” a cui il santo Ciro rispondeva con una vocetta fessa: “No non mi pentirò”. Allora ricominciavano le ridda come gli antropofaghi. Ma la loro rabbia diveniva furore, a misura che davano colpi; perché San Ciro, essendo medico (e qui consisteva il miracolo) appena riceveva le ferite ci passava la mano su con l'unguento suo e guariva.
Quel tal manigoldo, allora, l'osservavo bene, si centuplicava. Dava colpi di punta, di taglio e manrovesci con grande velocità (e senza regole cavalleresche) per saziare il suo istinto ferino. Ora faceva finta di segare il collo, scuotendo villanamente la zucca al povero vecchierello, come per pigliare spinta, andava indietro un dieci passi, si fermava trucemente e col brando a due mani ritornava alla carica con un salto per dare il colpo di grazia e poi ricominciare da capo più feroce di prima.
Fu in uno di questi ritrovati che, saltando a piè pari, il tristaccio scivolò con tutt'e due i piedi, caracollò e cadde lì, sul selciato, sbattendo la nuca come un asino. Le risa furono generali! Risero i suoi compagni; rise pure San Ciro! Ma il peggio fu che, nel cadere a terra, la lama del brando si sconficcò violentemente dal manico e andò a ferire la gamba ad una ragazzina! Il carnefice, alzatosi da terra, fu preso da due carabinieri e dovette andare dal delegato di pubblica sicurezza così insafordato nella faccia com'era, la trippa in testa e il manico del brando in mano, per sentirsi la lezione del come doveva regolarsi nel fare il carnefice. Anch'io ci ebbi gusto, perché quel povero San Ciro rimase con un formidabile aguzzino di meno. Poi fra me pensavo: “Ma vedete come l'uomo ha l'istinto di martirizzare il suo simile: quel bestione poteva essere più umano nell'esercizio della sua professione, o almeno fingere di esserlo, perché così si usa in paese. Meno male però, gliela dovette spiegare il delegato la lezione.”
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(MARTEDÌ-MERCOLEDÌ 25-25 SETTEMBRE 1894)
V.
(MARTEDÌ-MERCOLEDÌ 25-25 SETTEMBRE 1894)
V.
Ma dopo tanti martirii San Ciro è incolume, e perciò il crudele Siriano lo ricondanna alla decapitazione. Eccone il funereo corteo del boia. Avanti è un soldato romano col tamburo che rulla a morte; seguono dieci soldati con lancia e scudo; poi due littori ed un porta aquila; indi San Ciro colle mani legate sulla schiena e in ultimo il boia con la mannaia, che ogni tanto fa finta di mozzare il capo. Il boia di Marineo suole essere sempre un uomo come un ciclope. Ha gran testa, gran naso, grandi braccia, grandi gambe, piedi lunghi come due barche, e per totale il nomaccio tartaro di Brigognone.
Il San Ciro qui invece è un ometto basso e mingherino (e come no, dopo tanti strapazzi?) con la testa quanto un limone: gli occhi come i buchi delle scarpe, le gambe e le braccia esili esili. Questo San Ciro non è semplicemente martire pel cielo; lo è anco per la terra. I ragazzi lo intendono con un nomignolo diminuitivo: lo chiamano “S.Cirriceddu” e ovunque lo vedono da ogni strada, da ogni cantonata, lo martirizzano con tal nome. E S.Cirriceddu s'arrabbia e pesta coi piedi, lanciando improperi e sassi a josa. Quel giorno un villanaccio con un pezzo di pane sbocconellata in mano mentre San Ciro accudiva alla sua parte tanto delicata, gli va incontro e comincia a chiamarlo come un cagnolino sbattendo la spanna nell'anca: “Qua qua, S.Cirriceddu!” Fu il grido della rivolta dappertutto. S.Cirriceddu. E il zu Pitruzzu (che al mondo chiamavasi così) a fare versacci anco lui. Il boia, vedendo che il suo uomo non istava paziente, gli diede un punzone nelle reni col manico della scure mugghendogli: “Finitela!”
Il povero San Ciro, impaurito dal Morgante marinese, tacque come un santo; ma, come zu Pitruzzo, si rivolse ai monellacci e li minacciò in lingua italiana: “Redite, redite figli... (ah! porcherie!)”.
Il boia lo voleva decapitare davvero; e ci volle l'intercessione del miracoloso direttore se quella strada non divenne una nuova piazza Roquette!
