di Piazza Marineo
Migratoria è la vita quotidiana di milioni di persone che per lavoro, per fame, per guerra o per fatalità si spostano da un capo all’altro della terra.
«Esperienza mentale prima che fisica, occasione non raramente traumatica di confronto tra il noto e l’ignoto, il viaggio è stato spesso assunto a metafora dell’intera condizione umana» (Cardona 1986, 687). Sintomatica è, in tal senso, la prova mitica di Ulisse, ripresa nel viaggio dantesco, comunemente interpretata come segno del destino fatale dell’umanità tutta. Quella del mondo «è una lunga storia di nomadismo», mentre «la storia del sedentarismo, dei costruttori di città, intensa e produttrice di un incredibile fervore di innovazioni e di cambiamenti culturali, appare breve – un attimo, un battito di ciglia di una divinità – se proiettata sullo sfondo di milioni di anni che l’hanno preceduta» (Callari Galli 2005, 193).
Le migrazioni, come fenomeno di spostamento di popoli o di piccoli gruppi da una zona all’altra, da una nazione all’altra, da un continente all’altro, hanno da sempre animato la vita culturale della terra, rappresentando un importante fattore di sviluppo, poiché hanno costituito una risposta positiva agli squilibri climatici, demografici, economici, sociali.
Nell’era moderna il ciclo più significativo di spostamenti è stato senz’altro quello dei flussi diretti dalla vecchia Europa alle nazioni nascenti dell’America. A fine Ottocento avvenne, infatti, la riscoperta di questo continente come potenziale mercato del lavoro. In realtà, in Sicilia era sempre esistita una migrazione interna agricola scandita dai ritmi dei lavori nella campagna: la mietitura del grano richiamava nei latifondi migliaia di braccianti agricoli, uomini e donne, che si spostavano da un capo all’altro dell’isola per prestare la propria opera, dando luogo ad intensi spostamenti stagionali. Il movimento, oltre che una fuga temporanea dalla miseria, era una necessità per esercitare il mestiere di bracciante. Così, «gli uomini e le donne che si sarebbero messi in moto per raggiungere i lontani e ignoti porti delle Americhe avevano alle spalle l’esperienza di una società adusa agli spostamenti, di uomini e donne abituati a sradicarsi dai loro paesi anche per mesi, nella prospettiva di accumulare un piccolo reddito» (Bevilacqua 2001, 98).
Questa nuova opportunità cambiò la vita e l’orizzonte culturale della società rurale dell’Isola. Nacque una sorta di ponte tra le zone d’immigrazione e i luoghi di partenza. In tal senso, furono decisivi gli scambi di notizie tra gli emigrati e i paesi di provenienza che innescarono ulteriori meccanismi di richiamo. Le cosiddette “catene migratorie” consentivano di superare i problemi di viaggio, alloggio e lavoro, attirando gli emigranti nelle sedi dove esistevano precedenti insediamenti di connazionali.
Attraversato l’oceano Atlantico, cosa succedeva quando l’emigrante si trovava di fronte l’America? Il senso d’impotenza era forse il sentimento più forte e l’estraneità doveva sembrare insuperabile nel nuovo ambiente. Conseguenza di questo disagio era la formazione di comunità di connazionali isolate rispetto al nuovo contesto. Così, nell’affrontare un paese sconosciuto, le famiglie, le parentele allargate, i rapporti di conoscenza dei paesi di origine diventavano ancora più importanti: addirittura vitali. Gli italiani cercarono di ricreare gli ambienti di casa dando vita alle Little Italies, disseminate di simboli nazionali, insegne nei negozi scritte in italiano, bandiere e immagini religiose votive agli angoli delle vie. In questo contesto, le tradizioni, la lingua, i momenti festivi collettivi erano occasione di comunione, coesione, ostentazione dell’intera comunità. Circoli e associazioni religiose favorivano, inoltre, l’incontro e la socializzazione tra connazionali.
