venerdì 30 maggio 2014

Il miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale, 1861-1894


di Pippo Oddo
Renato Guttuso: La Battaglia di Ponte dell'Ammiraglio 1951/52. Olio su tela cm 321 x 521- Firenze Galleria degli Uffizi.
Il 27 maggio 1860 era domenica di Pentecoste. All'alba del fatidico giorno diverse migliaia di contadini poveri siciliani (affamati di terra e assetati di giustizia) - combattendo assieme ai circa settecento garibaldini del Continente - sconfissero le truppe borboniche ed entrarono così nella capitale dell'Isola presidiata da più di 20.000 soldati. La battaglia di Palermo durò ancora alcuni giorni e si concluse con la disfatta delle truppe regie, grazie anche all'intervento decisivo del popolo palermitano che issò le barricate. Il resto della storia ho avuto modo di scriverlo nel mio libro, "Il miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale, 1861-1894", che sarà presentato martedì 10 giugno, ore 17,30 nella Sala di Lettura dell'Istituto Gramsci Siciliano, presso i Cantieri Culturali della Zisa, via Paolo Gili, 7, Palermo.

giovedì 29 maggio 2014

Infarto stronca la vita di Raimondo Ruggeri, costumista della Dimostranza


di Piazza Marineo
Un infarto ha posto fine all’esistenza di Raimondo Ruggieri, 50 anni, persona di primo piano della cultura siciliana, regista e artista dalle molteplici sfaccettature, noto a Marineo per i suoi costumi della Dimostranza.
La notizia della sua morte si è sparsa rapidamente attraverso i siti di informazione di San Cataldo e del Nisseno. "Benché fosse sofferente e di salute cagionevole - spiegano gli amici di Raimondo -, ha sempre portato avanti con tutte le sue forze i progetti culturali legati alle tradizioni sancataldesi, sopratutto con l’associazione 'Quarta Parete', con la quale ha realizzato tante edizioni della Settimana Santa a San Cataldo, coinvolgendo attori, sceneggiatori, mettendo assieme anche realtà apparentemente inconciliabili e lontane, ma sopratutto ha coinvolto tanta gente comune facendola sentire parte di un insieme importante. Ci è sempre riuscito perché dotato di un carisma straordinario e di un senso dell’umorismo che faceva breccia su tutti indistintamente. Se ne va un vero e proprio pilastro delle rappresentazioni pasquali, conoscitore della storia e delle tradizioni di San Cataldo, del teatro e della sua cultura". Raimondo Ruggeri aveva moltissimi amici anche a Marineo: per anni ha fornito i costumi della Dimostranza di San Ciro, che realizzava personalmente nel suo laboratorio, permettendo alla manifestazione di compiere quel salto di qualità che ne fa oggi una rappresentazione unica nel suo genere. Assieme alla Settimana Santa e San Ciro, nella vita di Raimondo c'è stata anche figura di Padre Pio: di recente ha realizzato un musical dedicato al santo che ha per titolo: “Vicino a Dio”.

Conferenze sui giovani a Marineo: Educare alla sessualità e all'affettività


di Piazza Marineo
Giovedì 29 maggio, alle ore 17 presso il teatrino scolastico, sito in Piazza Garfield e Lodi a Marineo, ultimo appuntamento con il ciclo di conferenze sui problemi giovanili “Insieme per capirci qualcosa”, organizzate da Radio Studio Centro – Consorzio Radiofonico Siciliano.
Il tema di questo settimo incontro sarà “Educare alla sessualità e all'affettività” (Quando bisogna iniziare a parlare ad un figlio di sessualità - l’imbarazzo dell’adulto di fronte al tema della sessualità del bambino e dell’adolescente – come far concepire la sessualità e l'affettività in modo positivo). La sfera affettiva è molto importante nello sviluppo dell'individuo. Nell’età giovanile si cominciano a definire le proprie caratteristiche e pertanto l'educazione socio-affettiva deve facilitare la conoscenza di se stessi, per vivere le proprie emozioni e dei propri pari e il rapporto con gli adulti. Tali esperienze completano l'individuo, che così potrà realizzarsi pienamente nell’età adulta. Altro importante obiettivo che la conferenza si prefissa è quello di informare i giovani, ma anche gli adulti-genitori, sulle opportunità che vengono offerte dalle strutture dei Consultori dislocati nel territorio, che saranno in grado di rispondere alle loro richieste anche in modo personalizzato.
All'incontro interverranno i dottori Carlo Greco, Giuseppe Aronadio, Angela Cusmano e Francesca Salerno. Modera Maria Antonina Rubino. La registrazione della conferenza si potrà ascoltare domenica prossima dalle ore 10 in poi, nel corso del programma “Domenica Cultura”, in onda sulle frequenze dell’emittente.