*
Ma già si odono un po' lontane:
Parole di dolore, accenti d'ira,
Voci alte e fioche e suon di man con elle.
E' Siriano confuso in mezzo ai suoi giudici, in tanta desolazione che il mare si rompe. Il prefetto Siriano, morto San Ciro, ne sente il rimorso che lo dilania e cade in una specie di parossismo (sarà anche manomania) ma insomma fa spavento. Si strappa i capelli; emette profondi sospiri, sbattendo ambedue le mani con tanto accoramento che, a chi lo vede, gli spuntano le lacrime agli occhi, tant'è la pietà. Invano i suoi giudici lo confortano e l'assicurano di non essere lui il responsabile, bensì l'imperatore: ma egli maledice e rimprovera tutti chiamando esecutori loro soli di sì esecrando misfatto. Ci si perde la testa, perché a sentirli pare che tutti siano innocenti. Ma un caso impreveduto, però, fece per un momento dimenticare questo quadro di dolore.
Quel giorno di festa, forse attirato dal clamore, un animale sucido (son filosofi costoro) scese in piazza, s'intromise tra la folla per godere anch'esso un po’ di quel bene. Ma gli uomini che per natura sono gelosi dei loro piaceri cominciarono a cacciare questo innocente spettatore. Uno gli dà un calcio sullo grugno gridando: “Dalli! dalli!” e quegli voltato in giù a corsa cerca una scappatoia fra le gambe: ma lì altre persone si voltano e lo ricevono coi piedi. Esso ritorna indietro e corre in sopra e trova le medesime accoglienze che l'attendono; volta di nuovo e scende; altrettante pedate o peggio; or scappa a sinistra, legnate; alla destra lo stesso. Non può fuggire perché ovunque ha chiuso un varco e lo scopo di cacciarlo invece non è raggiunto: tant'è vero che molte mani Iddio le maledisse. Ma, in quel pigìo, l'animale fa l'ultimo sforzo per uscire, e chiamati a raccolta tutti i suoi spiritacci, come un superstite delle Termopoli, dovette dire - credo - tra sé: o vincere o morire! Prende di mira tre personaggi e gli corre loro incontro per farsi dare luogo.
Quelli erano: il prefetto Siriano coi due giudici. Il prefetto, immerso com'era nel suo gran dolore, non si accorse del perseguitato che veniva a lui chiedendo asilo, e sta fermo; ma i giudici lo vegliano. L'animale si dirige al giudice di destra e alla destra l'accoglie un gran calcio; va alla sinistra, a sinistra un gran calcio risponde. Allora, fatti i considerando, si ficca tra le gambe di Siriano per uscire dall'altra parte: ma la toga impedisce e s'impasta col magistrato. Il prefetto sente l'ospite nelle cosce; apre la bocca... ma si dovette convincere che quegli aveva gran premura, perché furiosamente gli struracciolò di dietro, asportando un lembo di toga e facendolo stramazzare a faccia a terra. Cadono i grandi come i piccoli, non c'è meraviglia alcuna zara a chi tocca.
Siriano fu alzato subito da mille braccia. E non immaginate che profferisse verbo che imprecasse: nulla! Egli si pulì la pancia; si succhiò le mani spellate, (medicata d'un romano), ringraziò nobilmente qualcuno, e poi coll'indice tra il mento, si pose a considerare, con una dissertazione giuridica questo accidente. Acuiva se il diritto romano contemplasse questo caso; e quale caratteristica, nel caso del sì, gli si poteva applicare.
Né il popolo, a quella caduta, dette in ischiamazzi; ohibò, il funzionario integro anco nella disgrazia, ebbe il suo rispetto. Anzi, appena avvenne il caso, per timore che le risa attirassero qualche linguaccia di misilmerese, tutti si bisbigliarono di stare zitti e di considerare la questione dell'animale sucido col prefetto come un affare di famiglia: quanto a dire, che nessuno doveva più mettere bocca, altrimenti veniva considerato come un intruso. Infatti questa caduta funesta io non la vidi; ma la seppi per “vox populi” dopo molto tempo, quando già il segreto non aveva più valore e l'incidente erasi divulgato. Con tutto ciò l'ebbi raccontato all'orecchio: ed io ve lo sussurro lo stesso con circospezione e con preghiera di mantenere il segreto.
