martedì 28 aprile 2015

Il primo "post" per comunicarvi la mia decisione di chiudere questo "blog"


di Nuccio Benanti
Circa otto anni fa, quando Piazza Marineo emetteva i primi vagiti, ho scritto il commento che segue, traendo ispirazione da una vecchia rubrica di Città Nuove. Nella speranza che il testo sia ancora attuale, voglio riproporvelo per comunicarvi la mia decisione di chiudere questo blog. Il motivo? Sostanzialmente sento l'esigenza di dedicarmi ad altre forme di scrittura. 
(Primo Episodio) Qui ti narrerò le avventure del cavaliero Brancaleone, titolare de lo ducato et de li possedimenti della Rocca di Marineo. Durante uno dei suoi frequenti viaggi nell’amena campagna regionale siciliana, dorata e profumata per lo grano maturo, nei pressi de lo Palazzo dei Normanni si incontrarono mulo a mulo il nostro Brancaleone il democristiano e Teofilatto il bizantino. Li due, per non cedere lo passo (avevano decinaia e decinaia di salme di terreno et voti per lato) decisero di sfidarsi a duello. Non vi furono né vinti, né vincitori: in compenso quell’anno la trebbiatura non ebbe più luogo. Seguirono nelli possedimenti anni di siccità e di moria delle vacche grasse. Quando qualcuno chiedeva “pane et lavoro”, isso per punizione recitava una sua poesia: U pani! Brancaleone provò così a crescere ora le tasse, ora lo pane, ora li possedimenti provocando un'eroica sommossa delle donne. Memore dell’incidente con Teofilatto, affidò ad un nobile in disgrazia una bolla, la quale conferiva al latore della pergamena “lo diritto a costruire una moderna mulattiera a tre corsie per lo trasporto del sommacco nella Libera città di Corleone, et similmente a scavare un grande buco carrabile sotto la Montagnola et camposanto annesso, et rotatoria cum brivatura alla Luisa, all’iscopo di risparmiare alle povere bestie la fatica et il tempo di fare tutto il giro della Valle Eleutera, dove i ricchi proprietari dei mulini ad acqua chiedevano esosi pedaggi et incombenze varie ai turisti panormiti”.

sabato 25 aprile 2015

Festa della Liberazione, onore ai martiri e ai sopravvissuti all'eccidio di Cefalonia