mercoledì 28 maggio 2014

Eterna allegoria della vita: il pane quotidiano nella Sicilia arcaica


di Pippo Oddo
Eterna allegoria della vita, nella Sicilia arcaica il pane scandiva l’esistenza umana dal primo vagito all’ultimo respiro. Nulla era però più aleatorio, per i poveri, del diritto a quel pane quotidiano che Gesù in persona aveva insegnato a chiedere al Padre Eterno. 
Sicché ogni parola, ogni esortazione era finalizzata alla conquista della grazia di Dio. «Il memento mori che il missionario intona giornalmente ai cristiani — notava nel 1876 Guastella —, era cambiato dai nostri antichi in un motto proverbiale terribilmente preciso: Ni porta pani a la casa? Massima che applicata rigorosamente interdiceva ogni miglioramento materiale, sia pubblico che privato, ma serviva a impinguare le rendite delle famiglie». Ora, se portare pane a casa significava per alcuni accumulare avidamente «roba», per moltissimi altri equivaleva a mangiare, attutire i morsi della fame, nulla di più. Altro che «impinguare le rendite delle famiglie»! Ma tutti, allora, ricchi e poveri, crapuloni e morti di fame, avevano un sacro rispetto per il pane: rispetto esagerato, forse, patetico addirittura, per quanti oggi subiscono il fascino dei vari mulini bianchi. «Il pane è la grazia di Dio per eccellenza», ammoniva Giuseppe Pitré: «e non si posa nè presenta mai sottosopra, che è malaugurio, nè si taglia da quel lato (sôlu), che è disprezzo alla Provvidenza di Dio che ce lo manda, nè si segna o s’infilza col coltello, che è ferro e quindi maledetto; ma si taglia senz’altro, e quando si ha ad infilare dentro il coltello si bacia prima, si benedice poi e si protesta che è grazia di Diu. Quindi se il pane cade per terra, nel raccoglierlo, si bacia, dicendo: grazia di Diu. Se mangiando ne cascano per terra delle briciole e non si ha cura di raccattarle, si dovranno raccattare poi con le ciglia, morti che saremo. E come grazia di Dio, si giura su di esso toccandolo: Pi sta santa grazia di Diu! e se ne vediamo cadere o buttare un bocconcino per terra, che non si voglia o non si possa altrimenti mangiare, ci affrettiamo a raccoglierlo e a conservarlo in un bucolino pur di non farlo calpestare coi piedi. Il Signore potrebbe farci desiderare quel boccon di pane». L’osservanza di almeno uno di questi riti in anni a noi molto più vicini di quelli in cui scriveva Pitrè è attestata autorevolmente da Antonino Buttitta: «… il mio primo ricordo del pane è legato alla raccomandazione che mi faceva spesso mia madre di non capovolgerlo posandolo sulla tavola. Era un pane dalla forma grande e rotonda tipica di quel mondo contadino di cui nella mia giovinezza il paese dove sono nato era ancora un esempio. Mia madre diceva che rovesciare il pane era di malaugurio. Io pensavo che questa credenza, del resto allora comune, fosse semplicemente suggerita da un desiderio di ordine. Era così. A un livello più profondo tuttavia di quanto io allora sospettassi. In realtà capovolgere il pane, per il suo contenuto simbolico, era come invertire l’ordine del mondo da esso rappresentato, convertire il cosmos nel caos, dunque scatenare il negativo nelle sue forme più distruttive». Se così era, la sacralità del pane non poteva restare estranea ai momenti critici della vita, in quei riti di passaggio studiati nei primi decenni del Novecento da Arnold Van Gennep, partendo dal presupposto che ogni cambiamento nella situazione di un individuo «porta seco azioni e reazioni tra il profano e il sacro, azioni e reazioni che debbono essere regolamentate e sorvegliate, affinché alla società generale non arrechino né molestia né danno». Sotto quest aspetto, la documentazione folklorica tramandataci dai raccoglitori dell’Ottocento ci dà un'ulteriore conferma, ove ce ne fosse ancora bisogno, della funzione segnica del pane, elemento di un sistema metalinguistico in cui si riassumono bisogni nutrizionali, ansie, speranze, sensi di colpa, strategie di sopravvivenza volte a sconfiggere la potenza del negativo nella storia e lo stesso potere nullificante della morte. Il pane (azzimo in questo caso) era chiamato in causa immediatamente dopo il concepimento di un nuovo individuo: «Il protettore delle pregnanti è, in molti comuni, S. Francesco di Paola» scriveva nel 1879 Giuseppe Pitrè. «A lui si raccomandano le donne, e da lui sperano una buona gravidanza e un miglior parto. A renderselo propizio gli fanno un viaggio ogni venerdì, nel primo dei quali, entrate in chiesa, si fan benedire addosso il cordone del Santo, e dare, previa un’elemosina, due fave benedette, e poche ostie benedette, con l’immagine del Santo, e una piccola candela di cera, pur essa benedetta, alla quale in forma spirale attorcigliata una strisciolina stampata che dice: Ora pro nobis, Sancte Pater Franciscu de Paula. Il cordone si metterà durante la gravidanza, la candela si accenderà nelle doglie del parto, quando l’intervento celeste sarà necessario; le fave e le ostie si mangiano per devozione». Ai tempi di Guastella a Modica si tramandava una leggenda secondo la quale una donna povera che, nell’imminenza del parto, aveva invocato l’aiuto della Madonna della Catena, fu dalla misericordiosa vergine assistita nel momento fatidico e per di più provvista di «pane, pannolini e gioie». Nella stessa città, per non inimicarsi le padrone di casa (esseri ambigui e vendicativi che dopo il parto prendevano in consegna i neonati), si usava mescolare la placenta al sale e alla mollica di pane, prima di seppellirla sotto un masso. Subito dopo il parto nel Messinese si soleva regalare alla mammana denaro, le forbici «cogli anelli d’argento» con cui era stato tagliato il cordone ombellicale, la candela che l’aveva bruciato, l’asciugamani in cui era stato avvolto il neonato, un gomitolo di refe «venti volte più grosso di quello di quello ond’ella s’era servita per la legatura del cordone» e, dulcis in fondo, «un grossissimo pane». Ancora più curiosa era l’usanza di Milazzo relativa al battesimo: «Prima che il bambino fosse tratto di casa per l’altare, un buccellato veniva offerto alla levatrice, la quale deponendolo sul letto della puerpera, sospendeva sulle braccia il neonato orizzontalmente, e cullandolo su quel pane esclamava: “Iu, figghiu, ti crisciu / pri sti quattru cantuneri; / chi cc’è l’Ancilu Gabrieli, / cu lu pani e cu lu pisci”. Ecco una benedizione, mediante la quale il bambino farebbesi grande della persona, ben nutrito di pani e di pesci: benedizione quattro volte ripetuta, ma di volo, affinché lestamente si potesse la pregnante ghermire e far suo il vagheggiato pane…». Al passaggio del corteo con il battezzando, le comari si affacciavano davanti all’uscio e cominciavano a spargere sulla strada e sullo stesso bambino generose manciate di frumento per augurare alla creaturina un avvenire di prosperità e abbondanza. Assieme al grano a Misilmeri si gettavano anche briciole di pane. All’uscita dalla chiesa a spargere frumento, ma anche nocciole, ceci abbrustoliti, fave, confetti, monetine, erano in molti luoghi i padrini. E il pane continuava a fare la sua parte anche durante il puerperio. «Mezzi buoni ad accrescere la scarsa secrezione del latte — scriveva Pitrè — sono lattuga cotta, indivia con la pasta, sesamo nel pane, pesce cotto, pasta incaciata, con molta dell’acqua nella quale fu bollita (Palermo), pane di sesamo inzuppato, appena uscito di forno, in vino, pasta con ricotta e con cipolla soffritta e talvolta acqua mista a lievito (Mazzara e Raffadali), ortica bollita (Nicosia), e non so che altri cibi; ma quando il latte ha da venir meno, verrà meno con tutte le lattughe e le cipolle di questo mondo. E se vien meno, bisogna fare il possibile per riaverlo abbondante e proseguir l’allattamento». In tal caso un rimedio efficace può essere il pane delle sette Grazie. Una parente o una vicina che s’interessa della purpurea «va pel paese in cerca di sette donne che si chiamano Grazia, e domanda a ciascuna un pezzetto di pane. Indi cuoce questi pezzettini, e mentre li cuoce recita un’avemaria alla Madonna delle Grazie; e li dà a mangiare alla puerpera, la quale in quel momento deve alla sua volta recitare la medesima avemaria. Il latte aumenta». Nella Contea di Modica alle sette Grazie si rivolgeva la stessa puerpera e, anziché pezzetti di pane, chiedeva un pugno di farina con cui poi preparava una focaccia senza sale che mangiava caldissima, appena sfornata. Ma quand’anche fossero risultati inefficaci questi rimedi, se ne potevano cercare altri ritenuti infallibili. Uno sperimentato a Nicosia prescriveva che una comare della nutrice «travagliata da agalassia» le portasse, a sua insaputa, due panini e un po’ di vino, e il latte sarebbe venuto subito. Un altro, collaudato con successo a Milazzo, era un po’ più complicato ma, a detta di un autorevole informatore di Pitrè, non poteva fallire: “La donna medesima vada per case diverse, e chieda in ciascuna un tozzo di pane; vada in una 14ª, chieda una pentola; in una 15ª, un treppiede; in una 16ª, un po’ d’olio; in una 17ª, un po’ d’acqua; in una 18ª, della legna; in una 19ª uno zolfanello. Appiccato il fuoco, cotti i 13 tozzi di pane, ella li mangi per intiero, e si ponga 13 bocconi sul letto. La Madonna delle Grazie in premio di tanta umiltà le sarà larga di dolcissimo latte”. Insomma, la povera agalattica doveva mobilitare tutto il vicinato per ritrovarsi le poppe piene. Ma si trattava di un rimedio tutto sommato moderno, visto che bisognava procurarsi anche uno zolfanello, diavoleria che nella Sicilia interna fece la sua prima comparsa negli anni quaranta dell’Ottocento. Prima di allora la cosa migliore da fare era affidarsi alle cure