Intanto il popolo marinense, dopo mature riflessioni su questo caso, dedusse che la caduta di Siriano fu per essere punito del suo efferatismo nel condannare San Ciro; e che la mano di Dio, per tal'uopo vendicatrice, si manifestò sotto forma di porco. Tutti qui credono alla mano di Dio, ed io ci credo pure, tanto che, ogni qualvolta incontro uno di cosiffatti animali, io gli fo rispettuosamente luogo per dieci, perché passi comodamente, e la mano di Dio non si scapricci un po' con me.
*
Ma passiamo oltre per osservare la gloria in eccelsio del santo. E' breve. Ecco chi la compongono: La Felicità, vestita in bianco e coronata di fiori, con un canestro di frutta fresche in mano, in mezzo a due Cherubini portanti anch'essi delle frutta. Forse simboleggiano il paradiso terrestre, dove trovasi il santo.
*
Dopo viene un vescovo con gli abiti sacramentali, seguito dal suo clero in pompa magna; indi l'urna, portata da quattro cattolici, ove si suppongono gli avanzi mortali di San Ciro. Quel clero e quell'urna significano, credo, il Conclave e la decisione del papa Costantino che ritira le spoglie nella città eterna.
*
Allora si ode l'Alleluia, che scende dal cielo, ma sono in terra però. Dodici angioletti con le palme in mano cantano:
Oh quanto è bello il paradiso
In gioia e riso è pieno ognor
E seguitano la lunga poesia accompagnata dalla solita musica suonata da tre artisti di violino, violoncello e flauto.
*
Vengono poi un nugolo di ragazzini, vestiti a stile asiatico, come tanti mandarini cinesi, che portano una pertica per uno con in punta il cartello ove c'è scritto un testo latino, come per esempio: “Manifestavit gloriam tuam”, altro con: “In modio flamme laudamus Domini” o con: “Signum magnum” o un: “Vade retro, satana” o un “Cupio dissolvi et esse cum Cristo” etc. che compendiano la storia della vita del santo. Ma quei cartelli sono disposti in tanta confusione che si legge prima quando muore; poi quando nasce e rimuore da capo, e allora viene spontaneo il celebre epitaffio d'un poeta: “Questo fanciullo nacque, pianse, visse, morì e dopo due ore spirò!” Ma per questo non c'è da dare la colpa al direttore... Badiamo; è che quei mandarini, forse perché avvezzi a comandare, non vogliono stare in fila con l'ordine stabilito.
*
Finalmente in ultimo chiude il gran corteo un carrozzino portato a festa come un carro trionfale, tirato da quattro facchini. Ivi c'è posto un leggiadro giovinetto con vesti svolazzanti bianche, con l'alloro e l'aureola in fronte e la lunga palma della gloria in mano. E' San Ciro glorioso che si fa tirare comodamente senza punto scomporsi. E non mancano le femminucce ferventi, con le storiche mantelline in testa, che seguono a centinaia il santo, recitando con gran fervore la nenia:
E centu mila voti
Ludamu a Santu Ciru,
finché il medesimo arriva al punto ove si partì. L'ultima è l'altra musica che stanca smunge i polmoni a suonare.
Non voglio chiudere questa Dimostranza, senza ch'io vi racconti l'ultimo aneddoto. Una mia egregia cugina, una volta, fu pregata dalla deputazione per la festa a concedere uno dei suoi graziosi figlioletti di 7 o 8 anni, per fare il Santo Ciro glorioso. Quando egli arrivò sotto i suoi balconi, siccome erano le cinque e c'era ancora un'altra ora di percorso; un suo fratellino più piccolo lo cominciò a chiamare a voce forte, perché scendesse di lì e scendesse a pranzare essendo tardi. I suoi sgridavano il piccolo rivoluzionario che stesse zitto, per carità; ma quegli continuava logicamente a chiamare più forte, fra le risa di tutti. Visto però che suo fratello Santo Ciro era inespugnabile, lo toccò nel debole gridando: “Senti, c'è un bel pezzo di torrone, e te lo giuro, se tu non vieni ora ora, io mi mangio la parte tua: lo senti?” Oh allora Santo Ciro lasciò la gloria! In un attimo scivolò dal suo carrozzino, e in quattro salti fu dentro che chiedeva: “Il torrone mio voglio, il torrone mio!”
Ci furono risa, ci furono rimproveri anco per il biricchino guastamestieri; ma il fatto sta che la Dimostranza per un bel tratto rimase senza la sintesi riflessa; e le ferventi donnicciole senza il santo! E tutto per un pezzo di torrone!
