di Nuccio Benanti
Nasceva all'ombra della Rocca, in una terra avara alle fatiche umane, e finiva nella pancia del castello dei Beccadelli di Bologna la speranza dei primi braccianti che nella seconda metà del Cinquecento ripopolavano la terra di Marineo.
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Nasceva nella parte alta del paese, immutata nei suoi tratti secolari, la distesa dei campi di grano: un mare giallo di spighe, interrotto appena da spruzzi di roccia che affioravano sulle onde dei crinali scoscesi. Le pietre squadrate e tirate su dall'uomo convergevano in un fazzoletto urbano che, per volontà e parsimonia dei primi baroni, si stendeva dal castello alla chiesa parrocchiale, per essere destinate alla misura del lavoro umano e della fede cristiana. Intorno al centro abitato era il silenzio dell'uomo e il rumore della natura e degli animali. Pochi gli alberi, pochi i fichidindia e poche le fasce sottili di canneti e vigneti che crescevano discreti ai margini dei viottoli e del seminativo. Nell'anno del maggese, per la terra periodo di riposo, di respiro e di concimazione, i magri fili d'erba alimentavano greggi di pecore e capre affamate e portate al pascolo secondo regole ancestrali di astuzia, cautela e diffidenza. Nell'anno del frumento era un dondolio all'unisono di uomini a dorso di muli e asini, di donne tirate a fatica dalle code degli animali che segnavano, con gli zoccoli consumati dai sassi e dalle zolle, la dura lotta contro il tempo e le avversità della natura, per strappare, fosse anche di notte e con le unghie, i mezzi per una sopravvivenza mai del tutto garantita. Questa era stata la terra di Marineo tra il XVI secolo e gli anni Cinquanta del Novecento: confine naturale del feudo cerealicolo e pastorale corleonese e agrigentino, granaio di Roma e dei Bologna, estremo rifugio della sopravvivenza e della rotazione biennale e triennale, terra cotta dal sole e dalla solitudine, proverbialmente povera di acqua e ricca di vino, ma più nelle secche speranze di salariati e villici che nelle umide botti dei borgesi. I seminativi, un tempo solcati con l'aratro dall'uomo e percorsi a piedi nudi da donne e bambini, oggi vengono calcati da pesanti cingoli e gommati di moderni trattori per seminare nuovi e selezionati germi di vita. E nonostante i drastici cambiamenti economici e sociali che hanno investito negli ultimi decenni il territorio di Marineo, gli antichi usi, costumi e feste contadine continuano a scandire le giornate di un calendario che guarda più al passato che al presente, più al cielo che alla terra, ad avere consistenti e resistenti luoghi di senso accanto a moderne celebrazioni che vedono i devoti portare in offerta sacchi o piatti di frumento per propiziarsi una buona annata. Tra sacro e profano, tra antico e moderno la pratica festiva continua a rispecchiare in modo drammatico e sincero il mistero della vita e della rigenerazione vegetale, del chicco di grano destinato dal principio al sacrificio per produrre molto frutto. Perché da tempo immemore, a Marineo muore e rinasce tra i campi argillosi, e si alimenta come verdi spighe di grano l'attesa, la speranza, l'universale bisogno di costruirsi uno spazio naturale e soprannaturale di sopravvivenza.