delle «medichesse» contadine, che di medicina empirica se ne intendevano e come!, a voler credere a Guastella: “Quella donna intende liberarsi dall’infiammazione alla ghiandola mammaria, che noi chiamiamo pilu a la minna? Metta un po’ d’acqua in un vaso, faccia bevere un gatto, indi beva alla stessa. Vuol preservarsi da siffatto male? Beva tre sorsi di quell’acqua, nella quale è stato sciolto il lievito mentre si manipola il pane”. Ma il lievito era un toccasana anche per altri mali. Bastava metterne un po’ su «una foglia (niente più niente meno) di ruvettu di S. Franciscu», per guarire il pannarizzu, ossia l’ascesso. Le congiuntiviti acute si curavano applicando alle tempie «qualche lumacone pesto mescolato con lievito». La cura della tonsillite prevedeva, almeno a Salaparuta, applicazioni alla parte gonfia e dolenti di «lievito spalmato sopra una pezzolina». Se miracoloso era il lievito, ancora di più lo era il pane, specialmente quando veniva preparato in onore dei Santi. Rinviando questo aspetto al prossimo capitolo, è appena il caso di accennare al grande uso che un tempo si faceva di picate (cerotti primitivi di mollica di pane e sale) nelle lesioni violente, che però si curavano anche con crusca impastata con acqua e aceto o addirittura — ma era il caso, a quanto pare, solo di Cefalù — con la propria urina. Nessun’altra cosa ha mai eccitato tanto la fantasia umana quanto il pane. I bambini giocavano a Pani caudu o a lu Cudduruni, due giochi che vale la pena di descrivere prendendo a prestito le parole di Pitrè. A Pani caudu Otto fanciulli si contano e, secondo la sorte, quattro restano appuzzati, quattro no. Acceso un gran fuoco (vampa), i quattro appuzzati vi si mettono attorno; gli altri si allontanano e vanno a nascondersi. I primi buttano sul fuoco un sasso per uno, che rappresenta il pane da mettersi in forno, e gridano: Pani caudu! Allora i rimpiattati sbucan fuori correndo verso il finto forno; ma i fornai la danno a gambe, per non farsi cogliere da essi. Chi è colto dee portare a cavalluccio sino al forno il compagno che l’ha acchiappato al grido l’Aceddu ti lassa! Nell’altro partecipano cinque bambini e non si accende nessun fuoco, ma è altrettanto divertente: A lu Cudduruni Un fanciullo mette a terra una pietra, che copre di terra rappresentando una focaccia messa a cuocere sotto la cenere (cudduruni). Altri quattro fanciulli si mettono a custodirla facendo ufficio di cani. Tutti gli altri si dispongono in cerchio tenendosi per mano. Il fanciullo che ha coperto la focaccia, volendo assicurarsi che sia cotta, chiede a quei della ruota se per caso vi sian dei cani, e quelli rispondono negativamente. Entrato però nel circolo, i quattro che stanno a guardia cominciano ad abbaiare, e lo inseguono; ond’egli fugge dando dei calci. Ma se il pane era abbastanza presente nei giochi fanciulleschi, non lo era altrettanto nella vita reale dei bambini che a volte si alimentavano con il latte materno fino all’età di tre o quattro anni. A Villafrati ancora negli anni cinquanta circolava una poesia popolare che accennava a questa circostanza. Il protagonista era u Bambineddu, Gesù bambino, il quale piangeva perché voleva il pane e la Madonna, profondamente umana, gli rispondeva: Zittuti figghiu, ca ora ti pigghiu: pani nun ci nn’è, ti rugnu a nnennè. Nella contea di Modica il figlio del contadino appena compiva i quattro anni, andava in campagna a custodire la roba, «cioè la giucca [il mantello del genitore], la sacchina col pane, la scodella, il barilotto, e un paio di larghe bisacce». Queste ultime durante la notte assolvevano alla funzione «di materasso e di coltre». Il pane portato da casa non sempre bastava per l’intera settimana. Il padre perciò lo razionava e invitava il figlio a recuperare qualche frutto. D’inverno, quando sugli alberi non c’era nulla da raccogliere, il bambino cercava di entrare nelle grazie del padrone presso il quale lavorava il padre per ottenere un pezzetto di pane e ciò che avanzava dalla sua colazione. Cresceva dunque col preciso presupposto culturale che per sopravvivere bisognava farsi furbo fermandosi «a quel precisissimo punto, ove la galera si rasenta senza toccarla». Divenuto adulto, era inevitabile che facesse debiti. Ma anche questa circostanza poteva esser sfruttata per procurarsi la grazia di Dio, magari offrendo al creditore di mietergli un campo, «col pane e col vino, s’intende, e col diritto della spigolatrice, s’intende benissimo», con il diritto cioè di portarsi dietro una donna della famiglia che spigolasse mentre lui mieteva. Persino nell’istituto del fidanzamento il pane aveva un proprio significato. Ma solo simbolico? No davvero! , almeno ad Alia. «Dopo la formale richiesta di matrimonio e relativo appuntamento — scriveva Ciro Cardinale nei primi decenni del Novecento —, al fidanzato incombe l’obbligo di mantenere la promessa sposa e perciò questa riceve dall’altro una pagnotta al giorno». Curiosissime erano le usanze nuziali degli Albanesi di Sicilia. Tra le testimonianze riportate da Pitrè la più interessante è quella ricavata da uno scritto dell’abate Leanti nel 1761: Entrati appena, egli dice, in chiesa gli sposi, seguita la breve cerimonia del reciproco consenso, viene loro presentata a mangiare per mano del parroco una zuppa di pane e vino: quindi cinti ambedue il capo di una ghirlanda di alloro e coperti di un gran velo, girano in tondo tre volte insieme col mentovato parroco e testimonj, che quivi chiamano padrini: e nelle feste sposalizie della bassa gente oltre alla surriferita funzione, è solito, che lo sposo stranamente vestito, appeso al destro fianco un pane formato a cerchio in forma di corona, che buccellato nominano i Siciliani, vada a prendere la sposa, col numeroso seguito di congiunti ed amici unito a quello di essa sposa, l’accompagni in allegre alternate armonie sino alla porta della chiesa. Al passaggio degli sposi i parenti e gli amici gettavano grosse manciate di frumento, legumi, briciole di pane. Ma l’uso di lanciare addosso agli sposi cereali non era esclusivo delle popolazioni albanesi, come dimostra una poesia popolare raccolta a Camporeale: E quannu di la Crèsia turnamu Lu populu nni jetta frumentu. Ad Assaro si buttava con una mano frumento e con l’altra sale. A Borgetto era la suocera a lanciare sulla sposa il grano. A Siracusa cadeva sul corteo una grandinata di sale e farro. «In Licata col frumento si augura agli sposi prole femminile; ma con l’orzo si fanno più lieti auguri, prole mascolina». A Modica non si faceva di queste distinzioni ma, come nell’antica Roma, assieme al frumento si gettavano anche noci, «costume antichissimo, il quale vale ad augurare la futura agiatezza alla nuova famiglia, e a rimuovere gli auguri sinistri: Dî avertant». Usanze come queste non potevano certo passare inosservate ai viaggiatori stranieri, anche se non sempre essi annotavano quanto cadeva sotto i loro occhi con la stessa dovizia di particolari con cui Bartels descrisse una cerimonia nuziale siciliana tardosettecentesca: Il padre dello sposo entra da solo, indirizza un complimento alla giovane e la porta per mano, tutta addobbata, al promesso sposo che l’accoglie sulla porta, mentre dall’alto viene sparso su di loro grano, pane e sale, in segno di fecondità e ricchezza. La suocera della sposa, gli mette all’occhiello, assicurandolo con nastri, un biscotto di pasta fine, simbolo del nutrimento che dovrà procurare alla moglie. In chiesa, intorno alla coppia, il turibolo dell’incenso descrive una croce. Il sacerdote infila all’indice degli sposi gli anelli, d’oro per lui, d’argento per lei e il padre per tre volte scambia gli anelli tra loro. Lo stesso avviene per le corone di alloro, di olivo, di rosmarino e di fiori che gli sposi ricevono sul capo e sulle quali il sacerdote posa poi un velo di garza bianca; gli sposi si tengono per il mignolo della stessa mano, reggendo nel contempo una candela accesa. Una tavola imbandita è già pronta nella chiesa stessa; il sacerdote spezza il pane, lo inzuppa nel vino, ne fa mangiare tre pezzetti agli sposi, rompe poi il bicchiere per mostrare che la felicità è fragile. Infine gli sposi formano attorno alla tavola imbandita una sorta di ronda con il sacerdote e i testimoni, e danzando gli girano attorno tre volte. Poi, in corteo e cantando ci si reca verso la casa dello sposo. Le nozze contadine non si celebravano mai nel mese di agosto perché — come ammoniva un vecchio adagio — la sposa non si sarebbe goduta la curtina, cioè l’intimità dell’alcova (la zita austina nun si godi la curtina). Ma i matrimoni contratti subito dopo un buon raccolto si festeggiavano nell’aia, ballando ’u chiovu, ’a fasola, ’a cuntradanza e altri balli contadineschi intermezzati da lodi a Dio e alla Madonna. L’eco di quest’antica usanza ci giunge attraverso una caratteristica pantomima campestre che da Petralia Sottana è stata portata in tutto il mondo: il Ballo della Cordella. Nella pittoresca cittadina madonita nel mese d’agosto la manifestazione è preceduta da un corteo nuziale in costume, aperto dagli sposi a cavallo di una mula bianca, che sfila per il corso a suon di zufolo, marranzano e tamburello. Si conclude in un’aia (attrezzata di pagghiaru) con balli attorno a una lunga pertica con ventiquattro corde variopinte, cui si aggrappano dodici coppie di danzatori di straordinaria bravura. «Il Ballo della Cordella e il Corteo Nuziale sono quanto di più originale abbia mai visto» ebbe a dire nel 1960 il regista Steve Previn che, con una equipe di trentacinque tra operatori e tecnici, riprese le scene per inserirle in un documentario sul folklore nel mondo. E in effetti le due manifestazioni