Il San Ciro qui invece è un ometto basso e mingherino (e come no, dopo tanti strapazzi?) con la testa quanto un limone: gli occhi come i buchi delle scarpe, le gambe e le braccia esili esili. Questo San Ciro non è semplicemente martire pel cielo; lo è anco per la terra. I ragazzi lo intendono con un nomignolo diminuitivo: lo chiamano “S.Cirriceddu” e ovunque lo vedono da ogni strada, da ogni cantonata, lo martirizzano con tal nome. E S.Cirriceddu s'arrabbia e pesta coi piedi, lanciando improperi e sassi a josa. Quel giorno un villanaccio con un pezzo di pane sbocconellata in mano mentre San Ciro accudiva alla sua parte tanto delicata, gli va incontro e comincia a chiamarlo come un cagnolino sbattendo la spanna nell'anca: “Qua qua, S.Cirriceddu!” Fu il grido della rivolta dappertutto. S.Cirriceddu. E il zu Pitruzzu (che al mondo chiamavasi così) a fare versacci anco lui. Il boia, vedendo che il suo uomo non istava paziente, gli diede un punzone nelle reni col manico della scure mugghendogli: “Finitela!”
Il povero San Ciro, impaurito dal Morgante marinese, tacque come un santo; ma, come zu Pitruzzo, si rivolse ai monellacci e li minacciò in lingua italiana: “Redite, redite figli... (ah! porcherie!)”.
Il boia lo voleva decapitare davvero; e ci volle l'intercessione del miracoloso direttore se quella strada non divenne una nuova piazza Roquette!
*
Ma già si odono un po' lontane:
Parole di dolore, accenti d'ira,
Voci alte e fioche e suon di man con elle.
E' Siriano confuso in mezzo ai suoi giudici, in tanta desolazione che il mare si rompe. Il prefetto Siriano, morto San Ciro, ne sente il rimorso che lo dilania e cade in una specie di parossismo (sarà anche manomania) ma insomma fa spavento. Si strappa i capelli; emette profondi sospiri, sbattendo ambedue le mani con tanto accoramento che, a chi lo vede, gli spuntano le lacrime agli occhi, tant'è la pietà. Invano i suoi giudici lo confortano e l'assicurano di non essere lui il responsabile, bensì l'imperatore: ma egli maledice e rimprovera tutti chiamando esecutori loro soli di sì esecrando misfatto. Ci si perde la testa, perché a sentirli pare che tutti siano innocenti. Ma un caso impreveduto, però, fece per un momento dimenticare questo quadro di dolore.
Quel giorno di festa, forse attirato dal clamore, un animale sucido (son filosofi costoro) scese in piazza, s'intromise tra la folla per godere anch'esso un po’ di quel bene. Ma gli uomini che per natura sono gelosi dei loro piaceri cominciarono a cacciare questo innocente spettatore. Uno gli dà un calcio sullo grugno gridando: “Dalli! dalli!” e quegli voltato in giù a corsa cerca una scappatoia fra le gambe: ma lì altre persone si voltano e lo ricevono coi piedi. Esso ritorna indietro e corre in sopra e trova le medesime accoglienze che l'attendono; volta di nuovo e scende; altrettante pedate o peggio; or scappa a sinistra, legnate; alla destra lo stesso. Non può fuggire perché ovunque ha chiuso un varco e lo scopo di cacciarlo invece non è raggiunto: tant'è vero che molte mani Iddio le maledisse. Ma, in quel pigìo, l'animale fa l'ultimo sforzo per uscire, e chiamati a raccolta tutti i suoi spiritacci, come un superstite delle Termopoli, dovette dire - credo - tra sé: o vincere o morire! Prende di mira tre personaggi e gli corre loro incontro per farsi dare luogo.
Quelli erano: il prefetto Siriano coi due giudici. Il prefetto, immerso com'era nel suo gran dolore, non si accorse del perseguitato che veniva a lui chiedendo asilo, e sta fermo; ma i giudici lo vegliano. L'animale si dirige al giudice di destra e alla destra l'accoglie un gran calcio; va alla sinistra, a sinistra un gran calcio risponde. Allora, fatti i considerando, si ficca tra le gambe di Siriano per uscire dall'altra parte: ma la toga impedisce e s'impasta col magistrato. Il prefetto sente l'ospite nelle cosce; apre la bocca... ma si dovette convincere che quegli aveva gran premura, perché furiosamente gli struracciolò di dietro, asportando un lembo di toga e facendolo stramazzare a faccia a terra. Cadono i grandi come i piccoli, non c'è meraviglia alcuna zara a chi tocca.
