di Nuccio Benanti
Alla vigilia del martirio Ciro e Giovanni si portarono a Canopo per incoraggiare tre fanciulle, Teotiste, Teodota ed Eudossia, e la loro madre Atanasia, a non venire meno alla loro fede. E non ebbero paura della morte, poiché «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25).
Avendo perso la loro vita per il Signore, i martiri rappresentano per i cristiani un grande esempio da seguire, un modello da imitare per riscattarsi dalla morte terrena, dalla malattia, dal peccato. Il solo evocare il nome dei testimoni della fede richiama immediatamente alla mente l'idea del sofferenza, del sangue versato e del sacrificio. Valori che accomunano la loro esperienza a quella di Cristo. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore porta molto frutto» (Gv 12, 24): è con queste parole che Gesù annuncia la sua glorificazione attraverso la morte. «E’ Cristo il chicco di frumento che morendo ha dato frutti di vita immortale. E sulle orme del Re crocefisso si sono posti i suoi discepoli, diventati nel corso dei secoli schiere innumerevoli di ogni nazione, popolo e lingua: apostoli e confessori della fede, vergini e martiri, audaci araldi del vangelo e silenziosi servitori del Regno» (Giovanni Paolo II). La vicinanza, il legame spirituale tra il sacrificio di Cristo sulla croce, il suo sacrificio eucaristico e il sacrificio dei santi martiri è messo bene in evidenza nell'Apocalisse di San Giovanni: «Vidi sotto l'altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa […]. Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro» (Ap 6, 9; 7, 14-15). I martiri sono, perciò, coloro che hanno un rapporto privilegiato con la divinità: per questo motivo possono operare da intermediari tra il contesto terreno e quello divino. Per i cristiani dei primi secoli il culto dei santi non differì molto dalla pietà nei confronti dei defunti. Ma Sant'Agostino spiega che «noi non preghiamo per i martiri, ma raccomandiamo noi stessi alle loro preghiere», mentre Vittricio, vescovo di Rouen, li descrive come una legione impegnata nella battaglia contro il male. Infine, San Tommaso d'Aquino cita ancora Sant'Agostino per spiegare che si diventa martiri «non per la pena, ma per la causa». Non c'è dubbio, quindi, che Ciro di Alessandria rappresentò da subito, per la cultura cristiana del tempo, un valido esempio di santità. La sua vita mirabile, nonché la causa della sua gloriosa morte consentirono ai primi credenti di additarlo come testimone della fede ad imitazione di Gesù Cristo. Dopo il martirio, avvenuto il 31 gennaio del 303 sotto Diocleziano, mani pietose raccolsero i resti mortali di Ciro di Alessandria e di Giovanni di Edessa che vennero sepolti nella Chiesa di San Marco, ad Alessandria d'Egitto. E in questo luogo le reliquie rimasero per un secolo. Il 26 giugno del 414 i resti furono traslati, per mano del patriarca Cirillo, nel tempio di Menouthis, dove gli abitanti erano ancora dediti a riti pagani. Nelle tre tappe del trasporto delle reliquie, il prelato tenne altrettante omelie, successivamente trascritte da Sofronio nei suoi Atti. E la notizia di alcune guarigioni richiamarono presto numerosi pellegrini in quella terra chiamata oggi Aboukir, in memoria di Abba Kyr, cioè del Padre Ciro.