sono davvero affascinanti. Inneggiano alla vita e all’amore fecondo, rendono omaggio a Cerere, la dea del pane, ancorché invocata come Madonna dell’Alto. Madonna di l’atu! Mi raccumannu Ca senza lu to aiutu mi cunfunnu; sapienza sempri t’addumannu quantu iu parru beni a tuttu munnu. Così di solito esordisce il conduttore del ballo, raccomandandosi alla Madonna dell’Alto, senza il cui aiuto si confonde; le chiede sempre sapienza per parlare bene a tutto il mondo. * * * Non sono pochi in Sicilia i cognomi tratti dalla cultura del pane. Vale la pena di citarne alcuni: Pane, Pani, Panetto, Panebianco, Panepinto, Mangiapane, Fregapane, Frangipane, Farina, La Farina, Farinella, Criscenti, Collura, Buccellato, Guastella. Ma l’elenco è più lungo se si aggiungono quelli delle varie specie di grano come Tumminia e Maiorca e quelli mutuati dagli strumenti per misurare i cereali, quali Tumino, Mezzasalma… Tutti questi cognomi originariamente dovevano essere ’nciurii, soprannomi che a volte si trasmettevano da padre a figlio, segni distintivi di un’identità più forte di quella conferita dai cognomi, specialmente nei comuni rurali. Nomignoli evocativi del pane tuttora esistenti, anche se vecchi di molti decenni, se non addirittura di secoli, sono: Settipani a Bolognetta, Cuddiruni a Villafrati, Muffulettu a Misilmeri e chissà quanti altri nel resto della Sicilia. Ma la cultura del pane non connotava soltanto il folklore rurale: era presente anche nella concezione del mondo e della vita dei ceti popolari urbani. Emblematica è l’usanza relativa al trasloco in un nuovo appartamento: «quando si va ad abitare in una nuova casa, la prima volta che vi si entra si porta sotto l’ascella un pane e si sparge per terra del sale, affin discongiurare gli spiriti. Quegli spiriti poi che si vogliono rendere a noi benigni si salutano con la 84 formula: Si saluta a lor signuri Cu tutta la cumpagnia. Il pane a volte si lascia intatto, a volte si tagliuzza e si lascia in certi luoghi della stessa casa». Ovunque in Sicilia, in città e in campagna, era tenuto in gran conto il proverbio A-ccu ti leva ’u pani, levacci a vita. Si trattava di un’impietosa norma etico-giuridica, condannata dalle leggi dello Stato ma condivisa a livello folklorico. E non a caso giacché, essendo il pane (similmente al sangue) fonte di vita,chiunque lo levasse al prossimo meritava di essere ucciso, come il primo omicida nella vendetta barbaricina. Ma la morte prima o poi arrivava per tutti; ed era sempre causa di disordine esistenziale, specialmente nelle famiglie più povere. Il compito di rimuovere gli effetti più devastanti spettava anche al pane e agli attrezzi che servivano a produrlo. Il ruolo di questi ultimi era, per la verità, limitato al momento dell’agonia, «particolarmente esposto al pericolo della “perdita dell’anima”». Antidoto certo era questo scongiuro: Ti vagnu, Ti spagnu, Tiscugnu / a lu nomu di Diu! / cu st’acqua ca la benedici Gesù, / cu stu mazzettu di pitrusinu ch’ha la so virtù. / Va’ fora brutta bestia! In nomu di lu Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu. Faceva parte del rituale bagnare la lingua del moribondo con un mazzetto di prezzemolo intinto in un bicchier d’acqua. All’origine dello scongiuro c’era anche la credenza che l’agonia prolungata fosse segno di una maledizione divina e che in fin dei conti con i suoi movimenti incontrollati lo stesso agonizzante manifestasse la volontà di salutare la casa. Bisognava porvi rimedio cercando di capire quali norme divine avesse violato colui che stentava a morire. Uno dei tabù più radicati era distruggere gli attrezzi di lavoro. A tal proposito recentemente «è stata rilevata la persistenza di un complesso di credenze e di pratiche relative alla tabuizzazione degli oggetti, all’agonia assunta come pena per la sua violazione e ai meccanismi di risoluzione della crisi agonica, molte delle quali già rilevate dai demologi ottocenteschi». Eccone alcune: A Furci e a Limina non possono essere distrutti né giogo né aratro da chi non li abbia costruiti: essi, comunque, non vanno mai arsi. Ad Agira chi abbia bruciato un giogo non può avere buona o rapida fine. Qui viene costruito (con cera, con canne o legno) un giogo in miniatura che è posto sotto il letto di chi agonizza […] Anche a Nissoria non è lecito dar fuoco al giogo, pena un’indefinita e dolorosa sospensione del trapasso. Si usa dire: Cu ammazza jatti e abbrucia is Nun po’ nesciri di ’stu paisi. (Chi ammazza gatti e brucia gioghi non può uscire da questo paese). Quando qualcuno stenta a morire, oltre a porre l’aratro sotto il letto, un membro della famiglia del moribondo va a gridare il suo nome per sette immondezzai diversi (si suol dire, vanniari lu numi ppi setti munnizzari). A Nicosia, inoltre, non possono essere arsi l’aratro, il bastone da pastore, la zappa, e secondo una credenza popolare, quanti arnesi di lavoro sono a contatto con il sangue, umano o animale. Ancora un’usanza relativa all’agonia è stata registrata a Mistretta. È credenza che soffrirà a lungo, prima di morire, chi avrà, come altrove, arso un giogo o mangiato una gru. Qualora si fosse attentato alla loro inviolabilità, è necessario un rituale teso a purificare dalla colpa e rendere più agevole il trapasso. Un parente del moribondo deve uscire, chiudendo dietro la porta, quindi bussare e contemporaneamente recitare ad alta voce: chè hai bruciato il giogo o hai mangiato carne di gru? Se non sei morto, muori. Secondo un’altra versione, sempre a Mistretta, un vicino o un parente si affaccia alla finestra e grida la formula suddetta, mentre dirimpetto un’altra vicina la ripete. Il giorno stesso della morte, le parenti più strette della buonanima avevano un gran dafare. Quelle dei comuni siculi-albanesi si affrettavano a distribuire ai poveri, in suffragio per l’anima del defunto, dei pani a forma di croce detti ’ncrikiet, ma anche frumento cotto detto cuccìa, senza dimenticarsi di dar loro da bere. L’usanza, sconosciuta nel resto della Sicilia, almeno nella seconda metà dell’Ottocento aveva un preciso riscontro nei paesi calabroalbanesi dove si distribuivano ai poveri le stesse cose. Il pane, a detta del Dorsa, si chiamava però pizzatuglit. Aveva forma «bislunga, con uno dei capi rilevato a tondo, che dicono la testa, e nel 38. centro un buco, quasi ombellico di corpicino» In tutta l’Isola le parenti si facevano carico di portare da mangiare ai familiari del morto, usanza, questa, chiamata cùnsulu, cùnzulu, cùnsulatu nel Palermitano, casu a Marsala, cùanzilu a Mussomeli, cònsulu a Siracusa. Ma, indipendentemente dal nome, si trattava di un vero eproprio pranzo, nel quale accanto alla pastasciutta, alla carne e al vino, non mancava mai il pane, spesso impastato nottetempo, per offrirlo ancora flagrante ai parenti addolorati. A Gioiosa, nel Messinese, l’offerta del pasto veniva addirittura caricata su un asino che sfilava dietro il corteo funebre. «Portato al camposanto il cadavere, e seppellito, tutta quella roba s’imbandi[va] all’aperto o entro una casa»: parola di Giuseppe Pitrè. Ancora una ventina d’anni fa il direttore del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma, Annabella Rossi, notò in un cimitero palermitano «la presenza di alcune donne che mangiavano presso le tombe» Nell’Ottocento a Modica si offriva da mangiare persino al morto. Si credeva, infatti, che nei primi tre giorni della dipartita la buonanima tornasse in famiglia «a sfamarsi di un po’ di pane, e a spegner la sete in un catino d’acqua». Perciò di notte i parenti lasciavano l’uscio socchiuso e collocavano dietro la porta il pane e l’acqua. A scanso di equivoci era spesso lo stesso moribondo a richiedere il rispetto di questa usanza. O perlomeno, così sembra, se non è solo un’invenzione letteraria questo brano del Guastella: — Or bene: Nol vedete? Ormai sono agli sgoccioli, ma moio con terrore grandissimo. Comar Maddalena, voi siete l’unica mia parente. Giuratemi sul Crocifisso, di chiamar l’anima mia della strada. La vecchia si pose a piangere: — Ve lo giuro, compare mio, ve lo giuro sul Crocifisso e sull’ostia consacrata. — Voi mi levate una spina dal cuore: ma questo solo non basta. Guardatemi, Comar Maddalena: vedete come è ridotto lo zio Clemente? … sfuggito dagli amici, schiacciato dai figli… costretto a morire nello Spedale… Chi nei tre giorni della mia morte metterà il pane e l’acqua innanzi all’uscio dello ospedale? La vecchia raddoppiò i singhiozzi… — Io, io, compar Clemente, io che sono parente vostra. Credete forse che io non ci abbia pensato? A bella posta invece del sabato vegnente ho fatto il pane sta notte. Ho detto: il povero Clemente è come me, è senza denti… conviene che gli faccia un po’ di pane fresco: Nei tre giorni dopo la sua morte lo masticherà senza sforzo. Da altre fonti sappiamo che per soddisfare le esigenze nutrizionali della buonanima nei tre giorni successivi alla morte, nella stessa città, i parenti lasciavano l’uscio di casa socchiuso e puntellato da una sedia, sulla quale collocavano «un bel pane fresco dalla forma di una cuddura, e un candeliere a tre beccucci accesi la prima giornata, due candelieri a tre beccucci la seconda, e tre candelieri a tre beccucci la terza». Un’altra credenza della Contea di Modica voleva che, prima di raggiungere la sede definitiva, l’anima dovesse fare obbligatoriamente un viaggio attraverso il cosiddetto Violu di San Jabbicu, percorso disagevole con «un’immensa sequela di spade rivolte dal taglio» su cui doveva camminare, povera anima, «nuda e coi piedi scalzi». La donna che volesse sottrarsi a questa prova in punto di morte, poteva assolvere all’obbligo in vita, recandosi in una chiesetta