Siriano fu alzato subito da mille braccia. E non immaginate che profferisse verbo che imprecasse: nulla! Egli si pulì la pancia; si succhiò le mani spellate, (medicata d'un romano), ringraziò nobilmente qualcuno, e poi coll'indice tra il mento, si pose a considerare, con una dissertazione giuridica questo accidente. Acuiva se il diritto romano contemplasse questo caso; e quale caratteristica, nel caso del sì, gli si poteva applicare.
Né il popolo, a quella caduta, dette in ischiamazzi; ohibò, il funzionario integro anco nella disgrazia, ebbe il suo rispetto. Anzi, appena avvenne il caso, per timore che le risa attirassero qualche linguaccia di misilmerese, tutti si bisbigliarono di stare zitti e di considerare la questione dell'animale sucido col prefetto come un affare di famiglia: quanto a dire, che nessuno doveva più mettere bocca, altrimenti veniva considerato come un intruso. Infatti questa caduta funesta io non la vidi; ma la seppi per “vox populi” dopo molto tempo, quando già il segreto non aveva più valore e l'incidente erasi divulgato. Con tutto ciò l'ebbi raccontato all'orecchio: ed io ve lo sussurro lo stesso con circospezione e con preghiera di mantenere il segreto.
Intanto il popolo marinense, dopo mature riflessioni su questo caso, dedusse che la caduta di Siriano fu per essere punito del suo efferatismo nel condannare San Ciro; e che la mano di Dio, per tal'uopo vendicatrice, si manifestò sotto forma di porco. Tutti qui credono alla mano di Dio, ed io ci credo pure, tanto che, ogni qualvolta incontro uno di cosiffatti animali, io gli fo rispettuosamente luogo per dieci, perché passi comodamente, e la mano di Dio non si scapricci un po' con me.
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Ma passiamo oltre per osservare la gloria in eccelsio del santo. E' breve. Ecco chi la compongono: La Felicità, vestita in bianco e coronata di fiori, con un canestro di frutta fresche in mano, in mezzo a due Cherubini portanti anch'essi delle frutta. Forse simboleggiano il paradiso terrestre, dove trovasi il santo.
*
Dopo viene un vescovo con gli abiti sacramentali, seguito dal suo clero in pompa magna; indi l'urna, portata da quattro cattolici, ove si suppongono gli avanzi mortali di San Ciro. Quel clero e quell'urna significano, credo, il Conclave e la decisione del papa Costantino che ritira le spoglie nella città eterna.
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Allora si ode l'Alleluia, che scende dal cielo, ma sono in terra però. Dodici angioletti con le palme in mano cantano:
Oh quanto è bello il paradiso
In gioia e riso è pieno ognor
E seguitano la lunga poesia accompagnata dalla solita musica suonata da tre artisti di violino, violoncello e flauto.
*
Vengono poi un nugolo di ragazzini, vestiti a stile asiatico, come tanti mandarini cinesi, che portano una pertica per uno con in punta il cartello ove c'è scritto un testo latino, come per esempio: “Manifestavit gloriam tuam”, altro con: “In modio flamme laudamus Domini” o con: “Signum magnum” o un: “Vade retro, satana” o un “Cupio dissolvi et esse cum Cristo” etc. che compendiano la storia della vita del santo. Ma quei cartelli sono disposti in tanta confusione che si legge prima quando muore; poi quando nasce e rimuore da capo, e allora viene spontaneo il celebre epitaffio d'un poeta: “Questo fanciullo nacque, pianse, visse, morì e dopo due ore spirò!” Ma per questo non c'è da dare la colpa al direttore... Badiamo; è che quei mandarini, forse perché avvezzi a comandare, non vogliono stare in fila con l'ordine stabilito.