Nel 1905, a Manhattan, in una vetrina di un negozio che si affacciava su Elisabeth Street faceva la sua comparsa una statua d’argento di san Ciro. Negli orari di chiusura, in quei locali si incontravano i fondatori della Società religiosa per organizzare le prime feste comunitarie. Così, come nel vecchio mondo siciliano, anche nel nuovo mondo i marinesi continuarono a onorare il loro protettore. Il culto del santo patrono fu uno dei vincoli più forti sul piano emotivo, in grado di legare i primi immigrati di Marineo gli uni agli altri e al paese di origine. La religione e il sodalizio in nome del santo protettore costituivano, inoltre, l’unico punto di riferimento per la comunità e l’unico sostegno nei momenti di difficoltà per i singoli individui. Già a partire dai primi anni del Novecento, l’ultima domenica di gennaio si celebrava la cosiddetta “festa povera”. Mentre nel mese di agosto, di solito il secondo week-end, si svolgeva la “festa ricca”, che prevedeva tre giorni di manifestazioni, dal venerdì alla domenica. Le funzioni religiose si celebravano all’interno della chiesa “italiana” della Madonna di Loreto.
A cento anni di distanza, negli Stati Uniti le società di mutuo soccorso continuano ad essere un importante punto di riferimento per tantissime comunità di immigrati. Nella sola circoscrizione consolare di New York ne sono state censite più di cinquecento. Una di queste è la San Ciro Society, che fa capo alla comunità di Marineo, con sede al 54 Gaston Avenue di Garfield, nello Stato del New Jersey. Nell’associazionismo e nei rapporti di parentela, certo, ma è anche nella cucina, nella musica, nella danza, nella letteratura, nel cinema che si manifesta l’universo culturale e la rete dei rapporti sociali dell’emigrante. Questi sono tutti mezzi per mantenere un legame con il proprio passato, ma anche solide basi per il presente e per il futuro. Con il rito della festa la comunità rifonda se stessa, riprende vigore e ritrova la sua ragion d’essere, confermando nel contempo un solido legame con le tradizioni dei padri (Buttitta 1996). In questo contesto, la festa degli italiani costituisce una rappresentazione del gruppo in un luogo dove ci si sente pienamente inseriti (Teti 2002). Il cammino dei fedeli in processione dietro al santo, con i ceri accesi o a piedi scalzi, nelle larghe strade di New York o in quelle di Garfield, afferma la loro presenza in quei luoghi, l’appaesamento degli italiani, l’esigenza di orientarsi per non perdersi nella nuova realtà, il “bisogno di centro”.
Da oltre un secolo gli emigrati di Marineo celebrano, tra persistenze e mutamenti, la festa patronale di san Ciro, scandita dai ritmi agricoli del paese di origine. Stesse date: una a gennaio e una in agosto. Stessi rosari, preghiere, processioni, ma anche molte novità legate ai luoghi d’accoglienza ai nuovi stili di vita, come l’annuale Dinner dance e il riconoscimento all’Uomo dell’anno.
Dunque, l'umano cammino di Ciro tra le sofferenze terrene ebbe inizio nel III secolo tra le affollate vie di Alessandria d’Egitto. In questa prima grande città cosmopolita fu studente modello, medico esimio, eremita umile e, per finire, martire fedele. Sono ormai secoli che i suoi devoti tramandano il ricordo di quest’uomo straordinario nato agli inizi del cristianesimo in terra africana. Accolte le sue reliquie a Roma, san Ciro è stato amato e venerato in terra italiana. E, infine, come vedremo, è stato anche guida nelle rotte atlantiche, patrono, padre, compagno di viaggio, amico sapiente e consolatore degli emigrati in terra americana. In poche parole, per i suoi devoti san Ciro è stato patrono universale.
In questo libro, il primo capitolo (Da Alessandria a Marineo) è dedicato alle origini e alla diffusione del culto di san Ciro, partendo dal suo primo biografo: il patriarca di Gerusalemme Sofronio (550-635), autore degli Atti dei santi martiri alessandrini Ciro e Giovanni, produzione del VII secolo. Per la letteratura agiografica, da uomo in terra e da santo in cielo Ciro d’Alessandria si è sempre dedicato alla cura dei malati. La seconda fonte che descrive la traslazione delle reliquie a Roma è, invece, un codice latino scritto da Gualtiero intorno al 1200, giunto a noi attraverso una copia redatta nel 1600, custodita negli archivi vaticani (Prevete 1961, 121). Due monaci, Grimaldo e Arnolfo, ispirati da un sogno avrebbero prelevato ad Alessandria le ossa dei martiri Ciro e Giovanni, salvandole dalla profanazione dei saraceni nella prima metà del VII secolo. Le reliquie sarebbero così giunte prima a Roma, poi a Napoli, a Marineo e in altre città (Benanti-Spataro 1995).