di Pippo Oddo
Se ancora oggi – scrivevo alla fine di maggio 2012 – stento a crederci io che, oltre allo zzu Pippinu (classe di ferro 1922), conosco bene anche il fatto e l’antefatto, è facile immaginare come avrà accolto la notizia la buonanima di suo nonno Calò Gentile, quando gli fu trasmessa non so da quale diavolo dell’inferno.
Eppure, con nota del 14 febbraio 2012 [festa degli innamorati, ndr], il prefetto di Palermo aveva già scritto così all’Ill.mo Signor Giuseppe Benincasa, via Tramontana n. 20, Castronovo di Sicilia: “Egregio Cavaliere, mi è gradito comunicarLe che con decreto del Presidente della Repubblica in data 27 dicembre 2011, la S. V. è stata insignita dell’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Nell’esprimerLe il mio più vivo compiacimento, sarò lieto di consegnarLe l’onorifica distinzione non appena sarà pervenuta”. (Umberto Postiglione) Ma l’interessato potè ricevere la missiva solo dopo alcuni giorni, grazie agli amici del Municipio che gliela trasmisero tramite internet al suo domicilio statunitense. È d’altronde risaputo che il vegliardo nostro sverna nell’altra sponda dell’Atlantico per tornare in Sicilia, come le rondini, solo in primavera, se gli va bene. Altrimenti alla vigilia della festa di San Pietro, che per quanto scaduta, rimane pur sempre un evento di tutto rispetto per i castronovesi stanziali e per quelli sparsi nel mondo. È superfluo aggiungere che un minuto dopo aver ricevuto la bella nuova, lo zzu Pippinu si attaccò al telefono per metterne a parte con una punta di malcelato orgoglio i parenti e gli amici più cari, compreso chi scrive. Gli restò solo il rammarico di non potere informare nessuno dei fratelli e delle sorelle (l’ultima delle quali morì ultracentenaria sette o otto anni fa), né tanto meno suo nonno, che gli aveva fatto da padre negli anni dell’infanzia quando era già gran ventura se si poteva mangiare tutti i giorni pani e sputazza. Che sagoma nonno Calò! Campiere sì, ma leccapiedi mai! Grazie a Dio, Caliddu Gentile aveva giurato di non scadere a quel livello fin dall’età di quattro anni, quando (dovendo rinunziare al latte della madre) fu costretto ad imparare in fretta e furia tutte le strategie di sopravvivenza sperimentate con successo nella Sicilia interna, dove il proverbio più in voga era: Inchi la panza e ghinchila di spini. Nel 1860 si arruolò con Garibaldi e lo seguì fino a Milazzo e due anni dopo anche in Aspromonte gridando a squarciagola: O Roma o morte! Mafioso forse un po’ lo era, Calò Gentile. Altrimenti non sarebbe mai diventato campiere nel feudo Savochella del barone Agnello di Siculiana. Ma se lo era, apparteneva a quella maffia scarsa che non infieriva mai sui contadini costretti dalla fama a rubacchiare qualche covone di grano ancora da dividere con il padrone. Anzi, Calò li invitava a far tesoro del detto arrubbari a cu’ ha arrubbatu nun è piccatu, che molti anni dopo riecheggerà ammantato di sociologismo negli espropri proletari in ambiente urbano. A furia di ripeterlo, Calò Gentile finì coll’inimicarsi l’alta mafia dei monti Sicani, che il 22 aprile 1904 fece trovare la presunta testa del bandito Varsalona in avanzato stato di decomposizione appesa ad una pertica nei pressi delle case grandi del feudo Savochella, alle falde del monte Cammarata, e soprattutto il barone Agnello, che (avendo messo una taglia di 5.000 lire sul feroce masnadiero) diede il campiere in pasto alla giustizia, facendolo condannare a quattro anni di reclusione. Ma nemmeno il carcere valse a fargli togliere dalla testa che arrubbari a cu ha arrubbatu nun è piccatu, motto destinato a diventare anche stella polare del primo Peppino Benincasa. Il quale, sveglio com’era e aperto a tutte le esperienze, già all’età di otto anni godeva della stima dei pochi antifascisti di Castronovo e segnatamente del dottore Baldassare Pace e degli avvocati Morici e Giovanni Buttacavoli, che volevano iniziarlo alla massoneria. Ma da quest’orecchio il ragazzino non ci sentiva. Era invece più che propenso a collaborare con loro tutte le volte che decidevano di organizzare uno scherzo di cattivo gusto ai gerarchi del Fascio, a cominciare dal segretario politico don Eugenio Landolina, meglio noto come don Rodrigo per i suoi metodi autoritari e il malvezzo di schiaffeggiare in pubblico chiunque non si prestasse ai suoi voleri o mostrasse tiepidezza verso l’alta missione cui era chiamata la Patria guidata dal duce predappiano. E ne sapeva qualcosa lo stesso Peppinello Benincasa, che più di una volta ricevette ceffoni e calci nel sedere perché reo di aver tentato di difendere i ragazzini più deboli dalle prepotenze dei coetanei. Anche per questo, l’amato nipotino di Calò Gentile divenne longa manus degli antifascisti fino al punto da improvvisarsi postino e attacchino dei manifesti scritti a mano che raccontavano in rima baciata le prodezze di don Rodrigo e dei suoi lacchè con gli stivali lucidi, il frustino di cuoio intrecciato e la camicia nera. Ma non gli faceva difetto lo spirito di iniziativa. Dopo aver studiato le abitudini dei gerarchi, che si riunivano nella chiesa sconsacrata di Sant’Onofrio, nella centralissima piazza Pepi, una sera del 1932 quel diavoletto aspettò che fossero spenti i fanali ad acetilene per piazzare un asinello davanti alla porta in modo da farci sbattere il muso al primo fascista che usciva dal locale. Lo scherzo riuscì a meraviglia e l’indomani tutta Castronovo sapeva che uno dei più stretti collaboratori di don Rodrigo si era abbracciato nottetempo con il camerata che raglia. Ad avvisare la popolazione era stato un cartello anonimo affisso alla porta del Fascio, nemmeno a dirlo, dal piccolo Benincasa. Tra i primi a saperlo fu il podestà, che (per placare l’ira di don Rodrigo) non perse tempo a spedire il ragazzino per punizione nel Convento di San Martino delle Scale. Ora, mentre il nonno Calò s’imbufalì, lo zzu Pidduzzu Benincasa (padre del birbantello) plaudì all’iniziativa: una bocca in meno da sfamare significava un dono della misericordia divina. Ma era così cinico papà Benincasa? Un fascista bigotto e fanatico? Neanche per sogno, a voler credere al figlio oggi cavaliere al merito della Repubblica Italiana: «La mia infanzia non è stata felice – confessa nell’incipit di un suo libro di memorie, cui ho avuto l’onore e il privilegio di scrivere la prefazione –. Penultimo di una famiglia di dodici figli, a cui la Provvidenza non ha fatto mancare mai il necessario, ho sempre dovuto lavoricchiare per cercare di sbarcare il lunario. Mio padre tirava la carretta attraverso lavori saltuari e di manovalanza. Era povero di roba ma ricco di dignità. Gestiva una trattoria e percepiva un piccolo emolumento dal Municipio per il ruolo di capo della banda musicale locale e per la formazione dei giovani musicanti. Nonostante il fascismo agevolava le famiglie numerose con piccoli sussidi, mio padre non lo volle mai accettare». Né il plauso del fiero genitore al provvedimento podestarile poteva esser scambiato per segno di resa. Il vero è che papà Benincasa temeva che presto potesse venirgli a mancare il sostegno del suocero Calò Gentile, ormai più che novant’anni (ma destinato a mantenersi in vita fino al 1940), e voleva assicurare al figlio almeno il diritto alla vita e la possibilità d’imparare un mestiere come Dio comanda. Ci riuscì e non mancò di adoperarsi affinché, dopo due mesi di soggiorno a San Martino delle Scale, Peppinello fosse trasferito in un Ospizio di beneficenza, a pochi passi dal Politeama di Palermo, dove rimase ben nove anni, apprese il mestiere di falegname e imparò a suonare la tromba così bene da essere poi richiesto come «solista» da diverse bande musicali delle province di Palermo e Agrigento. Successivamente, il lungo e drammatico soggiorno in un’isoletta del greco mar da cui vergine nacque Venere e l’amore filiale per quel prezioso scrigno della storia che è il territorio della sua Castronovo ne faranno un poeta di tutto rispetto e un bravo archeologo, nella più rigorosa tradizione dei tombaroli pentiti (Cfr. La Sicilia, 12 settembre 2009). Ai nostri fini interressa però ricordare per il momento che Peppino Benincasa potè lasciare l’ospizio di beneficienza solo il 10 giugno 1941, giusto in tempo per presentarsi alla visita di leva. «Risultato idoneo – racconta lui stesso –, fui messo in congedo provvisorio». La fortuna sembrava essere finalmente dalla sua parte, ove si consideri che l’Italia era entrata in guerra da più di un anno. Ma la pacchia durò solo sei mesi. Il 2 febbraio 1942 fu chiamato alle armi e destinato al 36° Reggimento di Fanteria motorizzata della Divisione Pistoia. E da qui, dopo aver dimostrato di saper suonare la tromba, eseguendo magistralmente la Casta diva della Norma di Bellini, fu trasferito alla Compagnia Comando e aggregato alla banda musicale del Reggimento. Nel mese di settembre passò al 317° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui, di stanza a Zante, occupata dall’Italia sin dal 1941. E per alcuni mesi se la spassò come non gli era mai capitato prima: donne, buon vino, esibizioni musicali in piazza, tra «un busto in bronzo di Ugo Foscolo e una statua del poeta greco Solomos». Mamma, canzone allora in voga nel nostro paese, divenne anche per merito suo in breve tempo «l’inno dell’isola di Zante». Ma il 13 febbraio 1943, la compagnia Comando e il corpo bandistico del 317° Reggimento furono trasferiti a Cefalonia. Il grosso della forza lasciò Zante alla fine dello stesso mese. La prima tappa fu Argastoli; la destinazione successiva Balsamata, dove avrebbe conosciuto la bellissima Maria Lalli (sua futura sposa) e alcuni esponenti del movimento partigiano ellenico. A giugno il vecchio comandante della Divisione Acqui passò il testimone al generale Antonio Gandin. Con l’arrivo delle reclute della classe 1923 l’insieme della forza risultò composta da circa 12.000 uomini. A supportare l’occupazione degli italiani c’erano circa 1.800 soldati tedeschi, perlopiù criminali comuni ai quali era stato offerto l’arruolamento come alternativa al carcere. I rapporti tra i due eserciti all’inizio furono buoni; le cose cambiarono bruscamente dopo l’8 settembre, in conseguenza dell’armistizio che il generale Pietro Badoglio firmò con l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America. I fatti suono troppo noti per ritornarci. Vale nondimeno la pena ricordare che la notte stessa arrivò un fonogramma dal generale Vecchiarelli (comandante delle truppe stanziate in territorio greco), che recitava: «Seguito conclusione armistizio, truppe italiane […] seguiranno seguente linea condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non dico non rivolgeranno armi contro di loro, non dico non faranno causa comune con ribelli né con truppe angloamericani che sbarcassero. Reagiranno con forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare». Il giorno dopo lo stesso Comando Generale sollecitava l’esercito a cedere le armi ai tedeschi e a lasciare gli avamposti presidiati. Indeciso sul da farsi, il generale Gandin cercò di prender tempo. In qualche misura ci riuscì, offrendo come segno pacificatorio ai tedeschi il controllo delle alture al centro dell’isola. Ma il risultato fu che il 10 settembre gli ex alleati presentarono un ultimatum che imponeva alle truppe italiane di consegnare le armi nella piazza centrale di Argastoli, davanti all’intera popolazione. Nel frattempo dalla terraferma greca cominciarono ad arrivare notizie contraddittorie: se intere divisioni dell’esercito italiano si arrendevano ai tedeschi, i militari della “Pinerolo” andavano ad ingrossare le file dei partigiani greci, che controllavano i monti. Anziché seguirne l’esempio, il 14 settembre il generale Gandin chiamò tutti i soldati della Divisione Acqui a pronunziarsi in un referendum con tre ipotesi: 1) arrendersi, 2) schierarsi a fianco dei tedeschi, 3) combattere contro di essi. La risposta fu quasi unanime: Guerra ai tedeschi! Il Governo presieduto da Badoglio frattanto invitava con un fonogramma a rivolgere le armi contro gli ex alleati. A mezzogiorno il generale Gandin comunicava l’esito del referendum; e così ebbe inizio l’inferno di Cefalonia. Il 15 settembre il Comando Supremo dell’esercito tedesco inviò nell’Isola nuovi battaglioni, che appoggiati dall’aviazione e sfruttando il vantaggio acquisito dal