rurale dedicata San Giacomo, ma non senza l’osservanza di un preciso rituale: All’avemaria in punto manipola un uovu di pasta, cioè tanti maccheroni quanti possan trarsene impastando, senza miscela d’acqua, la farina necessaria per unirla con un uovo. Cuoce immediatamente quei maccheroni, e l’acqua entro la quale furono cotti ha premura di versarla in una di quelle… crete spregiate, come ebbe a cantare il Parini, le quali servono per l’uso che non è bello accennare. La donna si spoglia tutta fino alla camicia, si siede su quella creta, mette il piatto sulle ginocchia, e avvolge la mantellina intorno alla faccia, in modo che mangi senza vedere. Fatta questa operazione va a letto; ma guai se chiuda gli occhi al sonno! Sonata la mezzanotte, punto preciso, si toglie la stessa camicia, e nuda come un verme, si avvolge entro un lenzuolo lavato nella stessa mattina, e s’incammina nel viaggio. Sola però non può farlo perché sarebbe inefficace, ma ha bisogno di una donna che le sia comare da tre, da sei o da nove anni; e così entrambe s’incamminano silenziose alla chiesetta. Durante il viaggio non posson parlare, neanche se le bastonano, neanche se le insultino nel pudore. Arrivate bussan tre volte alla porta chiusa della chiesetta, prima con le mani, poscia co’piedi, finalmente con la testa, s’inginocchiano, recitano nove paternostri, nove avemaria e nove gloria in onore del Santo, tre paternostri per l’agonia del Nostro Signore e un’ave, una salve regina alla Vergine Addolorata. Recitate le 44 preghiere ritornano sgranocchiando il rosario. Ma non era credenza tutta locale della Contea di Modica, questa dei viaggi penitenziali in punta di morte. In Calabria bisognava attraversare il Ponte di San Giacomo, che era particolarmente pericoloso, «sottile come un filo di capello», su cui poteva passare agevolmente solo «il morto con pochi peccati». Ora, indipendentemente dal nome — Violu, Ponte, o Scala di San Jabicu (come si chiamava nella maggior parte dei comuni siciliani) —, il passaggio pericoloso coincideva per tutti con la Via lattea, quell’immenso agglomerato di stelle che ad occhio nudo appare biancastro e la cultura folkorica siciliana dell’Ottocento immaginava «prodotta da alcune gocce di latte di Maria, cadute viaggiando su questa terra, e rimaste in cielo per volontà di Dio». Come qualsiasi pellegrino, l’anima doveva esser provvista di quanto occorreva per affrontare il viaggio. «Nelle credenze calabresi — scriveva Dorsa nel 1876 — i morti nelmettersi in viaggio per l’altra vita han bisogno di acqua e di pane. Se ne deduce che il loro viaggio è considerato simile a quello dei vivi: partono quelli come partono questi con pane e borraccia» . Identico era l’equipaggiamento dei morti che dovevano avventurarsi sulla tortuosa Scala di san Jabicu di Galizia «formata da coltelli, pugnali, chiodi, spine», anche se il viaggio doveva concludersi in un solo giorno o una sola notte, a seconda dal momento del decesso. La volgare credenza di alcuni paesi ritiene che nel salire questa Scala bisogna portare con sé, come viatico, del pane ed un fiasco di vino; ritiene altresì che il viaggio possa farsi in vita mettendosi in cammino la notte de’ Morti alle 12 m. in punto; ma a tal uopo dovrebbesi avere in mano una canna a quattordici nodi, senza voltarsi mai indietro, qualunque siano le occasioni o le circostanze che l’obbligano a voltarsi. Percorsa la lunga scala, il pellegrino offre (prisenta) a Dio il viaggio. Se Dio lo accetta, buon per lui; in caso contrario, bisogna tornar daccapo l’anno seguente (Nossoria). Il viaggio in vita dispensa da quello dopo morte. Ad alimentare questa credenza talvolta erano anche i preti. Nell’Agrigentino se una persona dichiarava in confessione di nutrire dubbi sull’esistenza della Scala, poteva aspettarsi addirittura «la penitenza di stricari la lingua in qualche chiesa e in un dato giorno». La credenza «del ponte che i morti devono attraversare, per andare in paradiso o all’inferno, esiste, ancora oggi, presso i popoli slavi: da antichi testi russi risulta che si offrivano ai morti dei biscotti di pasta di pane in forma di ponte o in forma di scala per facilitare alle anime l’ascesa al cielo». Insomma,in un passato poi non troppo lontano i morti avevano fame in tutto il mondo e mangiavano a spese dei vivi, come documenta egregiamente Maria Zanzucchi Castelli, cui siamo debitori dell’informazione testè fornita. Ma forse in nessun’altra regione del mondo, tranne la Calabria meridionale e qualche altra ristretta area del Sud dello Stivale, si riscontra una credenza come quella siciliana che vuole i morti elargitori di cibo ai vivi, sia pure una volta l’anno. Vige tuttora l’uso in Sicilia di fare delle strenne ai fanciulli il 2 novembre, giorno della commemorazione dei defunti. «I regali, dolci o giocattoli, sono, secondo quanto dicono i genitori ai figli, portati in dono dalle anime dei parenti morti. Il popolo suole chiamare questa ricorrenza giorno o festa dei morti; inoltre non dice fra alcuni giorni verrà il 2 novembre, ma verranno i morti, spesso chiamati anime sante». È probabile che si esprimano con gli stessi termini i Messicani, considerato che anche nel loro paese nei primi due giorni di novembre i morti tornano in famiglia per stare in compagnia dei parenti vivi dai quali sono «invitati ed attesi come ospiti d’onore» e festeggiati con un entusiasmo che sconfina nel grottesco. Non per questo portano però regali ai bimbi, come i morti di Sicilia: mangiano, quelli, anche se non più Pan de muertos, ma dolci a forma di scheletro e teschi di zucchero. Invece nel 90% di comuni siciliani le anime sante strennano i bambini con pupi di zuccaru, detti anche pupi di cena o più sbrigativamente cena, pasti ri meli,ossa di morti (raffiguranti generalmente tibie ma anche scheletri), pupe, dolci antropomorfi, insomma; e giocattoli. Nella strenna siciliana Antonino Buttitta individua un duplice significato: «Da una parte essa rappresenta un’offerta alimentare alle anime dei defunti, dall’altra un chiaro esempio di patrofagia simbolica; nel senso che il valore originario dei dolci antropomorfi, appartenenti alla strenna, era quello di raffigurare le anime dei defunti, in maniera che cibandosi di essi, era come se ci si cibasse dei trapassati stessi. Naturalmente il logico processo di trasformazione e di adattamento a forme nuove di pensiero, e quindi a nuovi costumi, ha fatto sì che l’attuale 53 significato di tali dolci e della strenna, in generale, non sia più quello di un tempo». Il mutato orizzonte culturale ha fatto uscire definitivamente di scena i pani di morti descritti da Pitrè: «rotondi, intaccati a croce come berretti a spicchi da prete». Ma fino a un quarto di secolo fa, almeno a Canicattini Bagni, questo tipo di pane, anche se di forma ellissoidale, si faceva regolarmente fin dai primi di ottobre. A Palazzolo Acreide si plasmavano, per la stessa occasione, pani a forma di bambola (pupidda), «con una crocetta sul volto e una in basso, ai piedi». A Sortino, dove l’uso di distribuire i pani in suffragio dei defunti era abbastanza vivo, si facevano, e non è escluso che se ne facciano ancora, «due tipi di pani per i morti: uno destinato ai bambini, che prende il nome di manu (o il diminuitivo manitta) ncoddru (alla lettera “mano addosso”), ha la forma di un braccio a semicerchio, che si congiunge alle estremità con due mani che si sovrappongono, con le dita aperte e ben definite; l’altro, destinato ai grandi, ha forma ellissoidale, con un taglio in mezzo nel senso della lunghezza, e prende per l’appunto il nome di ciaccateddru, cioè “spaccato”, “aperto”». E qualche vastidditta (pane comune di piccole dimensioni si faceva pure a Buccheri. «Ogni pane veniva offerto per l’anima di un solo defunto, e chi lo riceveva recitava il rosario in suffragio». Nei risvolti della civiltà del pane si nascondono storie di precarietà esistenziale di lunghissima durata, che difficilmente hanno trovato una penna pronta a descriverle. È il caso di tante vedove con prole a carico che, dopo la morte dl marito, si sono improvvisate fornaie per non far morir di fame i figli in tenera età. Negli anni cinquanta a Villafrati, un paese di tremila anime, ce n’erano almeno due in un solo quartiere abitato da contadini provvisti tutti di forno. Era una pena veder tornare dalla campana una di esse con il suo pesante carico di legna sulle spalle curve come un uncino. Chissà se conosceva l’orazione a San Giovanni Battista che si soleva recitare a Butera per rendere più leggeri i fasci di legna: San Giuvanni, san Giuvanni, fasciu picciulu e fasciu granni; lieggiu pi la via, gravusu ’n casa mia. (San Giovanni, san Giovanni, / fascio piccolo e grande; / leggero lungo la via, / pesante a casa mia). Doveva essere invece divertente vedere all’opera la ’gnu Carminedda Zito, alias Zagaredda, fantasiosa fornaia di Chiusa Sclafani la quale, appena si accorgeva che il forno era pronto per l’infornata, si portava in mezzo alla strada per chiamare le clienti suonando una trombetta. «Allora si vedevano le donne uscire dalle loro case con le tavole piene di pane già allievitato, poggiate sulla testa o sul fianco, che si recavano solerti ad infornare il pane». In molti paesi queste donne, come le altre madri di famiglia, quando infornavano il loro pane, non si dimenticavano di cuocere una cuddura per il primo bambino che passava per la strada. E se la promettevano a qualcuno in particolare, mantenevano l’impegno, perché come dice il proverbio, né a santi la curuna né a picciriddi la cuddura. In tal caso ne infornavano due. Storie del passato, però. Storie dell’ultimo pane che profumava di grazia di Dio.