Il secondo capitolo (Da Marineo a New York) è dedicato al fenomeno migratorio e all’introduzione del culto di san Ciro negli Stati Uniti ad opera dei pionieri marinesi, che sbarcano a New York a partire dalla fine dell’Ottocento. Formano una colonia a Elizabeth Street, nei pressi di Mulberry Street, nota Little Italy nell’isola di Manhattan. Con il migliorare delle loro condizioni economiche piccoli gruppi si spostarono a Brooklyn e nel Queens, mentre in maggioranza trovarono opportunità di lavoro nel New Jersey. Una numerosa comunità si stabilì, infatti, a Garfield, ambiente ricco di boschi e aperte campagne. In tutti i luoghi in cui andarono i marinesi portarono il culto di san Ciro e le tradizioni di Marineo.
Nel terzo capitolo (Da New York a Garfield) vengono focalizzati, tra persistenze e mutamenti, i vari aspetti del culto di san Ciro nel New Jersey, luogo dove è stato, appunto, trapiantato e dove è rifiorito con rinnovato vigore. Così, vedremo le attività della San Ciro Society e come il patrimonio culturale della festa patronale si identifica con la realtà economica e sociale da cui si è formato. Osserveremo, inoltre, come lo sviluppo, in senso materiale e culturale delle Little Italies, ha modificato in parte le tradizioni e i rituali di questo appuntamento, pur continuando esse a mantenere, in alcune forme, il carattere originario. Occorre anche notare come l’emigrazione ha condizionato la morfologia e l’antropologia della celebrazione sia nei paesi di partenza che nei luoghi di arrivo. Periodicamente, sia in Italia che negli Stati Uniti, avvengono degli incontri per rinnovare il patto di solidarietà e si programmano iniziative in comune. Nella festa confluiscono, infatti, i sentimenti di dolore e sensi di colpa per la disgregazione della società tradizionale. In tal senso, «la festa e i riti religiosi non costituiscono più una forma di esorcismo della morte, ma una forma di esorcismo dell’emigrazione, la nuova morte che ha colpito la comunità» (Teti 2002, 700).
L’obiettivo della ricerca è quello di analizzare da un lato gli aspetti storici, dall’altro le implicazioni sociali della celebrazione di san Ciro a Marineo e negli Stati Uniti. Un fatto dal quale difficilmente si può prescindere è il rapporto fra ricorrenze festive e strutture socio-economiche. All’interno del capitolo è dedicato anche uno spazio allo Statuto della San Ciro Society, che è stato aggiornato di recente. Le nuove disposizioni consentono anche ai “non marinesi” di ricoprire la carica di presidente. Inoltre prevedono la partecipazione attiva delle donne e dei giovani, che prima operavano in due gruppi separati: la “sezione femminile” e quella dei “figli di san Ciro”. L’iconografia e alcune forme e segni del culto popolare chiudono questa terza parte. A Garfield, accanto ai santini provenienti da Marineo, ne troviamo anche alcuni di produzione locale, assieme alle edicole votive.
Per una facile lettura, il libro non è stato appesantito dal materiale documentario storico rilevato durante le ricerche. Ci siamo concentrati a riportare soprattutto le testimonianze più significative dei protagonisti, inserendo, in chiusura, anche una piccola documentazione fotografica. Dopo una iniziale opera di consultazione di archivi e biblioteche, il volume è stato, infatti, costruito a partire da un lavoro di “ricerca sul campo”, tenendo conto soprattutto delle indicazioni dei protagonisti. Alcune di queste informazioni sono state rese in forma di intervista registrata su nastro magnetico, altre sono state prese sotto forma di appunti nel corso di incontri informali, altre ancora sono tratte da articoli dei principali giornali che si sono occupati della comunità di Marineo (Il Progresso, America Oggi, L’Italico, Il Bollettino, La Rocca) e da altre pubblicazioni indicate in Bibliografia.