controllo delle alture, ridussero in pochi giorni all’impotenza il nostro esercito; tanto che il 22 settembre il generale Gandin convocò un Consiglio di Guerra, che si concluse con la decisione di arrendersi ai tedeschi. I soldati italiani catturati furono fucilati per ordine di Hitler. La belva teutonica non si acquietò il giorno successivo, nel corso del quale il bilancio dei militari italiani fucilati arrivò a circa 4.500 soldati e 155 ufficiali; molti altri nostri connazionali, tra i quali 129 ufficiali (compreso il generale Gandin), furono passati per le armi tra 23 e il 28 settembre. Sommando anche i morti per il successivo affondamento di tre navi, le vittime italiane ammonteranno a più di 9.400. Addetto alla difesa della Compagnia Comando, Peppino Benincasa durante una rischiosa missione fu ferito leggermente ad una gamba da una scheggia di bomba sganciata dall’aviazione tedesca. Ma non andò a riposarsi: benché dolorante non potè sottrarsi né alle marce forzate né, tanto meno, alla cattura da parte del nemico, che non mostrò certo particolari riguardi verso di lui, a giudicare da come un soldato tedesco gli strappò dal collo una collana con una medaglietta dorata della Madonna, credendo che stesse per appropriarsi di chissà quale tesoro. «Il bastardo – racconta lui stesso – me la sfilò con forza dandomi uno spintone. Caddi a terra insieme alla catena, il piastrino e la medaglietta […]. Mi venne un impeto di reazione, ma i miei compagni mi fermarono. Fu forse il destino, ma quella caduta fu la mia salvezza. Indolenzito e pieno di rabbia, a digiuno da due giorni e senza dormire, mi addormentai per terra. Non so quanto tempo passò, nel dormiveglia sentii una voce: “In marcia”. A seguire sentii una raffica di spari e i miei commilitoni che si accasciavano su di me. Gli spari si confondevano con le urla ed i lamenti dei miei commilitoni, che cadevano come birilli. Io fui travolto da quell’immenso peso umano che mi cadde addosso. Rimasi schiacciato da tanti corpi oramai privi di vita, non riuscivo a muovermi. Svenni per il dolore e per la disperazione. Al risveglio era buio, mi trovai pieno di sangue con cadaveri addosso ed intorno. Ancora indolenzito e sporco di sangue e con il dolore alla gamba, con la febbre, facevo fatica a reggermi in piedi. Provavo a camminare carponi ma gli sterpi mi ferivano le mani. Non avevo altra scelta, dovevo raggiungere Balsamata, se volevo salvarmi». Si salvò, con l’aiuto degli isolani e in particolare di uno dei suoi migliori amici, Giorgio Rasis, che lo metterà presto a contatto con i capi della resistenza greca. Queste e tante altre cose (compresi alcuni affreschi di vita quotidiana e costumi ellenici) Peppino Benincasa (che pure aveva frequentato solo la terza classe elementare) ha avuto modo di raccontarle nel libro autobiografico Memorie di Cefalonia. La guerra volutamente dimenticata e il martirio della Divisione “Acqui” (San Giovanni Gemini s. d., ma 2007), avvalendosi anche del supporto morale e culturale di chi scrive e dei nostri comuni amici prof. Franco Licata e dott. Mario Liberto, che ne hanno curato la pubblicazione. Di più, il prof. Licata, già sindaco di Castronovo e allora presidente dell’Associazione Culturale Kassar, scrivendo una pur breve presentazione del libro ha tenuto a precisare che «fra i meandri di quella “sporca” guerra con tutti i rovinosi effetti, lui [lo zzu Pippinu] riesce a cogliere le pur poche positività: la solidarietà e l’accoglienza del popolo greco, che hanno raggiunto il loro culminante epilogo nel grande amore per Maria Lalli, sua unica dea ed insostituibile compagna di vita». È appena il caso di aggiungere che la bellissima «greca», ormai nel mondo dei più, ha trovato la sua ultima dimora molti anni fa nel piccolo cimitero di Castronovo. Per questo motivo il cavaliere errante torna tutti gli anni nella terra natia e non manca di fare una capatina a Cefalonia, dove Maria aveva ricevuto in eredità dai genitori una casetta e piccolo appezzamento di terra. E si noti che il suo frenetico andirivieni tra il nuovo e il vecchio mondo, la Magna Grecia e le isole egee non soddisfa appieno la sua sete di periodica innovazione ambientale, che ancora alla sua veneranda età lo porta pure dal New Jersey in California, dalla Sicilia in Calabria, a Roma, a Venaria reale, ovunque ci siano parenti ed amici da abbracciare o cose nuove da vedere. Il che lo ha fatto apparire troppo spesso stravagante e raccontafavole da strapazzo. Prova ne sia che fino a pochi anni addietro non erano molti i castronovesi disposti a credere alla storia della sua miracolosa salvezza dalle mitragliate tedesche. Non a caso quando presentammo il suo libro nella stessa piazza Pepi dove ottanta anni prima il futuro cavaliere aveva fatto abbracciare il gerarca fascista con il camerata con la coda, c’era moltissima gente ma i castronovesi brillavano per assenza e, tra i pochi che assistevano, ce n’erano pure alcuni con la faccia ridanciana. Ma intanto le sue Memorie conquistavano nuovi lettori, andavano a ruba tra gli addetti ai lavori, trovavano spazio nelle migliori biblioteche e nelle librerie private di almeno due continenti. Davano il la ad importanti iniziative come la festa e le attestazioni di stima che i castronovesi residenti a Venaria Reale hanno riservato il 15 ottobre 2011 a Peppino Benincasa e alla memoria di quella straordinaria donna che era stata sua moglie, in onore dei quali vollero organizzare un originale spettacolo teatrale (costruito dal regista Scibetta sul filo delle Memorie di Cefalonia) e una commovente recita delle poesie d’amore che il romantico poeta aveva dedicato alla sua bellissima greca. Ma già prima l’opera del Benincasa aveva richiamato alla memoria le gesta di più di un eroe dimenticato. Può testimoniarlo anche chi scrive. Nel libro (p. 48) c’è scritto: “Dal mio compaesano Vincenzo Tirrito, inteso Tuppo, e dal tenente Giuseppe Triolo, durante la mia latitanza da partigiano greco ELLAS, mi raccontarono delle gesta del capitano Antonino Verro di Corleone. Questi era imparentato con Bernardino Verro, tra i fondatori dei Fasci siciliani, sindaco di Corleone, socialista trucidato nel 1915 dalla mafia. Antonino Verro era comandante della I batteria di accompagnamento. Partito da Argostoli per raggiungere Sami con il I battaglione del 317° Reggimento Fanteria Acqui, durante il trasferimento, a causa degli attacchi aerei degli stukas, perdette sia uomini che mezzi. A causa del contrattempo arrivò in ritardo per la battaglia. Il battaglione era già schierato per la battaglia del ponte Kimonico ed aspettava l’artiglieria. Il capitano Neri, subentrato nel comando del battaglione al maggiore Salemi, era ferito, ed essendo il Verro il più alto in grado, prese il comando di tutte le truppe. Il battaglione era già in grosse difficoltà dietro l’incalzare del battaglione tedesco, e allo scoperto per essere colpito dagli stukas. Il capitano, insieme al tenente Giuseppe Triolo, mio comandante di compagnia, dopo capo partigiano, cercarono di riorganizzare il battaglione con una mossa a sorpresa. Nei pressi di Divarata, il Verro, insieme ad alcuni volontari, cadde in una imboscata. Fu fucilato immediatamente e senza processo, nei pressi di un viottolo di montagna. L’ultima notte il capitano Verro l’aveva trascorsa in una bettola del paese di Divarata, ancora oggi esistente e trasformata in un negozio di formaggi locali”. Quando lessi per la prima volta questo passo, telefonai ad un mio amico corleonese per chiedergli cosa ne sapesse dell’eroico suo compaesano. Ma sarà stato per ragioni anagrafiche o forse perché nel paese dei Santi Leoluca e Bernardo la gente ricorda meglio i nomi dei vari Navarra, Liggio, Reina e Provenzano, fatto sta che sprecai il fiato e il costo della telefonata. Poco propenso però come sono ad alzare bandiera bianca, provai a chiedere lumi anche alla signora Rosellina Bentivegna Rizzo e, con mia immensa gioia, appresi che il capitano Verro era sangue del suo stesso sangue, come lei discendente diretto di Stefano Bentivegna, fratello del più noto eroe risorgimentale fucilato a Mezzojuso il 20 dicembre 1856. Né la cosa finì lì. La signora Rizzo informò le due cugine Verro (una delle quali vive in Lombardia) e le mise a contatto con il Benincasa. Il passo successivo fu una visita che la stessa Rizzo e le due cugine fecero a Benincasa a Castronovo, il quale non solo fu lieto di averle sue ospiti gradite, ma colse l’occasione per invitarle a compiere insieme una sorta di “pellegrinaggio” a Cefalonia, fino al ponte Kimonico, muto testimone della barbarie nazi-fascista. Nell’estate successiva il futuro cavaliere si ritrovò puntualmente assieme a Rosy Verro (residente in Lombardia) e alla cugina Rosa Verro Moscato sul ponte della memoria. Rosellina Bentivegna non potè andarci. Ma rimediò il 10 novembre 2011 quando, prendendo spunto proprio dall’opera del Benincasa, per iniziativa di chi scrive l’Istituto Gramsci Siciliano organizzò nella sala di lettura della propria biblioteca un convegno presieduto dal suo presidente prof. Salvatore Nicosia, cui parteciparono, oltre al nostro, altri due reduci dell’eccidio di Cefalonia: l’ingegnere Giorgio Lo Iacono di Piana degli Albanesi e Fortunato Basile di Baucina. Di un terzo sopravvissuto (Salvatore Li Causi, nato pure a Baucina ma residente a Villafrati) c’erano i familiari. Ebbene, in quella memorabile occasione furono presenti, tra molti altri, il console di Grecia Renata Lavagnini, insigni docenti e studiosi di lingua e letteratura greca, antica e moderna, come il prof. Vincenzo Rotolo e Antonella Sorci (autrice di un opuscolo, Mamma torno a casa, che raccoglie le ultime testimonianze al femminile del barbaro eccidio del 1943), il prof. Franco Licata, il prof. Nino Conti (nuovo presidente dell’Associazione Kassar), una numerosa delegazione dell’ANPI di Palermo “Comandante Barbato”, guidata dal segretario Angelo Ficarra e da Giorgio Colajanni, figlio del compianto Pompeo, l’ardimentoso siciliano che nel 1945 liberò Torino dall’occupazione nazi-fascista. Assieme a tutti queste e molte altre personalità, le due cugine Verro e Rosellina Bentivegna. Vale la pena di aggiungere che in quell’occasione si apprese tramite una ricerca del sottoscritto che il capitano Verro era stato insignito della medaglia d’argento alla memoria. Di più, i parenti seppero che Salvatore Li Causi (classe 1921), rimasto a Villafrati per difficoltà motorie, era stato cuciniere del loro eroico congiunto e che, ritornato in Sicilia, un giorno saltò sul glorioso trenino a scartamento ridotto per portare le condoglianze e i più sinceri attestati di stima alla signora Rosalia Bentivegna, madre del glorioso caduto. Ma appena vide la foto del suo capitano, il mio vecchio amico Turiddu Li Causi si commosse fino alle lacrime e non potè più spiccicare una parola. In segno di riconoscenza, prima che finisse il 2011, le due cugine Verro andarono a ringraziare l’anziano reduce di Cefalonia nella sua umile residenza villafratese. Negli stessi giorni l’ANPI di Palermo annunziava solennemente la decisione di dare la tessera onoraria a tutti i reduci di Cefalonia presenti (direttamente o indirettamente) al Convegno del 10 novembre. Ma già prima l’avvocato Giulio Tramontana (originario di Castronovo) aveva avanzato formale richiesta di conferire l’onorificenza di Cavaliere all’Ordine della Repubblica Italiana a Giuseppe Benincasa. Il 27 dicembre il presidente della Repubblica firmava il decreto. Il 2 giugno, festa della Repubblica, nella prestigiosa cornice del trecentesco Palazzo Sclafani, l’umile falegname di Castronovo riceverà l’onorifico attestato. Auguri di cuore, zzu Pippi… pardon cavalier Giuseppe Benincasa! Onore e gloria al grande presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che pochi giorni fa ho visto sfilare commosso per le vie di Corleone in occasione dei funerali di Stato per Placido Rizzotto e il 2 giugno mostrerà ancora una volta la sua faccia pulita e rassicurante nelle principali strade di Roma Capitale! NB: Dopo essere stato insignito della medaglia di cavaliere della Repubblica, Giuseppe Benincasa ha reso testimonianza al processo contro i nazi-fascisti autori della strage di Cefalonia. Oggi, 25 aprile 2015, il vecchio partigiano sarà ricevuto dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando.