martedì 27 maggio 2014

Marineo, infortunio mortale sul lavoro: operaio investito da una betoniera


di Piazza Marineo
Un operaio di Marineo, Salvatore Mastropaolo, è stato investito da una betoniera mentre stava effettuando dei lavori di manutenzione stradale. 
Inutile l'intervento dei sanitari del 118, che non hanno potuto fare altro che costatarne il decesso. Sull'episodio indagano i carabinieri. Il segretario della Feneal Uil, Angelo Gallo, ha diffuso un comunicato: "Ci uniamo al dolore della famiglia di Salvatore Mastropaolo, l'operaio di Marineo rimasto ucciso sul lavoro. Proviamo sgomento e impotenza, nonostante il continuo impegno di questa organizzazione sindacale sul fronte della sicurezza. Salvatore, purtroppo, è la 17 vittima siciliana da gennaio 2013 e la quarta di quest'anno. Dati alla mano mancano 300 ispettori e soprattutto i controlli nei cantieri". E aggiunge: "Chiediamo subito che la magistratura faccia chiarezza su quest'incidente in tempi brevi individuando le eventuali responsabilità e al prefetto l'attivazione di un tavolo di confronto per affrontare il tema della sicurezza". Aggiornamento. Si comincia a fare luce sulla dinamica dell'incidente. Secondo alcuni testimoni Mastropaolo, ieri pomeriggio, aveva fermato la betoniera sulla corsia della stradella di contrada Gorgaccio, ed era sceso per le operazioni di scarico del calcestruzzo. Ma, dopo qualche minuto, il camion ha cominciato a muoversi da solo: ed è stato allora che l'autista ha cercato, in tutti i modi, di risalire nella cabina del mezzo pesante per bloccarlo. In queste fasi concitate la betoniera lo ha travolto rovinosamente, per finire poi la corsa contro il prospetto di una casa in costruzione. Immediato è stato l'intervento dei sanitari giunti con l'ambulanza e l'elisoccorso, ma nulla hanno potuto fare per salvare l'uomo.

lunedì 26 maggio 2014

Risultati Europee: a Marineo il PD al 41,25%, FI al 27,61% e M5S al 18,01%


di Piazza Marineo
A Marineo su 5.808 elettori sono andati alle urne 2.334 votanti, il 40,18%. Il PD ha ottenuto 877 voti (41,25%), seguito da FI con 587 voti (27,61%) e M5S con 384 voti (18,01%). 


Nel Partito Democratico il candidato che ha ottenuto il maggior numero di preferenze è stato Fiandaca (con 400 voti), seguito da Chinnici (321) e Barbagallo (154). Deludente l’assessore regionale al Turismo Stancheris, che raccoglie solo 86 voti. Nella lista di Forza Italia buona affermazione di Iacolino (200 voti), seguito da Leontini (187) e Pogliese (171). Delude anche la prestazione del capolista Micciché che ottiene solo 63 voti. Nel Movimento 5 Stelle i candidati che ottengono il numero più alto di preferenze sono Di Prima (65 voti) e Corrao (65). Da segnalare, infine, la discreta affermazione di La Via (92 voti) e Marinello (60) di NCD-UDC. Dati definitivi.doc

domenica 25 maggio 2014

Elezioni Europee: 5.808 elettori di Marineo alle urne. Voto fino alle 23


di Piazza Marineo
Nella giornata di domenica 25 maggio, dalle 7 alle 23, si vota per le Elezioni Europee 2014. Sono 5.808 gli elettori marinesi chiamati alle urne per eleggere 8 membri del Parlamento europeo spettanti a Sicilia e Sardegna.
A partire dalle 23, subito dopo la conclusione delle operazioni di voto e l'accertamento del numero dei votanti, seguiremo lo spoglio delle schede nelle 6 sezioni di Marineo, con dati sull'affluenza pubblicati in tempo reale. Il sistema elettorale è quello proporzionale puro con lo sbarramento al 4%. I seggi spettanti all’Italia sono 73, su 751 totali, distribuiti in 5 circoscrizioni: Nord-Est (14), Nord-Ovest (20), Centro (14), Sud (17) e Isole (8). Ogni elettore può esprimere sia un voto soltanto di lista, mettendo una 'X' sul simbolo del partito prescelto, sia un voto di preferenza, scrivendo, a fianco del simbolo della lista votata, il nome e cognome o solo il cognome dei candidati preferiti compresi nella stessa lista. Si possono votare fino a un massimo di tre candidati della stessa lista, purché siano di sesso diverso, pena l'annullamento del terzo nome. Affluenza alle urne: Marineo 5,38% (ore 12); 21,96% (ore 19); 40,18% (ore 23).

venerdì 23 maggio 2014

Cangialosi: "A Marineo pannelli elettorali vuoti... e lo Stato paga"


di Alberto Cangialosi (Consigliere comunale)
Passeggiando per strada, da un paio di settimane notiamo che nella nostra cittadina sono stati posizionati gli appositi pannelli che, in periodo pre-elettorale, dovrebbero essere utilizzati per affiggervi i manifesti attinenti.
L'obbrobrio di queste lamiere, alcune posizionate anche in punti critici, tali da compromettere la visuale agli automobilisti, potrebbero in parte essere sopportate se venissero utilizzate per lo scopo preposto. Oppure, per esempio in via Agrigento, il loro posizionamento è stato voluto per evitare che la gente veda lo stato di degrado e di abbandono in cui versa la villa comunale? La legge impone che ogni comune, sotto dovuta ricompensa, con annesso straordinario elettorale, debba affiggere i manifesti che elencano tutti i candidati della rispettiva circoscrizione. E' inammissibile che l'inefficienza arrivi a tali livelli. A conti fatti avrebbero potuto evitare di istallare i pannelli ed intascarsi tutta l'intera cifra lasciandola immutata. Voglio ricordare al nostro primo cittadino che con la stessa premura con la quale ha inviato lettera e rispettivi facsimili dei suoi amici politici, poteva, per non dire doveva, sollecitare dirigenti e dipendenti affinché svolgessero il loro lavoro, in quanto ripeto è stato profumatamente pagato. Dopo l'ennesimo atto di immobilismo e illegalità di questa amministrazione, rimango a dir poco esterrefatto. P.S.: Le foto sono state scattate adesso. Ricordo che alla chiusura della campagna elettorale mancano poco meno di 30 ore.

giovedì 22 maggio 2014

I.I.S.S. Don Colletto di Marineo: il 22 maggio salpa la nave della legalità


di G. Cannova e M. P. Ribaudo
Durante l’anno scolastico 2013/14 gli alunni della classe 4° F dell’ ITC di Marineo hanno partecipato attivamente al progetto “Legalità e cittadinanza economica”, promosso dalla Fondazione Falcone. 
Guidata dalla professoressa Adele Perricone, la classe ha intervistato i proprietari delle aziende territoriali vittime di estorsioni mafiose, tra le quali l’Acri (ex calcestruzzi San Ciro Marineo). Grazie all’impegno profuso nel progetto, gli alunni Cannova Giannagiorgia, Costanza Anna, Ribaudo Maria Pamela, Spinella Marco e Tuzzolino Nucciofabio partiranno domani mattina per recarsi al porto di Civitavecchia dove avrà luogo la cerimonia di apertura. La nave messa a disposizione della Snav, partirà con a bordo, fra gli altri, il Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Stefania Giannini, il Presidente del Senato e il Presidente della Commissione Antimafia. Prima della partenza i partecipanti riceveranno il saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Durante il percorso verso Palermo le scuole svolgeranno attività didattica “sul campo” con incontri e dibattiti dedicati all’educazione alla legalità, alla lotta alle mafie e dibattendo con le Associazioni che si occupano di questi temi. Fra gli interlocutori con cui i giovani potranno confrontarsi, anche il presidente di Libera Don Luigi Ciotti, il vice presidente di Confindustria Ivanhoe Lo Bello e il professor Nando della Chiesa. Le giornate del 22 e 23 maggio rappresentano il momento conclusivo del percorso di educazione alla legalità e ala lotta alle mafie che per tutto l’anno è stato portato avanti nelle scuole italiane. Una volta sbarcati a Palermo le scuole vincitrici del progetto saranno premiate durante la cerimonia di commemorazione “Economia e legalità” in programma nell’aula Bunker del carcere Ucciardone di Palermo. In particolare le ragazze della classe 4°F Cannova Giannagiorgia e Ribaudo Maria Pamela accompagnate dalla professoressa Calderone Angela entreranno nell’aula del maxiprocesso alla mafia.

mercoledì 21 maggio 2014

Happy hour con i giovani al castello di Marineo: i 10 comandamenti


di Piazza Marineo
MARINEO. I 10 comandamenti: 8° Non dire falsa testimonianza. Giovedì 22 maggio, ore 21, nuovo incontro al castello di Marineo.