Il testo si basa, in sostanza, sulle testimonianze orali e documentarie dei marinesi, i quali ci hanno dato fotografie, materiali per la ricerca, ritagli di giornale, informazioni, suggerimenti e incoraggiamenti. Marinesi e devoti di san Ciro che ringraziamo in questa occasione.
Le migrazioni, come fenomeno di spostamento di popoli o di piccoli gruppi da una zona all’altra, da una nazione all’altra, da un continente all’altro, hanno da sempre animato la vita culturale della terra, rappresentando un importante fattore di sviluppo, poiché hanno costituito una risposta positiva agli squilibri climatici, demografici, economici, sociali.
Nell’era moderna il ciclo più significativo di spostamenti è stato senz’altro quello dei flussi diretti dalla vecchia Europa alle nazioni nascenti dell’America. A fine Ottocento avvenne, infatti, la riscoperta di questo continente come potenziale mercato del lavoro. In realtà, in Sicilia era sempre esistita una migrazione interna agricola scandita dai ritmi dei lavori nella campagna: la mietitura del grano richiamava nei latifondi migliaia di braccianti agricoli, uomini e donne, che si spostavano da un capo all’altro dell’isola per prestare la propria opera, dando luogo ad intensi spostamenti stagionali. Il movimento, oltre che una fuga temporanea dalla miseria, era una necessità per esercitare il mestiere di bracciante. Così, «gli uomini e le donne che si sarebbero messi in moto per raggiungere i lontani e ignoti porti delle Americhe avevano alle spalle l’esperienza di una società adusa agli spostamenti, di uomini e donne abituati a sradicarsi dai loro paesi anche per mesi, nella prospettiva di accumulare un piccolo reddito» (Bevilacqua 2001, 98).
Questa nuova opportunità cambiò la vita e l’orizzonte culturale della società rurale dell’Isola. Nacque una sorta di ponte tra le zone d’immigrazione e i luoghi di partenza. In tal senso, furono decisivi gli scambi di notizie tra gli emigrati e i paesi di provenienza che innescarono ulteriori meccanismi di richiamo. Le cosiddette “catene migratorie” consentivano di superare i problemi di viaggio, alloggio e lavoro, attirando gli emigranti nelle sedi dove esistevano precedenti insediamenti di connazionali.
Attraversato l’oceano Atlantico, cosa succedeva quando l’emigrante si trovava di fronte l’America? Il senso d’impotenza era forse il sentimento più forte e l’estraneità doveva sembrare insuperabile nel nuovo ambiente. Conseguenza di questo disagio era la formazione di comunità di connazionali isolate rispetto al nuovo contesto. Così, nell’affrontare un paese sconosciuto, le famiglie, le parentele allargate, i rapporti di conoscenza dei paesi di origine diventavano ancora più importanti: addirittura vitali. Gli italiani cercarono di ricreare gli ambienti di casa dando vita alle Little Italies, disseminate di simboli nazionali, insegne nei negozi scritte in italiano, bandiere e immagini religiose votive agli angoli delle vie. In questo contesto, le tradizioni, la lingua, i momenti festivi collettivi erano occasione di comunione, coesione, ostentazione dell’intera comunità. Circoli e associazioni religiose favorivano, inoltre, l’incontro e la socializzazione tra connazionali.
Nel 1905, a Manhattan, in una vetrina di un negozio che si affacciava su Elisabeth Street faceva la sua comparsa una statua d’argento di san Ciro. Negli orari di chiusura, in quei locali si incontravano i fondatori della Società religiosa per organizzare le prime feste comunitarie. Così, come nel vecchio mondo siciliano, anche nel nuovo mondo i marinesi continuarono a onorare il loro protettore. Il culto del santo patrono fu uno dei vincoli più forti sul piano emotivo, in grado di legare i primi immigrati di Marineo gli uni agli altri e al paese di origine. La religione e il sodalizio in nome del santo protettore costituivano, inoltre, l’unico punto di riferimento per la comunità e l’unico sostegno nei momenti di difficoltà per i singoli individui. Già a partire dai primi anni del Novecento, l’ultima domenica di gennaio si celebrava la cosiddetta “festa povera”. Mentre nel mese di agosto, di solito il secondo week-end, si svolgeva la “festa ricca”, che prevedeva tre giorni di manifestazioni, dal venerdì alla domenica. Le funzioni religiose si celebravano all’interno della chiesa “italiana” della Madonna di Loreto.