giovedì 23 aprile 2015

Dove l’acqua cava la pietra. Giornata della Poesia e delle Resistenze


di Piazza Marineo
Domenica 26 aprile dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19, nella suggestiva cornice dei Bagni Arabi di Cefalà Diana (Palermo), antico hammam nella omonima Riserva Naturale Orientata a 30 km da Palermo, si svolge la manifestazione “Dove l’acqua cava la pietra. Giornata della Poesia e delle Resistenze”.
L’incontro, cui partecipano poeti, attori, artisti, scrittori, nasce dall’intreccio tra i temi della Liberazione, di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario, e le “nuove resistenze” al dominio mafioso, all’abbandono e al degrado del patrimonio naturalistico, storico-artistico e culturale, alla cancellazione della memoria. Organizzano l’iniziativa il Comune di Cefalà Diana, l’Associazione culturale “Nuova Busambra” e il Coordinamento delle Consulte giovanili del territorio.

mercoledì 22 aprile 2015

L’importanza culinaria del grano siciliano perciasacchi o “farru longu”


di Antonino Barcia
Quando si scrive e si pubblica un articolo sui vari blog o su varie riviste, a parte il lavoro dei giornalisti, generalmente lo si fa per informare ed arricchire culturalmente il lettore mettendoci chiaramente la propria firma e, quindi, aprendo un possibile dibattito, anche mediatico, senza fare la guerra a nessuno!
Evidentemente, un articolo contenente alcune parole chiave e pubblicato sui blog informatici, nell’era dei potenti motori di ricerca, lo si può scovare in qualsiasi parte del mondo, e può, in tempo reale, andare a altresì a stimolare anche le “grandi” multinazionali. Vista la taratura storico-scientifica dello scorso articolo pubblicato dallo scrivente: “In Sicilia si afferma sempre di più la coltivazione dei grani antichi” lungi da me, dare delle informazioni “non del tutto precise che rischiano di creare confusione”. Dall’altro lato, la risposta da parte dell’Ufficio stampa della Kamut Enterprises of Europe mi inorgoglisce, perché non capita tutti i giorni, trovare sulla mia casella e-mail e su un normale blog di un paese di quasi 7.000 anime una risposta e maggiori delucidazioni da parte di una multinazionale americana. Premesso ciò, ribadisco che l’intento del precedente articolo è stato quello di sensibilizzare il lettore al consumo di alimenti di sicura provenienza, non modificati geneticamente che possano indurre ad intolleranze alimentari come la celiachia meglio specificati nell’articolo precedente e di “attenzionare” in generale i cibi commerciali “imposti” da alcune multinazionali alimentari. Grazie all’intervento della Kamut Enterprises of Europe, oggi apprendiamo che sono circa 100 le linee di grano khorasan note nel mondo, e fra queste, resiste, grazie al sapiente lavoro di conservazione dei nostri predecessori, anche il “libero” grano Perciasacchi - Khorasan - o “farru longu”. A proposito, per godersi l’importanza culinaria di questo alimento sublime e salubre, vi invito a degustare le “busiate siciliane di grano perciasacchi” che, grazie al coraggioso lavoro di alcuni agricoltori che hanno reintrodotto i grani antichi ed alcuni trasformatori “rivoluzionari”, si cominciano a scorgere anche negli scaffali di alcuni supermercati che presentano l’angolo dei prodotti a marchio “Bio”. In Sicilia, dobbiamo veramente essere grati ad alcuni nostri predecessori che con accortezza hanno pensato in passato di conservare i grani antichi: la straordinaria biodiversità rappresentata dai grani antichi è infatti conservata presso la “Stazione Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia” nei pressi di Caltagirone (CT), e rappresenta oggi un prezioso patrimonio genetico ancora intatto. La stazione Istituita con R.D. n. 2034 del 12/08/1927, ebbe come Direttore anche il Prof. Ugo De Cillis, sino al 1948. L’illustre ricercatore siciliano Prof. De Cillis negli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso, meditò di conservare e catalogare le varietà di grano che oggi chiamiamo antiche. Sono circa cinquanta le varietà di grani antichi siciliani che Egli riuscì ad individuare (Timila, Russello, Realforte, Biancuccia, Bidì, Perciasacchi, Maiorca etc..). Nel suo importante libro: “I Frumenti Siciliani”- 1942-Editore Maimone Catania- sono riportate le classificazioni, le foto storiche di gran parte dei materiali genetici di grano ritrovati allora, nelle varie campagne siciliane. Le varietà di grano antiche sono delle varietà “locali” ed hanno una peculiarità che le distingue da tutte le altre risorse genetiche: oltre a caratterizzare un luogo, sono legate ad un agricoltore che le ha custodite nel tempo, di generazione in generazione. Si tratta, quindi, di un prezioso patrimonio non solo genetico, ma anche storico, culturale e sociale, che deve essere individuato, valutato e conservato. Questo lavoro è stato già avviato dal prof. Ugo De Cillis e conservato presso la Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia. Stà a noi ed alle future generazioni quello di valorizzare tale importante patrimonio, attraverso interventi opportunamente pianificati e coordinati per rafforzare la nostra preziosa dieta mediterranea, riprodotta ormai in tutto il mondo, talvolta, anche con parecchia superficialità.

martedì 21 aprile 2015

Marineo, al via l'organizzazione della Dimostranza di San Ciro - edizione 2015


di Piazza Marineo
La Confraternita di San Ciro comunica che sono aperte le adesioni per partecipare all'edizione 2015 della Dimostranza.
A 350 anni dall'assegnazione della reliquia di San Ciro alla comunità parrocchiale di Marineo, avvenuta con decreto pontificio del 20 aprile 1665, la Confraternita intende così ricordare in maniera solenne tale evento, prevedendo la sacra rappresentazione della vita e martirio del santo patrono. La manifestazione si svolgerà sabato 22 agosto 2015. Per le preiscrizioni è possibile inviare una e-mail all'indirizzo congregazionesanciro@libero.it. Questo scriveva, alla fine dell’Ottocento, Giuseppe Pitré a proposito della manifestazione di Marineo: «Che cosa sia una Dimostranza può facilmente conoscere chi si dia la piccola fatica di scorrere una pagina sulla drammatica sacra in Sicilia. Dirò nondimeno che essa è una rappresentazione allegorica di un numero indeterminato, ma sempre grande, di personaggi, nella quale viene svolta la vita tutta, o qualche episodio di essa, d’un santo o di una santa. La Dimostranza di Marineo, nota anche nell’antica capitale dell’isola, è certamente uno dei migliori avanzi degli antichi spettacoli del genere».

lunedì 20 aprile 2015

San Ciro: in Chiesa Madre la storia a fumetti del santo patrono di Marineo


di Piazza Marineo
Lunedì 20 aprile (ore 10), nella Chiesa Madre di Marineo, presentazione e distribuzione del libro “San Ciro. Storia a fumetti del santo patrono di Marineo” agli alunni della scuola primaria.
Si tratta della ristampa del volume realizzato nel 1987 da Antonio Calabrese (disegni) e Nino Di Sclafani (testi). I due autori hanno narrato la vita e il martirio del santo medico alessandrino utilizzando il linguaggio moderno dei fumetti, particolarmente indicato per parlare alle giovani generazioni. Il protagonista del libro è, infatti, un giovane che parla ai giovani. Così, più che raccontare la vita di un medico destinato a diventare santo, gli autori si sono concentrati a delinearne l'identità di cristiano che, attraverso le sue opere quotidiane, realizza il messaggio di amore di Cristo. Nella storia di San Ciro è, infatti, sempre presente la continua ricerca del bene: nell'adolescenza vissuta in una famiglia cristiana, nella professione di medico, nelle scelte drammatiche che lo hanno portato al martirio. Ed oggi nel dialogo costante che continua a mantenere con i suoi devoti.

sabato 18 aprile 2015

"Lo sbarco", il tema dell'immigrazione in una mostra del liceo artistico


di Piazza Marineo
Gli alunni del liceo artistico "V. Ragusa O. Kiyohara" di Palermo hanno tradotto in una mostra dal titolo "Lo sbarco" il tema dell'immigrazione.
Le loro opere d'arte saranno il modo di esprimere la solidarietà nei confronti dei popoli africani contribuendo alla realizzazione di un asilo nel villaggio di Elinkine in Senegal. L'iniziativa promossa dall'Associazione “Arcobaleno di popoli” con il liceo artistico di Palermo intende avvicinare i siciliani ai migranti presenti nel territorio, per farli incontrare e conoscere promuovendo attività interculturali. Dietro agli sbarchi ci sono, infatti, problematiche complesse legate alla negazione dei diritti fondamentali dell'uomo, allo sfruttamento economico ed alla proficua vendita di armi. La mostra "Lo sbarco" è una iniziativa di formazione interculturale e di solidarietà. È aperta dal 20 al 22 aprile, dalle ore 16 alle 20 presso la Chiesa di S. Maria dei Miracoli, in Piazza Marina, a Palermo. (Nella foto il docente Mario Di Sclafani).

venerdì 17 aprile 2015

Importanti riconoscimenti per la poetessa marinese Laura La Sala


di Piazza Marineo
Nuovi ed importanti riconoscimenti per Laura La Sala, che si è aggiudicata anche la pubblicazione di due raccolte di poesie. Così, la poetessa di Marineo continuerà a viaggiare in lungo e largo attraverso la nostra bella Italia.
Dopo aver ricevuto il prestigioso Premio Martoglio 2014, adesso avrà diritto alla pubblicazione una silloge di trenta poesie dal titolo "Nun mi chiamari fimmina". Inoltre, ha ricevuto una menzione speciale nella città di Sanremo, con diritto di pubblicazione di venti poesie, il cui titolo sarà "La me Isula".  La Sala ritirerà, a breve, anche il primo premio assoluto "Giovanni Meli" dell'Accademia nazionale di lettere, arte e scienze "Ruggero II di Sicilia”. Altro prestigioso premio ricevuto di recente da Laura La Sala è stato quello del concorso nazionale "Melania Rea", che ha visto la presenza della trasmissione "Quarto Grado" di Rete 4 Mediaset (nella foto).

giovedì 16 aprile 2015

La battaglia del grano. Barcia: "Gli agricoltori siciliani seminano nostrano"


di Antonino Barcia
Ringrazio la Kamut Enterprises of Europe delle precisazioni e delle maggiori informazioni che ci ha inviato in riguardo al grano a marchio Kamut. 
Apprezzo il lavoro portato avanti dalla famiglia Quinn negli anni, ma molti agricoltori siciliani sono orientati però verso la reintroduzione del "nostrano" e "libero" grano Perciasacchi che i nostri nonni con molta sapienza e lungimiranza ci hanno fortunatamente consegnato.