martedì 20 maggio 2014

Giusto Sucato e il museo Godranopoli, un sogno rimasto a metà


di Giovanni Franco
"Giusto rallenta, Giusto frena". La Fiat 500 andava sempre più veloce, percorrendo la strada in discesa che costeggia con stretti tornanti il castello di Cefalà Diana, ma lui alla guida dell'automobile rimaneva in silenzio e non rispondeva alle mie sollecitazioni sempre più incalzanti. Dopo alcuni minuti sbottò: "Giovanni, non posso bloccarla, i freni si sono rotti".
Ebbe il tempo di terminare la frase che l'utilitaria finì su un prato con l'erba alta. L'auto fermò così la sua corsa ma il percorso artistico di Giusto Sucato, era invece in ascesa, agli inizi degli anni '80. Pieno di buona volontà e di inventiva intensificò, in quel periodo, la sua collaborazione con Francesco Carbone, scomparso, il 23 dicembre 1999. Insieme a lui lavorò alla realizzazione del museo etno-antropologico della civiltà contadina e pastorale 'Godranopoli' ospitato in una palazzina di 240 metri quadrati con una pinacoteca d'arte contemporanea e una biblioteca di storia e di cultura siciliana. Giusto e Ciccino, come chiamavano Carbone i godranesi, giravano su una Fiat 128 per le trazzere a caccia di oggetti da esporre. Visitavano le masserie per trovare reperti che poi 'ripuliti' dalla polvere venivano mostrati ai visitatori. Insomma Godranopoli nacque nel 1983 anche per merito di Sucato. Giusto in quegli anni era ormai diventato di casa a Godrano. Dove c'era Carbone c'era lui. Con affetto e stima seguiva il critico d'arte nelle varie mostre in trasferta in tutta la Sicilia. Era una presenza costante. Ed è grande il suo rammarico nell'avere visto il museo chiuso dopo la morte del fondatore. "Di Francesco mi rimane il suo indelebile ricordo che conservo con riconoscenza per le opportunità che mi ha dato - ironizza - e una multa da pagare per eccesso di velocità che abbiamo preso durante un viaggio". Giusto, che oggi ha 64 anni e vive a Misilmeri, non recrimina nulla. Eppure sarebbe stato normale che a prendere le redini del museo fosse stato lui. Ma la ruota del destino ha girato in un altro modo. Sucato in questi ultimi anni non è stato con le mani in mano. Anzi. Ha continuato a giocare con la memoria rielaborandola. Utilizzando per realizzare le sue opere oggetti in disuso che ricicla. E così chiodi, pezzi di ferro, arnesi del lavoro dei campi sono diventati sculture o quadri esposti nella sua bottega rimodernata grazie al lavoro del figlio Pablo con un nome di picassiana memoria. Alla rinfusa in un caleidoscopio di colori e forme fanno capolino le sculture che ritraggono pesci in alluminio e quadri definiti antropologici delle sue prime produzioni che analizzano e bloccano per sempre gli ambienti rurali di un tempo. In una ricerca che fissa su tela le pareti scrostate interne ed esterne e i tetti di un ambiente del secolo scorso dopo gli anni Cinquanta. E ancora le sculture a forma di sedia dedicate ad altri grandi artisti del passato. Una raccolta delle sue produzioni è stata esposta nei mesi scorsi. Sucato è un autodidatta. Che si innamorò da giovane delle opere di Pablo Picasso. Al grande artista spagnolo dice di essersi sempre ispirato. Poi lentamente le sue tele hanno lasciato spazio alla ricerca sulla materia e sull'analisi degli oggetti della civiltà contadina. Sucato elabora di continuo le sue ricerche che lo hanno portato negli anni a farlo conoscere anche attraverso una serie di mostre in tutta Italia. Una analisi che ha sempre condotto dalla provincia, quei luoghi definiti una volta hinterland, in una realtà difficile per chi come lui lavora senza chiedere mai nulla alle istituzioni. Non per snobbismo ma per un grande orgoglio che ne fa un artista a tutto tondo. D'antan. Durante alcuni periodi che lo hanno costretto a rimanere in casa Giusto ha realizzato tanti disegni a china che di recente sono stati esposti nella rassegna 'GraficaMente. "Giovanni, vieni a trovarmi, ho fatto belle cose, ti aspetto", è la periodica telefonata che ricevo. A casa sua davanti ad un piatto di spaghetti con la salsa di pomodoro, illustra nuovi progetti in cantiere e rammenta episodi passati: quando, ad esempio incontrava Renato Guttuso alla Vucciria dove per un periodo, Sucato, gestì un locale per la vendita di vino, sfuso. Oppure quando mi accompagnava a scattare fotografie per realizzare insieme 'Intermedia Art'. Ripensa poi a quei giorni del 1984 che lo videro protagonista del documentario sulle sue opere - girato insieme a Daniele Ciprì - che si può vedere su youtube. L'accensione dell'archivio della memoria scatta sempre dopo qualche secondo di silenzio interrotto dalla parole incastonate da un sorriso e dallo sguardo che fissa il vuoto: "Giovà ti ricordi". E a quel punto il palcoscenico è suo. Guai ad interromperlo. Ricomincerebbe a parlare dalla frase che ha lasciato a metà.

lunedì 19 maggio 2014

Il perché del foglio informativo del circolo Pd di Marineo


di Barbara Cangialosi
Che l’informazione sia un bisogno quasi primario è noto, ma che sia anche il primo passo per la partecipazione attiva e più consapevole nella società è ormai ampliamente dimostrato.
Per questo motivo, il Circolo Pd ha deciso di sperimentare diversi canali per potere dare informazioni utili ai concittadini marinesi e non. Negli ultimi mesi – oltre a dedicarci al tradizionale volantinaggio nelle bacheche – abbiamo infatti creato un blog del Circolo e abbiamo potenziato il nostro account Facebook, già attivo da qualche anno. L’impegno e la costanza sembrano averci premiato: il numero dei tesserati Pd a Marineo nel 2013 è cresciuto, le manifestazioni e assemblee sono state molto partecipate e sia le primarie nazionali che quelle regionali hanno avuto un grande successo. Ma l’informazione non è fatta solo per gli internauti e blogger, c’è ancora tanta gente che, per abitudine o comodità, al computer e le bacheche preferisce ancora la carta. Questo foglio è allora il nostro modo per non lasciare indietro nessuno, per informarvi, per dirvi da che parte stiamo e per invitarvi a partecipare. Voci in circolo

domenica 18 maggio 2014

Andare a caccia di conigli e cucucciuti senza fucile né cane o furetto


di Pippo Oddo
Una mia precedente riflessione si chiudeva con queste brevi considerazioni: «È passato da poco a miglior vita un altro villafratese che negli anni cinquanta andava a caccia di conigli senza fucile né cane, senza furetto. E non rincasava mai con il carniere vuoto, se carniere si poteva chiamare il panaru, panciuto contenitore di canne e bacchette d'oleastro da lui stesso intrecciate».
Male che gli andasse, nella bella stagione il Nostro rimediava sempre un saittunazzu di un rotulu (giovane coniglio selvatico dal peso di circa 800 grammi), tirato fuori dal nascondiglio, e qualche mamma di cuccuciuti (cappellaccia) catturata mentre covava le uova nel nido. Ignoro come facesse quell'uomo-cirneco a individuare le tane di coniglio; e mi è ancora più diffìcile immaginare la tecnica da lui usata per metter le grinfie sulla preda, considerato che quelle pavide bestiole amano tenersi a debita distanza dalla bocca del nascondiglio. Conosco invece quella per catturare le mamme di cucucciuti, avendola io stesso più volte sperimentata per gioco da bambino. I cucucciuti, si sa, nidificano sulla nuda terra, come tante altre specie passariformi. Individuatone il nido, è necessario nascondersi nei pressi, in attesa che vi si aggiucchi la mamma. Dopo qualche minuto, basta avviarsi verso il nido battendo forte i piedi per trovarvi mamma cucucciuta più che mai aggiuccata, il ciuffo abbassato, appiattita sulla covata per proteggerla dalla minaccia esterna. Con uno scatto misurato, catturala è, appunto, un gioco da bambini. Bambini di altri tempi, però, monelli di campagna espressi da un mondo dove giocare era anche un modo di allenarsi a sopravvivere. Ma, con i tempi che corrono, con tanti ragazzi senza lavoro e tanti lavoratori licenziati a causa della crisi economica pesantemente aggravata dal parassitismo tangentizio e mafioso, non è da escludere che ci sia presto bisogno di ritornare ai vecchi metodi di sopravvivenza. E siccome quasi nessuno riconosce più la cucucciuta, il minimo che posso fare è di presentarla alle nuove generazioni ma non senza raccomandare loro d’imparare l’arte per metterla da parte. Conosciuta in Sicilia come cucucciuta, la cappellaccia (Galerida cristata (LINNAEUS, 1758)) è un uccello gregario della famiglia degli Alaudidi presente in tutto il vecchio mondo, dall’Europa all’Africa, all’Asia. Leggermente più grande dell'allodola comune, si distingue da questa per il piumaggio più grigio e una cresta più grande che resta visibile anche quando è ripiegata. Ha un becco appuntito e con la parte inferiore piatta. La parte inferiore delle ali e rossiccia. Lunghezza: 17 cm. Apertura alare: da 29 a 34 cm. Peso: da 35 a 45 g. Il canto è melodioso ma monotono. La cappellaccia canta sia in volo che a terra con verso ripetitivo di 3 note con toni bassi e alti. Si nutre di semi e insetti, mentre i primi prevalgono nella stagione estiva i secondi permettono alla specie di superare la stagione fredda. Di solito resta nella stessa zona per tutto l'anno, nidifica tra aprile e giugno. Costruisce il nido in piena terra con 4 o 6 uova (22 x 17 mm), di colore variabile tra il giallo e il bianco rossiccio, macchiettato di grigio e giallo-marrone. Nidifica due o tre volte all'anno. La cova fatta sia dalla femmina che dal maschio, dura 12-13 giorni. I pulcini sono coperti da una lunga peluria giallo paglia. Dopo 10 giorni abbandonano il nido ma cominciano a volare solo dopo un’altra decina di giorni.