A cento anni di distanza, negli Stati Uniti le società di mutuo soccorso continuano ad essere un importante punto di riferimento per tantissime comunità di immigrati. Nella sola circoscrizione consolare di New York ne sono state censite più di cinquecento. Una di queste è la San Ciro Society, che fa capo alla comunità di Marineo, con sede al 54 Gaston Avenue di Garfield, nello Stato del New Jersey. Nell’associazionismo e nei rapporti di parentela, certo, ma è anche nella cucina, nella musica, nella danza, nella letteratura, nel cinema che si manifesta l’universo culturale e la rete dei rapporti sociali dell’emigrante. Questi sono tutti mezzi per mantenere un legame con il proprio passato, ma anche solide basi per il presente e per il futuro. Con il rito della festa la comunità rifonda se stessa, riprende vigore e ritrova la sua ragion d’essere, confermando nel contempo un solido legame con le tradizioni dei padri (Buttitta 1996). In questo contesto, la festa degli italiani costituisce una rappresentazione del gruppo in un luogo dove ci si sente pienamente inseriti (Teti 2002). Il cammino dei fedeli in processione dietro al santo, con i ceri accesi o a piedi scalzi, nelle larghe strade di New York o in quelle di Garfield, afferma la loro presenza in quei luoghi, l’appaesamento degli italiani, l’esigenza di orientarsi per non perdersi nella nuova realtà, il “bisogno di centro”.
Da oltre un secolo gli emigrati di Marineo celebrano, tra persistenze e mutamenti, la festa patronale di san Ciro, scandita dai ritmi agricoli del paese di origine. Stesse date: una a gennaio e una in agosto. Stessi rosari, preghiere, processioni, ma anche molte novità legate ai luoghi d’accoglienza ai nuovi stili di vita, come l’annuale Dinner dance e il riconoscimento all’Uomo dell’anno.
Dunque, l'umano cammino di Ciro tra le sofferenze terrene ebbe inizio nel III secolo tra le affollate vie di Alessandria d’Egitto. In questa prima grande città cosmopolita fu studente modello, medico esimio, eremita umile e, per finire, martire fedele. Sono ormai secoli che i suoi devoti tramandano il ricordo di quest’uomo straordinario nato agli inizi del cristianesimo in terra africana. Accolte le sue reliquie a Roma, san Ciro è stato amato e venerato in terra italiana. E, infine, come vedremo, è stato anche guida nelle rotte atlantiche, patrono, padre, compagno di viaggio, amico sapiente e consolatore degli emigrati in terra americana. In poche parole, per i suoi devoti san Ciro è stato patrono universale.
In questo libro, il primo capitolo (Da Alessandria a Marineo) è dedicato alle origini e alla diffusione del culto di san Ciro, partendo dal suo primo biografo: il patriarca di Gerusalemme Sofronio (550-635), autore degli Atti dei santi martiri alessandrini Ciro e Giovanni, produzione del VII secolo. Per la letteratura agiografica, da uomo in terra e da santo in cielo Ciro d’Alessandria si è sempre dedicato alla cura dei malati. La seconda fonte che descrive la traslazione delle reliquie a Roma è, invece, un codice latino scritto da Gualtiero intorno al 1200, giunto a noi attraverso una copia redatta nel 1600, custodita negli archivi vaticani (Prevete 1961, 121). Due monaci, Grimaldo e Arnolfo, ispirati da un sogno avrebbero prelevato ad Alessandria le ossa dei martiri Ciro e Giovanni, salvandole dalla profanazione dei saraceni nella prima metà del VII secolo. Le reliquie sarebbero così giunte prima a Roma, poi a Napoli, a Marineo e in altre città (Benanti-Spataro 1995).