La battaglia del grano. Kamut: "Fare chiarezza su origine e caratteristiche"


di Kamut Enterprises of Europe
Alcune precisazioni a cura della Kamut Enterprises of Europe in merito ai contenuti dell’articolo “In Sicilia si afferma sempre di più la coltivazione dei grani antichi”. 
Nell’articolo citato vengono riportate delle informazioni non del tutto precise che rischiano di creare confusione nel lettore su ciò che riguarda il grano khorasan KAMUT® e che quindi desideriamo qui precisare con l’obiettivo di fare chiarezza sull’origine di questo cereale, spiegare le caratteristiche distintive del grano khorasan a marchio KAMUT® ed evitare il proliferare di informazioni errate. Il termine KAMUT® non è il nome commerciale del grano khorasan né è una sottocategoria di quest’ultimo. KAMUT® è un marchio registrato per distinguere una specifica varietà di grano khorasan con determinate caratteristiche. Pertanto non è corretto parlare semplicemente di KAMUT®: la dicitura corretta dovrebbe sempre essere grano khorasan a marchio KAMUT®. La ragione per cui la famiglia Quinn ha deciso di depositare il marchio KAMUT® sta nella volontà di garantire determinate caratteristiche di una qualità di grano khorasan che viene commercializzata in tutto il mondo. Non ci sono motivazioni legate alla volontà di monopolizzare una determinata produzione, ma al desiderio di proteggere e preservare le qualità eccezionali dell’antico grano khorasan, a beneficio di tutti coloro che cercano un alimento sano e di alta qualità. Solo attraverso l’uso di un marchio registrato si può garantire ai clienti che i prodotti a base di grano khorasan KAMUT® contengono la pura e antica varietà di grano khorasan, non geneticamente modificato, coltivato secondo il metodo dell’agricoltura biologica e con elevati standard di qualità. Non reclamiamo alcuna proprietà su nessuna delle circa cento linee di grano khorasan oggi note. Chiunque è libero di coltivare qualunque grano antico e venderlo se lo desidera, ma noi controlliamo l’uso del marchio KAMUT® e che il marchio sia usato seguendo il disciplinare che abbiamo messo a punto, e cioè: È grano dell’antica varietà chiamata khorasan; Deve essere coltivato rigorosamente secondo il metodo dell’agricoltura certificata biologica; Contiene un range di proteine fra il 12 e il 18%; È puro al 99% da contaminazioni con varietà di grano moderne; È al 98% privo di segni di malattia; Contiene tra i 400 e 1000 ppb di selenio; Non può essere utilizzato in prodotti il cui nome sia ingannevole o fuorviante sulla percentuale di esso contenuta; Non deve essere mescolato a grano moderno nella pasta. Al momento tali caratteristiche si possono rilevare solo nel grano khorasan biologico coltivato dal consorzio di agricoltori biologici aderenti al programma KAMUT® nelle zone del Montana (USA), dell’Alberta e del Saskatchewan (Canada). Nonostante i numerosi tentativi fatti dall’azienda per cercare di identificare un terreno di coltivazione di questo grano anche in Europa, inclusa l’Italia, ad oggi nessuno dei test effettuati ha dato esito positivo di corrispondenza costante con i nostri standard qualitativi, come ci richiedono i nostri consumatori. Per quanto riguarda il tema del “monopolio” le precisiamo quanto segue: la filosofia del progetto KAMUT® è sempre stata quella di mantenere i prezzi stabili (per almeno un anno), distaccati dai normali cicli dei prezzi delle materie prime. Gli inevitabili costi di trasporto non incidono in maggior misura e non è pertanto corretto affermare che vi siano anche incidenze legate ad aspetti commerciali o a “regimi di monopolio” che non sussistono. Restiamo a disposizione per fornirle tutti i chiarimenti, approfondimenti e dettagli che possano supportarla nell’elaborazione di eventuali futuri articoli sul grano khorasan KAMUT® e che possano facilitare il lettore a comprendere, senza fraintendimenti di alcun tipo, le caratteristiche e qualità di un prodotto sempre più diffuso sulle nostre tavole.

lunedì 13 aprile 2015

Intitolata una via a Vincenza Benanti, lavoratrice della Triangle Shirtwaist


di Nuccio Benanti
Sabato 11 aprile il Comune di Marineo ha intitolato il nome di una via (in zona Gorgaccio) a Vincenza Benanti, giovane marinese vittima del lavoro il 25 marzo 1911. Nel corso della giornata è stato presentato anche il libro di Ester Rizzo che ricostruisce le dinamiche di quel tragico evento: “Camicette bianche. Oltre l’8 marzo” (Navarra editore).
Nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company di New York persero la vita 146 lavoratori e lavoratrici. In realtà, ben 126 erano donne, in maggioranza ragazze di un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. E fra esse 38 erano di nazionalità italiana, di cui 24 partite dalla Sicilia. Vincenza Benanti, figlia di Girolamo, era nata a Marineo il 18 febbraio 1888. Era emigrata nel 1905 ed aveva trovato residenza, assieme alla madre, Francesca Lo Pinto, a New York, al 17 Marlon Street. Come la maggioranza delle sue giovanissime colleghe di lavoro, cuciva camicette per 7 dollari a settimana, costretta a turni di lavoro massacranti di 12, ed anche 14 ore al giorno, con straordinari sottopagati e controlli rigidissimi. Solo dopo l’incendio è stato scoperto che i proprietari della fabbrica tenevano le porte con i lucchetti chiusi a chiave per poter controllare, a fine turno di lavoro, le borse delle oltre 500 lavoratrici. Anche per questo motivo molte donne sono state ritrovate carbonizzate, morte bruciate, soffocate o calpestate mentre cercavano di aprirsi una via di fuga dentro l’edificio in fiamme. Alcune di loro, tra cui Vincenza Benanti, hanno addirittura scelto di saltare dalle finestre del palazzo, nell’estremo tentativo di sottrarsi alla morsa del fuoco. Su Vincenza i medici legali hanno, infatti, riscontrato una tipologia di ferite compatibili con da caduta dal nono piano, dove prestava servizio. Il certificato di morte comunque indica, genericamente, come causa di morte l'asfissia. Quel sabato pomeriggio Vincenza era, dunque, seduta davanti alla sua macchina per cucire. Quando è scoppiato l’incendio mancavano pochi minuti alla fine del turno settimanale di lavoro. Le cause non sono state mai scoperte. Ma in pochi istanti il fuoco avvolse i mucchi di stoffa e camicette già confezionate di ben tre piani dell’edificio: l’ottavo, il nono e il decimo. Il giornale New York Times riferì che in pochi attimi «fu l'inferno». Molte porte rimasero con i lucchetti chiusi perché, nel frattempo, alla vista delle fiamme i capisquadra impiegati al controllo si erano messi in salvo. I giornali riferirono che la scala antincendio si spezzò subito a causa dell’eccessivo peso delle persone che vi transitarono sopra. E poi bruciò anche la struttura che reggeva l'ascensore, che precipitò al piano terra con il suo carico umano. Fu allora che molte ragazze, strette dalla morsa del caldo e del fumo, si affacciarono alle finestre per respirare. Ma quando le lingue di fuoco le raggiunsero cominciarono a lanciarsi per non bruciare vive. Furono scene strazianti, con i soccorritori impotenti. Scene che i giornali americani descrissero nei minimi dettagli: una donna baciò un uomo che aveva accanto e poi si lasciarono andare nel vuoto; due sorelle precipitarono tenendosi per la mano; una giovane donna si lasciò cadere e sembrava una torcia umana. Una «macabra grandinata», scrisse un reporter. Vincenza Benanti anche lei – molto probabilmente - si lanciò, forse nella speranza di aggrapparsi all’edificio accanto o nel tentativo di raggiungere la rete dei pompieri. Ma terminò anche lei la sua giovane vita sul marciapiede sottostante. Molte ragazze furono identificate nei giorni seguenti da un anello, da un pezzo di vestito o da una scarpa. Vincenza venne identificata, qualche giorno dopo, dal fratello Fedele. Una sua cugina, Tessa Benanti, di soli 16 anni, figura nella lista dei sopravvissuti. La madre di Vincenza, Francesca Lo Pinto, già malata di cancro, morì poco tempo dopo e fu sepolta assieme alla figlia. L’iscrizione lapide recita: “Dato il dolore di sua figlia, la madre ha cessato di vivere”. I proprietari della fabbrica uscirono assolti dal processo, mentre le assicurazioni risarcirono le famiglie con pochi dollari. Nei mesi seguenti furono istituite delle commissioni per indagare sulle condizioni di vita nelle fabbriche, e furono apportate importanti modifiche al diritto del lavoro dei lavoratori e delle lavoratrici dello Stato di New York. Per questo motivo, ed anche per un equivoco storico, questo incidente viene spesso ricordato come l'atto di origine della festa della donna dell'8 marzo.