*
Finalmente in ultimo chiude il gran corteo un carrozzino portato a festa come un carro trionfale, tirato da quattro facchini. Ivi c'è posto un leggiadro giovinetto con vesti svolazzanti bianche, con l'alloro e l'aureola in fronte e la lunga palma della gloria in mano. E' San Ciro glorioso che si fa tirare comodamente senza punto scomporsi. E non mancano le femminucce ferventi, con le storiche mantelline in testa, che seguono a centinaia il santo, recitando con gran fervore la nenia:
E centu mila voti
Ludamu a Santu Ciru,
finché il medesimo arriva al punto ove si partì. L'ultima è l'altra musica che stanca smunge i polmoni a suonare.
Non voglio chiudere questa Dimostranza, senza ch'io vi racconti l'ultimo aneddoto. Una mia egregia cugina, una volta, fu pregata dalla deputazione per la festa a concedere uno dei suoi graziosi figlioletti di 7 o 8 anni, per fare il Santo Ciro glorioso. Quando egli arrivò sotto i suoi balconi, siccome erano le cinque e c'era ancora un'altra ora di percorso; un suo fratellino più piccolo lo cominciò a chiamare a voce forte, perché scendesse di lì e scendesse a pranzare essendo tardi. I suoi sgridavano il piccolo rivoluzionario che stesse zitto, per carità; ma quegli continuava logicamente a chiamare più forte, fra le risa di tutti. Visto però che suo fratello Santo Ciro era inespugnabile, lo toccò nel debole gridando: “Senti, c'è un bel pezzo di torrone, e te lo giuro, se tu non vieni ora ora, io mi mangio la parte tua: lo senti?” Oh allora Santo Ciro lasciò la gloria! In un attimo scivolò dal suo carrozzino, e in quattro salti fu dentro che chiedeva: “Il torrone mio voglio, il torrone mio!”
Ci furono risa, ci furono rimproveri anco per il biricchino guastamestieri; ma il fatto sta che la Dimostranza per un bel tratto rimase senza la sintesi riflessa; e le ferventi donnicciole senza il santo! E tutto per un pezzo di torrone!
Francesco Sanfilippo
(Marineo, settembre 1894)
***
(MERCOLEDÌ-GIOVEDÌ 25-26 SETTEMBRE 1894)
DA MISILMERI
A proposito della gelosia di due Santi e due Paesi.
DA MISILMERI
A proposito della gelosia di due Santi e due Paesi.
[...] Mi permetto aggiungere un'errata corrige al magnifico lavoro dell'egregio signor Francesco Sanfilippo, intitolato La Dimostranza di Marineo. Lo faccio soltanto nella parte dove si accenna alla leggenda in bocca al popolino, cioè che, per avere, San Ciro, fatto cadere il dito a San Giusto, allo scopo di non farlo rimanere più giusto, gli odii, le guerre surde, i libelli e i pettegolezzi tra i due santi, si sono trasmessi ai figli fino a noi e finiranno, forse, quando il sole non illuminerà più sulle sciagure umane. La leggenda è vera, in parte, e per quanto si dice in Marineo riferibilmente a San Giusto. Però, in Misilmeri, esiste in proposito un'altra versione, riferibilmente a Santo Ciro. Essa è che i marinesi, mal sofferendo di avere un protettore africano, di fronte al trentino San Giusto, sonosi appropriati del dito di quest'ultimo, allo scopo di italianizzare la loro terra. E si dice anche che i buoni marinesi, poco soddisfatti del nome del loro protettore, abbiano incessantemente reclamato per ottenere il cambio. Son vere tali versioni? Chi lo sa: il fatto vero ed innegabile si è quello che sempre ha esistito, tra i due paesi, una forte gelosia, aggravata dalla petulanza di taluni misilmeresi che in epoca assai vicina spinsero la loro temerarietà a tal punto da togliere “le randole” alle ruote del carro, in modo da farlo abbattere nel momento che fa il suo viaggio trionfale. Anzi si vuole che d'allora in poi, numerosi divoti di San Ciro montano la guardia al carro, temendo che i ribelli figli di San Giusto possano rinnovare lo scherzo, e quì dal popolino si ripete il grido che vuolsi si scambiano le guardie: “Allerta, Ciru, ca veni Giustu e lava li roti a lu carru!”
Dopo tali chiarimenti, mi permetto inviare le più sentite felicitazioni all'egregio signor Sanfilippo pel suo pregevole lavoro che così stupendamente ritrae una pagina sugli usi e costumi siciliani.
Dopo tali chiarimenti, mi permetto inviare le più sentite felicitazioni all'egregio signor Sanfilippo pel suo pregevole lavoro che così stupendamente ritrae una pagina sugli usi e costumi siciliani.
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