di Leonardo Sciascia
Vittorini raccontava di quando lui e Mezio, giovanissimi, incontrarono per la prima volta Francesco Lanza: alla stazione di Catania, tra un treno e l'altro, in una giornata di stagnante e fosca calura. In prima, ne ebbero una delusione: nel fisico, nel modo di vestire, nel bagaglio che si portava appresso, nel parlare, Lanza non parve loro un poeta. Ma ad un certo punto lo riconobbero e identificarono come tale: e fu quando Lanza, indicando un alberello, disse: "basterebbe che quei rami si muovessero appena..." per dire dell'afa che stavano soffrendo, del desiderio che l'aria si muovesse e che un leggero réfolo desse refrigerio alle persone e alle cose. Con Ignazio Buttitta non c'era da aspettare: la sua presenza era immediatamente quella del poeta: nel fisico, nello sguardo, nel movimento di togliersi e rimettersi gli occhiali o di portarseli sulla fronte (un movimento che sembrava adeguarsi non ad una esigenza puramente oculistica, ma a un vedere interno, a un rapporto con le cose interiormente scelto, a una collocazione di esse in una prospettiva ad ogni momento inventata e rinnovata); e in tutto quello che diceva, in tutto quello che raccontava, di sè e degli altri, di Bagheria e del mondo, delle cose di ogni giorno, del libro che aveva appena letto, di una conversazione col cocchiere di piazza a Palermo o col grande poeta Mosca, dell'incontro con un vecchio contadino o con un professore o con un mafioso: tutte le cose straordinarie che gli capitavano. (continua)
Vittorini raccontava di quando lui e Mezio, giovanissimi, incontrarono per la prima volta Francesco Lanza: alla stazione di Catania, tra un treno e l'altro, in una giornata di stagnante e fosca calura. In prima, ne ebbero una delusione: nel fisico, nel modo di vestire, nel bagaglio che si portava appresso, nel parlare, Lanza non parve loro un poeta. Ma ad un certo punto lo riconobbero e identificarono come tale: e fu quando Lanza, indicando un alberello, disse: "basterebbe che quei rami si muovessero appena..." per dire dell'afa che stavano soffrendo, del desiderio che l'aria si muovesse e che un leggero réfolo desse refrigerio alle persone e alle cose. Con Ignazio Buttitta non c'era da aspettare: la sua presenza era immediatamente quella del poeta: nel fisico, nello sguardo, nel movimento di togliersi e rimettersi gli occhiali o di portarseli sulla fronte (un movimento che sembrava adeguarsi non ad una esigenza puramente oculistica, ma a un vedere interno, a un rapporto con le cose interiormente scelto, a una collocazione di esse in una prospettiva ad ogni momento inventata e rinnovata); e in tutto quello che diceva, in tutto quello che raccontava, di sè e degli altri, di Bagheria e del mondo, delle cose di ogni giorno, del libro che aveva appena letto, di una conversazione col cocchiere di piazza a Palermo o col grande poeta Mosca, dell'incontro con un vecchio contadino o con un professore o con un mafioso: tutte le cose straordinarie che gli capitavano. (continua)
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