giovedì 9 aprile 2015

Presentazione libro a Bolognetta: Il grano, l’ulivo e l’ogliastro


di Piazza Marineo
Si presenta domenica 12 aprile alle ore 17.30 a Bolognetta, presso il Centro intergenerazionale di via Vittorio Emanuele n. 108, il volume “Il grano, l’ulivo e l’ogliastro. Bolognetta-Santa Maria dell’Ogliastro, 1570-1960” di Santo Lombino, editore Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici - Palermo.
Interverranno: Antonino Tutone, sindaco di Bolognetta; Maria Grazia Guttilla, bibliotecaria; Rita Cedrini, antropologa; Ferdinando Maurici, archeologo e storico; Leoluca Orlando, sindaco di Palermo; Tommaso Romano, scrittore e poeta. Coordina i lavori Umberto Balistreri. Sarà presente l’autore. La manifestazione è organizzata dal Comune di Bolognetta, dalla Biblioteca civica “Tommaso Bordonaro” con la collaborazione dell’associazione culturale “Nuova Busambra”.

mercoledì 8 aprile 2015

Intitolazione via e presentazione libro per ricordare Vincenza Benanti


di Piazza Marineo
Accogliendo una richiesta del Gruppo Toponomastica Femminile e dell'Editore Navarra, sabato 11 aprile il Comune di Marineo intitolerà il nome di una via (in zona Gorgaccio) a Vincenza Benanti, giovane marinese vittima del lavoro il 25 marzo 1911. Prevista anche la presentazione del libro di Ester Rizzo “Camicette bianche. Oltre l’8 marzo”. 
L’iniziativa per ridare dignità alle 126 donne, vittime dell’incendio della fabbrica di camicie a New York il 25 marzo 1911, arriva a fattivo compimento dopo l’approvazione da parte della Prefettura di Palermo della delibera della giunta comunale n. 38 del 4 giugno del 2014, con cui si è provveduto a intitolare una via del centro abitato a Vincenza Benanti, nata a Marineo il 18 febbraio 1888. La giovane donna si lanciò nel vuoto sperando di aggrapparsi nell’edificio accanto a quello in fiamme, ma rimase impigliata precipitando sull’asfalto sottostante. Nella fattispecie, come ha messo in evidenza Ester Rizzo, nel suo recente ed attualissimo libro, il processo cui furono sottoposti i proprietari della fabbrica si concluse senza rendere giustizia né alle vittime né alle loro famiglie. È giusto ricordare questa figura di donna da annoverare fra i martiri del lavoro, in quanto nessuna garanzia assicurativa e tutela era stata prevista per le operaie della Camiceria Triangle che prestavano la loro opera di 60 ore settimanali con turni massacranti.  Non a caso l’incendio di New York è uno degli eventi commemorati ogni anno nel corso della giornata internazionale della donna. In tal senso, in attuazione dello Statuto comunale, è importante che ad imperitura memoria si ricordi la giovane donna emigrata, partita da Marineo nel 1906, che ha onorato ed onora il nome della nostra cittadina nel mondo, attraverso l’intitolazione di una via che possa recuperarne il ricordo  nel luogo che l’ha vista nascere ed in cui ha trascorso la sua giovinezza, valorizzando altresì la dignità lavorativa di questa donna. La cerimonia d’intitolazione, che è stata prevista per sabato 11 aprile 2015, si svolgerà secondo il seguente programma: Ore 17.00: cerimonia ufficiale d’intitolazione della via, sita in zona Gorgaccio, alla memoria di Vincenza Benanti da parte delle autorità civili, religiose e militari, con scoprimento della targa toponomastica. Ore 18.00: Castello Beccadelli Marineo – Presentazione del libro di Ester Rizzo “Camicette Bianche” – Navarra Editore. Interverranno: l’autrice del volume, Ester Rizzo, il Sindaco di Marineo Pietro Barbaccia, la Sovrintendente ai Beni Culturali Maria Elena Volpes, l’editore Ottavio Navarra, la poetessa Antonietta Zuccaro, con la testimonianza di Salvatore Cirone, nipote diretto di una delle donne vittime del rogo della Camiceria Triangle.