Il secondo capitolo (Da Marineo a New York) è dedicato al fenomeno migratorio e all’introduzione del culto di san Ciro negli Stati Uniti ad opera dei pionieri marinesi, che sbarcano a New York a partire dalla fine dell’Ottocento. Formano una colonia a Elizabeth Street, nei pressi di Mulberry Street, nota Little Italy nell’isola di Manhattan. Con il migliorare delle loro condizioni economiche piccoli gruppi si spostarono a Brooklyn e nel Queens, mentre in maggioranza trovarono opportunità di lavoro nel New Jersey. Una numerosa comunità si stabilì, infatti, a Garfield, ambiente ricco di boschi e aperte campagne. In tutti i luoghi in cui andarono i marinesi portarono il culto di san Ciro e le tradizioni di Marineo.
Nel terzo capitolo (Da New York a Garfield) vengono focalizzati, tra persistenze e mutamenti, i vari aspetti del culto di san Ciro nel New Jersey, luogo dove è stato, appunto, trapiantato e dove è rifiorito con rinnovato vigore. Così, vedremo le attività della San Ciro Society e come il patrimonio culturale della festa patronale si identifica con la realtà economica e sociale da cui si è formato. Osserveremo, inoltre, come lo sviluppo, in senso materiale e culturale delle Little Italies, ha modificato in parte le tradizioni e i rituali di questo appuntamento, pur continuando esse a mantenere, in alcune forme, il carattere originario. Occorre anche notare come l’emigrazione ha condizionato la morfologia e l’antropologia della celebrazione sia nei paesi di partenza che nei luoghi di arrivo. Periodicamente, sia in Italia che negli Stati Uniti, avvengono degli incontri per rinnovare il patto di solidarietà e si programmano iniziative in comune. Nella festa confluiscono, infatti, i sentimenti di dolore e sensi di colpa per la disgregazione della società tradizionale. In tal senso, «la festa e i riti religiosi non costituiscono più una forma di esorcismo della morte, ma una forma di esorcismo dell’emigrazione, la nuova morte che ha colpito la comunità» (Teti 2002, 700).
L’obiettivo della ricerca è quello di analizzare da un lato gli aspetti storici, dall’altro le implicazioni sociali della celebrazione di san Ciro a Marineo e negli Stati Uniti. Un fatto dal quale difficilmente si può prescindere è il rapporto fra ricorrenze festive e strutture socio-economiche. All’interno del capitolo è dedicato anche uno spazio allo Statuto della San Ciro Society, che è stato aggiornato di recente. Le nuove disposizioni consentono anche ai “non marinesi” di ricoprire la carica di presidente. Inoltre prevedono la partecipazione attiva delle donne e dei giovani, che prima operavano in due gruppi separati: la “sezione femminile” e quella dei “figli di san Ciro”. L’iconografia e alcune forme e segni del culto popolare chiudono questa terza parte. A Garfield, accanto ai santini provenienti da Marineo, ne troviamo anche alcuni di produzione locale, assieme alle edicole votive.
Per una facile lettura, il libro non è stato appesantito dal materiale documentario storico rilevato durante le ricerche. Ci siamo concentrati a riportare soprattutto le testimonianze più significative dei protagonisti, inserendo, in chiusura, anche una piccola documentazione fotografica. Dopo una iniziale opera di consultazione di archivi e biblioteche, il volume è stato, infatti, costruito a partire da un lavoro di “ricerca sul campo”, tenendo conto soprattutto delle indicazioni dei protagonisti. Alcune di queste informazioni sono state rese in forma di intervista registrata su nastro magnetico, altre sono state prese sotto forma di appunti nel corso di incontri informali, altre ancora sono tratte da articoli dei principali giornali che si sono occupati della comunità di Marineo (Il Progresso, America Oggi, L’Italico, Il Bollettino, La Rocca) e da altre pubblicazioni indicate in Bibliografia.
Il testo si basa, in sostanza, sulle testimonianze orali e documentarie dei marinesi, i quali ci hanno dato fotografie, materiali per la ricerca, ritagli di giornale, informazioni, suggerimenti e incoraggiamenti. Marinesi e devoti di san Ciro che ringraziamo in questa occasione.
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