martedì 7 aprile 2015

In Sicilia si afferma sempre di più la coltivazione dei grani antichi


di Antonino Barcia
Negli ultimi anni si è assistito ad un preoccupante aumento delle intolleranze alimentari causate da molecole contenute negli alimenti in quantità eccessive come ad esempio il glutine (principale proteina del grano) responsabile della celiachia, definita molto genericamente come: “malassorbimento intestinale” della proteina del grano. 
Una recente indagine condotta da 15 Centri della Società Italiana di Gastroenterologia ed Epatologia Pediatrica su circa 18.000 studenti delle scuole medie inferiori ha dimostrato la presenza di celiachia, pari a 1 caso su 150. A questo punto nasce un interrogativo: “come mai in pochi decenni si è passati da un’incidenza di 1 a migliaia, ad un’incidenza di 1 a 150, tanto da far sospettare un incremento ancora maggiore (1 a 100) nell’imminente futuro?”. Di fronte a questa situazione, (oltre alle altre possibili cause scatenanti, attualmente in fase di studio), alcuni ricercatori stanno estendendo le loro osservazioni anche alle moderne varietà di grano (monitorando quindi il consumo attuale di pane e pasta), dal momento che da millenni fino a circa 40 anni fa circa, si sono normalmente consumati i grani antichi (e i loro sottoprodotti) come alimento base, con incidenze della famosa intolleranza al glutine molto basse! Per capire meglio tale fenomeno, bisogna fare un’attenta analisi storica della granicoltura siciliana e distinguere due periodi: il primo periodo va dalla comparsa dell’agricoltura fino al 1950 circa e l’altro, molto più breve dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. In Sicilia, si hanno notizie indirette delle coltivazioni di grano da reperti archeologici datati 7.300-6.500 A.C, dove sono stati trovati paglia e chicchi di grano carbonizzati. L’isola divenne un vero e proprio granaio prima con i Greci e poi con l’Impero Romano. Tra il VIII e il XIII secolo si ebbe un notevole incremento della granicoltura. La coltura del grano tornò ad avere importanza a partire dalla metà del quattrocento, allorché la popolazione cominciò a ricrescere vertiginosamente. Essa vide poi una particolare fioritura tra la fine del 1700 e gli inizi del 1900. Fino al 1900 circa, i grani antichi rappresentarono il patrimonio genetico appartenente alla biodiversità mediterranea e frutto della selezione fatta dai contadini, praticamente, dalla nascita dell’agricoltura. Fra i grani antichi siciliani si ricordano la varietà Tumminìa o Timilìa: antico grano duro a ciclo breve ampiamente diffuso in Sicilia dove si hanno notizie risalenti addirittura all’assedio di Lentini (guerra dei 90 anni, 1282-1372), si legge infatti: …“Erasi in quell’epoca e per quella guerra venne introdotta la coltivazione del grano marzuolo, che allora diceasi Diminia perché, venendo in maturità in minor tempo degli altri frumenti, credeano gli agricoltori di correre meno pericolo. Pure ciò nulla giovò a’ Lentinesi nell’aprile del 1359” […]- Palermo, 1883 - Niccolò Palmeri, Carlo Somma – Opere edite et inedite - Pagina 802, Stabilimento Tipografico P. Pensante - . Venne coltivato ampiamente anche nelle nostre campagne di Marineo fino agli anni’70-80 del secolo scorso. Generalmente veniva seminato dai nostri nonni nel mese di marzo nelle annate molto piovose che non consentivano a novembre-dicembre le regolari semine di altri grani a ciclo più lungo. Di questo cereale se ne conoscono due sottospecie: Timilia a reste nere (Triticum durum Desf. var. reichenbachii Koern) e Timilia a reste bianche (Triticum durum Desf. var. affine Koern). La sua semola presenta un glutine meno forte rispetto alle varietà moderne. È ideale sia per la pastificazione ma soprattutto per la panificazione, oggi rivalutato nell’areale di Castelvetrano, dove un suo sottoprodotto il “pane nero di Castelvetrano” rappresenta un’importante presidio Slow Food. Fra i grani antichi a ciclo più lungo si annovera il grano Russello (Triticum durum Desf. var. hordeiforme Koern) secondo alcuni studiosi tra i quali il Prof. Ugo De Cillis (I frumenti siciliani-Pubblicazione n. 9- 1942) è stata una delle popolazioni di grano maggiormente coltivate in Sicilia (a Marineo era conosciuto con il nome di Ruscia, Gianti, o Gianti Russu) chiamato così proprio per l'altezza della spiga che in certe annate superava anche il metro e mezzo, con la granella più grande circa due volte rispetto ad un grano moderno. La cariosside (chicco) presenta un più basso contenuto in glutine fino al 30-40 % in meno rispetto alle moderne varietà canadesi. Dalle semole di questo splendido cereale venivano prodotti pane e pasta di ottima qualità e salubrità. La sua coltivazione venne sempre più accantonata, in quanto, l’altezza delle spighe, in certe annate ricche di vento e pioggia, rappresentava un fattore limitante: la pianta infatti si “allettava” (si adagiava sul terreno) rendendo difficoltosa la raccolta. Da ricordare fra i grani antichi anche le varietà Realforte (Triticum durum Desf. var. melanopus Koern) coltivato nell’areale dei monti Sicani anch’esso per ottimi usi panificatori e il grano Biancuccia (Triticum durum Desf. var. leucomelan Koern) dalla cui granella si ottiene una semola che conferisce un forte aroma al pane. Un discorso a parte merita l’antico grano siciliano Perciasacchi, chiamato così per la forma appuntita del chicco che bucava appunto i sacchi di juta, detto anche “Farro lungo siciliano” (ma non si tratta di un farro), che veniva coltivato invece in maniera più ampia nell’areale dell’ennese e del catanese. Secondo alcune ipotesi, l’antico grano siciliano perciasacchi avrebbe un’affinità genetica e quindi risulterebbe un parente stretto del tanto pubblicizzato “Kamut” (il Kamut non è il nome di un grano, ma di un marchio commerciale posto su una antica varietà di frumento che una società ha registrato negli Stati Uniti, coltivato e venduto in regime di monopolio in tutto il mondo). Si tratterebbe in realtà del frumento iraniano Khorasan – (Triticum turgidum subsp. turanicum) che presenta un fusto alto fino a 1,80 m, chiamato anche il “grano del faraone” perché si racconta che i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla metà del secolo scorso da un aviatore americano nel 1949 in una tomba egizia ed esportati nel Montana (USA), dove dopo migliaia di anni sono stati “risvegliati” e moltiplicati. Oggi è vietata l’autoproduzione del seme Kamut, tanto vale reintrodurre il “nostrano” grano Perciasacchi, libero da royalties! Per la produzione di farine per dolci e torte varie, i nostri agricoltori nei millenni avevano anche selezionato un’importante popolazione di grano tenero siciliano ossia il Maiorca (Triticum vulgare Host. var. albidum Koern), e il “Maiorcone”(Triticum vulgare Host. var.erythrospermum Koern), che venivano coltivati nelle pianure sino nella bassa collina siciliana al riparo dai forti venti, dalle cui pregiata semola si ottenevano ottimi dolci e prodotti da forno ( alcuni studiosi sostengono che la scorza del cannolo siciliano sia nata appunto con questa farina). Oggi la farina di Maiorca è stata sostituta dalle moderna e “pericolosa” farina tipo “00” (definita proprio un veleno da alcuni oncologi come il Prof. Berrino -Milano). In Italia, con un pioniere della genetica agraria, il marchigiano Nazareno Strampelli (1866-1942), si cominciarono a migliorare i grani antichi. Egli selezionò sul campo le piante migliori e compì veri e propri incroci tra varietà diverse. Dopo 30 anni di sperimentazioni, nel 1915 venne iscritta dallo stesso Strampelli la varietà “Senatore Cappelli” celebre cultivar dalla spiga a reste nere e svettante. Venne a lungo coltivato anche in Sicilia, (nelle nostre campagne marinesi era conosciuto con il nome Bidi’o Birì ). Intanto, negli anni che seguirono il secondo dopoguerra arriviamo alla cosiddetta “Rivoluzione verde”: si preferivano man mano grani a taglia sempre più bassa facilmente meccanizzabili nella raccolta e più produttivi. Di questi grani derivanti da una prima “correzione” della taglia ricordiamo il grano Capeiti e i “discendenti” siciliani del grano Cappelli: Hymera e Trinakria (costituiti dal Prof. Ballatore dell’Istituto di Agronomia dell’Univ. di Palermo). Dopo varie sperimentazioni, nel 1974 il “povero” grano Senatore Cappelli venne però sottoposto in un laboratorio dell’Enea a irradiazioni con raggi gamma del cobalto radioattivo e incrociato con una varietà a sua volta originata da un parentale messicano, dando vita al grano duro var. Creso. Si trattò di un frumento originato per mutagenesi indotta, geneticamente «nanizzato» e pertanto data la sua struttura resistente non si “adagiava più sul terreno”. Il Creso ebbe un grande successo fino agli anni’90 del secolo scorso e rappresenta in un certo senso il capostipite di molti grani attuali. Negli stessi anni in cui nacque il grano Creso, cominciò a svilupparsi altresì l’industria chimica: con la concimazione chimica il grano creso allora, ed oggi le varietà moderne, vengono forzate a produrre anche il doppio, il triplo rispetto ai grani antichi, perché tanto, essendo a taglia più bassa, non si “adagiano” più sul terreno. Il grano Creso attualmente risulta essere uno degli imputati fra le cause dell’intolleranza al glutine: viene ipotizzato infatti che: “alla modifica indotta del cereale in questione sia correlato il cambiamento della sua proteina, e in particolare di una frazione del glutine (gliadina), responsabile del malassorbimento degli alimenti e, conseguentemente, della comparsa di celiachia nell’individuo”.  Con la farina del grano canadese “manitoba” si arriva addirittura al 16-17% di solo glutine, con inevitabili ripercussioni sul nostro intestino che, come sottolineano alcuni esperti gastroenterologi: “non si è adeguato di pari passo con la modificazione genetica del grano” . Considerato che la ricerca sulle cause della celiachia è ancora aperta, non possiamo concludere con certezza se esista o meno una causa (il grano Creso o altri grani moderni) che ha provocato e che continui a provocare un aumento dei casi di intolleranza. Oggi, purtroppo, dobbiamo assistere comunque a questa realtà: viene imposto dalle multinazionali un cibo commerciale che, talvolta, non è adatto alla digestione e, il mancato assorbimento intestinale causa patologie degenerative e funzionali sul sistema gastro-intestinale dei consumatori. L’eccesso delle proteine e degli amidi nei grani moderni influisce altresì sull’indice glicemico, favorisce l’ingrassamento, il sovrappeso e le patologie come il diabete. In Sicilia però qualche imprenditore agricolo ha deciso di cambiare rotta, abbandonando le moderne tecniche di coltivazione delle “sospette” varietà moderne di grano e rimettendo a coltura invece le varietà antiche (Timila, Russello, Realforte,Biancuccia, Bidì, Perciasacchi, Maiorca etc..) essendo consapevoli che tali varietà di grano offrono nei loro sottoprodotti (farine, semole..) maggiori quantità di fibre e minerali e minor quantità di glutine. Contengono inoltre più vitamine e sostanze antiossidanti risultando quindi importanti per prevenire le intolleranze come la celiachia oltre che le malattie cardiovascolari, i tumori, l’obesità e il diabete. Inoltre, la loro coltivazione si sposa bene con i metodi dell’agricoltura biologica in quanto, essendo varietà antiche, si adattano molto bene nei nostri ambienti, hanno un’elevata abilità competitiva e non fanno sviluppare in maniera eccessiva le erbe infestati (e quindi si evitano eccessive spese per il diserbo chimico), hanno bisogno di poche concimazioni (e quindi si evita l’uso eccessivo di concimi ). Non ultimo, il prezzo di vendita del grano viene deciso localmente (attraverso i contratti di coltivazione stipulati con alcuni mulini tradizionali in pietra presenti anche un Sicilia), anziché imposto dalla borsa mondiale del grano presso Chicago, a settemila chilometri di distanza! Per concludere, volendo citare uno degli obiettivi fondamentali della prossima fiera mondiale Expò 2015: “Assicurare un’alimentazione sana e di qualità a tutti gli esseri umani”, confermerebbe che le future generazioni dipendano molto dalla riscoperta delle nostre antiche e genuine radici… prima che sia troppo tardi.

domenica 5 aprile 2015

Il linguaggio del cibo: la Pasqua e l'agnello rigeneratore della vita


di Nuccio Benanti
Il giorno di Pasqua si presenta con specifici segnali di abbondanza e di fertilità. Abbiamo visto sull'altare quel chicco di grano germogliato e destinato dal principio al sacrificio per produrre molto frutto. 
Il cibo è sempre stato importante nella vita degli uomini, tanto che ha avuto un ruolo fondamentale soprattutto nelle religioni: a partire dall'antico sacrificio vedico indiano, poi in Grecia, fino a giungere ai banchetti romani. Nel Nuovo Testamento sono diversi i momenti in cui l'insegnamento di Gesù si collega alla consumazione comunitaria del cibo: L'ultima cena e La cena di Emmaus sono due di questi. Dunque, dietro ai sapori e agli odori della cucina si nascondono tantissimi significati, una trama fitta di simboli e linguaggi. Il convivio di Pasqua rimanda, etimologicamente, a vivere insieme. Mangiare insieme ad altri uomini è un modo per trasformare un gesto individuale, nutritivo, naturale, in un fatto collettivo, simbolico, culturale. Quello che si fa assieme agli altri, come dimostra la religione, assume un significato sociale, un valore di comunicazione forte e complesso. In queste ore, le pasticcerie sono impegnate nella preparazione di una grande varietà di dolci: colombe, uova di cioccolata, cassate... Sono quasi scomparsi i tradizionali "pupa cu l'ova", mentre molte famiglie preparano in casa le pecorelle di pasta reale addobbate e colorate, che ci ricordano le prescelte vittime sacrificali del Vecchio Testamento. Nel computo dei preparativi pasquali non dobbiamo, inoltre, dimenticare il lavoro frenetico delle macellerie. Ormai sacrificato, cucinato, condito e servito a tavola, l'agnello sarà per i commensali saporito cibo, piatto pasquale, alimento rigeneratore della vita e dell'ordine familiare, sociale e cosmico.

sabato 4 aprile 2015

Il sabato è il giorno del passaggio stagionale e della rinascita di Cristo


di Nuccio Benanti
Nella giornata di sabato l’animo dei devoti comincia a rigenerarsi: “Lu Sabatu è jurnata d'alligria, nni stamu tutti cu la vucca risa” (Il sabato è giornata di allegria, ci stiamo tutti con la bocca sorridente).
La Pasqua cristiana viene celebrata la domenica seguente il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. I fedeli si preparano, quindi, a vivere il passaggio stagionale e a fare memoria del mistero stesso della vita nella rinascita di Cristo. Alla morte, al cordoglio, alla penitenza si contrappone adesso la vita, la gioia, le manifestazioni di festa e lo scambio di auguri che hanno inizio la sera di sabato, ma che prima della riforma liturgica attuata dal Concilio Vaticano II prendevano il via a mezzogiorno. Mentre in chiesa le campane annunciavano la Resurrezione, altri suoni venivano provocati nelle case, questi ultimi accompagnati da formule per scacciare il diavolo e tenere finalmente lontane le negatività. Come abbiamo visto con i pastori, anche fuori paese venivano compiuti gesti per riaffermare l’ordine naturale e cosmico. All'indomani della Pasqua gli agricoltori riprendevano il proprio "lavureddu" e lo portavano in campagna per metterlo a dimora in mezzo al "lavuri" per propiziare la buona crescita del frumento. In tempi non molto lontani, ad annunciare la resurrezione di Cristo in chiesa Madre era la caduta di un telo che copriva la Scala Illuminata. Dal modo in cui avveniva la "caduta di la tila" gli anziani facevano dei presagi sull'annata agraria in corso. Ancora oggi, nelle poche famiglie che osservano le tradizioni, si preparano “i pupa cu l'ova”, biscotti a base di farina, uova e strutto, che contengono all’interno delle uova sode. Anche questo, assieme al dono dell'uovo di cioccolata o della colomba, è un gesto propiziatorio. Il Sabato Santo bisogna essere sorridenti perché questo è, nel contempo, il giorno della rigenerazione della natura, dopo il lungo sonno invernale, e della prodigiosa resurrezione di Gesù Cristo, rigeneratore dell'umanità.

venerdì 3 aprile 2015

Dopo una lunga notte di veglia e di cammino, la processione del Venerdì


di Nuccio Benanti
“Di Venniri murì Nostru Signuri, supra na cruci avuta e pinnenti. Tri chiova foru li stremi dulura. E na cruna di spini assai puncenti.” (Di Venerdì è morto Nostro Signore, sopra una croce alta e pendente. Tre chiodi sono stati gli estremi dolori, e una corona di spine molto pungenti).
Dopo una lunga notte di veglia, di cammino fisico e spirituale, di viaggio temporale e sentimentale, il venerdì è il giorno del silenzio e del digiuno. Interrotto soltanto dai suonatori di “troccula”, che fanno il giro del paese per segnare il tempo ad intervalli regolari. Adesso, anche il territorio urbano è uno spazio sacro. Alcuni anziani riferiscono che in passato i contadini non andavano a lavorare, mentre i pastori scioglievano le campane dal collo delle pecore. All’interno delle case venivano addirittura coperti gli specchi in segno di lutto: cosi, in questo giorno funesto, gli uomini non si radevano e le donne non si pettinavano. In chiesa facevano la loro comparsa i drappi viola, che coprivano le finestre e gli altari dei santi. Ancora oggi il rito della Passione culmina con la processione del Venerdì Santo. In tale contesto, quanta commozione suscita un rito che è silenzioso e assordante al tempo stesso, lieto e doloroso, intimo e comunitario nella preghiera e nel cordoglio. Le “vare” dell’Addolorata e del Cristo morto deposto nell’urna, seguiti dal “Sepolcro”, procedono solenni tra i ceri accesi: il mesto suono delle tabelle adesso fa spazio all'acuto suono della tromba, che si alterna col basso rullio della grancassa. "E a sippillirlu ja cu pocu accumpagnatu, seportu l'ha lassatu a lu so Beni" (E a seppellirlo andava con poca compagnia, sepolto l’ha lasciato il suo Bene). In estrema sintesi, quella del Venerdì è la prosecuzione di una lunga notte, iniziata il Giovedì con i canti della Passione, in cui la comunità si raccoglie, veglia e si da conforto: sa che occorre affrontare la Morte per poter sopravvivere alla morte.

giovedì 2 aprile 2015

I Canti dei giovani di Marineo nella notte della Passione del Signore


di Nuccio Benanti
La notte del giovedì Santo, subito dopo le funzioni religiose in chiesa, a Marineo è possibile assistere ad un'antichissima tradizione locale che vede protagonisti i cantori marinesi e che ha per scenario le chiese, le cappelle e le vie del paese. Si tratta dei Canti dei giovani di Marineo nella notte della Passione del Signore.
Gruppi di anziani, attorniati da giovani curiosi, desiderosi di conoscere la tradizione, confraternite e gruppi parrocchiali si riuniscono, intorno alla mezzanotte, presso la cappella della Santa Croce, alla periferia del paese, per eseguire gli antichi lamenti dialettali della Passione di Cristo. Dopo le prime esecuzioni solistiche, ogni gruppo segue un itinerario proprio e non prestabilito, che li porterà a cantare per i quartieri del paese, a fare visita ai “sepolcri” allestiti all’interno della chiesa Madre, del Collegio e del Convento. Le esecuzioni dei canti tradizionali e dialettali sono solistiche e sono intervallate dal suono della “troccula”. I canti vengono eseguiti a turno da singoli fedeli, mentre non c’è limite nel numero di strumenti che inframmezzano le parti. I pezzi più lunghi non vengono mai sviluppati interamente: di volta in volta gli esecutori ne estrapolano delle parti. Diu vi salvi, o Regina è, invece, un canto che viene eseguito coralmente, da uomini e donne, e senza inframmezzo della “troccula”. Questo motivo viene canato anche durante la processione del Venerdì Santo. Vi sono poi anche altri canti corali, eseguiti dai giovani che fanno parte di associazioni parrocchiali. I “lamenti” si sono tramandati soprattutto per via orale. In paese, sono stati pubblicati due libretti con alcuni testi. Il primo è intitolato "I Canti dei giovani di Marineo nella notte della Passione del Signore", Palermo, 1973, ed è stato curato da monsignor Natale Raineri. Il secondo, "I canti di Marineo nella notte della Passione del Signore", a cura dell’associazione Mcl di Marineo, 1990, è sostanzialmente una ristampa, con delle aggiunte, del precedente libretto. Nel 1997 è stato realizzato anche un cd rom: "Marineo, canti della passione", con 14 registrazioni ed un testo introduttivo. In queste tre opere si esaurisce la letteratura locale sui canti e sulle tradizioni della Settimana Santa a Marineo.

mercoledì 1 aprile 2015

Marineo: la scala dei lavureddi, tradizione ricca di simboli ancestrali


di Nuccio Benanti
MARINEO. Nel libro sacro dello zoroastrismo, Zarathustra proclama: «Chi semina il grano edifica l’ordine». Il nome che i contadini di Marineo danno al campo di frumento è lavuri. I lavureddi sono, quindi, piccoli campi di grano, di lavoro e di ordine.
Vengono realizzati per adornare la scalinata dell’Altare della reposizione (comunemente detto del Santo Sepolcro), all’interno della chiesa Madre. Il frumento viene seminato dai devoti nella stoppa umida in prossimità della festa di San Giuseppe, per essere tenuto al buio all'interno delle proprie abitazioni fino alla Settimana Santa. Sono i confrati della confraternita del Santissimo Sacramento ad allestire la caratteristica Scala Illuminata addobbata con rami d’ulivo e fiori. Al centro della chiesa vengono sistemati un centinaio di piatti germogliati portati dalle famiglie e dagli alunni delle scuole. Attraverso una scala, i messaggeri divini salgono e scendono nel sogno biblico di Giacobbe: "Una scala poggiava sulla terra, la sua cima raggiungeva il cielo. Ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa" (Genesi 28, 12). La scala dei lavureddi è, quindi, un ponte. Serve a favorire un contatto con l’aldilà, con la residenza e con la provvidenza divina, ma anche a propiziare ritualmente l'innalzarsi delle messi, trattandosi di una forma di pensiero per analogie. Si tratta della tradizione legata alla Settimana Santa più ricca di simboli ancestrali, che affonda le radici in tempi molto remoti, antecedenti alla stessa venuta di Gesù. Nell’antichità i devoti di Adone, all'approssimarsi della primavera seminavano in contenitori di terracotta chicchi di grano, che facevano germogliare in assenza di luce. Con queste nuove piantine ornavano, nei giorni antecedenti l'equinozio di primavera, il sepolcro della loro divinità, il giardino di Adone, propiziandone la resurrezione.