sabato 17 maggio 2014

Villa comunale della Variante: campa cavallo che l'erba cresce


di Angela Costa e Fabio Cangialosi (Pd)
Le previsioni del meteo ci aggiornano che presto arriverà definitivamente l'estate, e finalmente potremmo lasciare più spesso le mura domestiche per lunghe e salutari passeggiate. E i bimbi potranno finalmente beneficiare dei caldi raggi solari.
Ma a Marineo bisogna anche cercare il luogo adatto. Se fino allo scorso anno si aspettava con impazienza l'apertura estiva della villa comunale della Variante, unico polmone verde ed attrezzato all'interno del nostro comune, quest'anno non c'è neppure questo. Erano iniziati, a fatica, i tanto attesi lavori per dotare la villa di un impianto idrico, ma inspiegabilmente tutto è stato bloccato. Inutile ricordare che solo grazie ad un emendamento al bilancio della minoranza sono state finalmente stanziate le cifre per un progetto dell'amministrazione Ribaudo, non realizzato a seguito del becero ostruzionismo dell'allora opposizione in consiglio comunale. Speravamo che adesso le procedure avrebbero permesso di realizzare l'opera prima dell'arrivo della bella stagione; ci siamo dovuti arrendere all'evidenza. Questa estate dovremmo trovare un altro luogo dove portare i nostri piccoli durante gli assolati pomeriggi estivi. Intanto abbiamo presentato una interrogazione al Sindaco per capire cosa stia succedendo e perché tutto è stato fermato. Presto, forse, lo scopriremo e ve ne daremo notizia. E' proprio il caso di dirlo: campa cavallo che l'erba cresce.

venerdì 16 maggio 2014

Il 5 per mille, per dare un aiuto concreto al volontariato marinese


di MarineoSolidale Onlus
Il mese di maggio è da sempre dedicato alle dichiarazioni fiscali. Molti marinesi in questi giorni si rivolgono a studi di ragionieri e commercialisti a CAF e patronati per redigere i moduli 730, Unico e via discorrendo.
L’occasione di interagire con l’amministrazione tributaria consente oramai da tempo di incidere con la propria scelta su alcuni aspetti importanti riguardanti l’impegno sociale dell’individuo. Mi riferisco alla scelta dell’8 per mille e del 5 per mille. L’8 per mille nasce come facoltà data al contribuente di dirottare parte dell’Irpef pagata all’erario ai vari enti di culto o allo stesso Stato per particolari finalità culturali e di ricerca. Il 5 per mille, invece, consente di finanziare associazioni, movimenti, Ong che si occupano di svariati ambiti del volontariato, della cultura, dello sport etc. Nella nostra Marineo operano numerose realtà che possono essere beneficiarie di questa scelta. Dagli elenchi del 2013 risultano, infatti, essere accreditate diverse associazioni tra le quali anche Marineosolidale Onlus. Ogni contribuente può scegliere, dunque, la realtà più vicina alla propria sensibilità e dare questa opportunità di finanziamento ad uno di questi enti. Purtroppo dagli elenchi dell’Agenzia delle entrate risulta che poco più di un quarto dei contribuenti di Marineo compie una scelta in favore di associazioni locali; a questi si aggiunge una modesta schiera che opta per entità a diffusione nazionale (Airc, Emergency, Msf etc). Possiamo stimare che più della metà dei contribuenti marinesi non si pone il problema e “lascia fare” al Caf o Patronato. Sappiamo che è connaturale nella mentalità paesana il diffidare spesso delle aggregazioni locali e di essere più propensi e disponibili verso gli “estranei”. Riteniamo, però, che uno sforzo volto alla trasparenza possa aiutare il contribuente a dare fiducia alle realtà associative marinesi, questa risultato si otterrebbe fornendo precisi rendiconti sulla destinazione dei fondi ricevuti, sempre con notevole ritardo, dall’amministrazione fiscale. Noi di MarineoSolidale Onlus abbiamo pertanto predisposto annualmente il rendiconto di quanto fino ad oggi ottenuto e di come sono stati spesi questi fondi. Rimane sempre valido l’invito ad impegnarsi in prima persona nell’Associazione per rendersi conto “personalmente” delle attività poste in essere e per portare nuove idee e progettualità. Ulteriori notizie sul nostro sito. Vi attendiamo fiduciosi.

giovedì 15 maggio 2014

La situazione politica italiana, a pochi giorni dal voto per le europee


di Piazza Marineo
Checkpoint fa il punto della situazione politica italiana, a pochi giorni dal voto per le europee. Il deputato di Marineo Franco Ribaudo ospite di TgCom24. Video

mercoledì 14 maggio 2014

Fisco, in commissione Finanze la risoluzione Ribaudo su rimborsi fiscali


di Piazza Marineo
In commissione Finanze alla Camera è stata approvata all’unanimità la risoluzione n. 7-00282 a firma di Francesco Ribaudo (Pd) sulla revisione della norma della Legge di stabilità 2014 che prevede il preventivo controllo dell’Agenzia delle entrate sulle detrazioni IRPEF di importo superiore a 4 mila euro. 
“Il comma 586 dell’articolo 1 della legge n. 147 del 2013 – dice Ribaudo – prevede che i contribuenti che superano la soglia dei 4mila euro di rimborsi fiscali in presenza di carichi familiari, o di eccedenze derivanti dall’anno precedente, non possono ottenere il dovuto fino a che l’Agenzia delle entrate non ha effettuato un preventivo controllo. Posti i sei mesi di tempo in capo alle Entrate per effettuare i controlli non viene, però, stabilito un termine entro cui l’amministrazione finanziaria è tenuta a effettuare tali rimborsi. La risoluzione approvata in commissione Finanze stabilisce che entro i sei mesi l’Agenzia delle entrate potrà effettuare il controllo e comunicare al sostituto d’imposta di non procedere al rimborso, prevedendo che, in assenza della suddetta comunicazione da parte della stessa Agenzia, i sostituti d’imposta sono autorizzati a procedere alla restituzione delle somme. E’ ovvio che detta risoluzione non risolve in maniera definitiva la problematica, ma almeno per quest’anno abbiamo delle date certe (31 dicembre) entro le quali i cittadini potranno avere la restituzione delle detrazioni. La materia sarà affrontata in maniera completa in sede di attuazione della delega fiscale che prevede fra l’altro un riordino del sistema Caf e modello 730, con l’obiettivo di semplificare e migliorare il rapporto tra contribuente e fisco”.

lunedì 12 maggio 2014

Automobili, 2° Menzel El Emir Cup con quinta e settima prova a Marineo


di Piazza Marineo
Sono aperte le iscrizioni alla II edizione del Menzel El Emir Cup per auto storiche e moderne con prova di regolarità.
Il programma predisposto dall’Asd Misilmeri Racing prevede per sabato 31 maggio la consegna del Road Book ai partecipanti e la presentazione degli equipaggi, alle ore 20, in piazza Comitato, con il gruppo Majorettes “Città di Misilmeri”. La partenza della prima vettura sarà proprio da Piazza Comitato, dove è prevista una prova-spettacolo denominata “Emir by Night”. Domenica 1 giugno le diverse prove seguiranno una precisa collocazione territoriale. Misilmeri farà da sfondo per le prove 1,6 e 10; Bolognetta per la seconda e nona prova; Cefala Diana è interessata per le prove 3 ed 8; Godrano per la quarta; Marineo per la quinta e settima prova, in quest’ultima si assegnerà il Memorial “Gioacchino Pernice”. All’arrivo a Misilmeri seguirà premiazione al centro diurno presso l’ex convento San Giuseppe. Iscrizioni nel sito www.misilmeriracing.it, presso la sede dell’associazione di via Salvatore Traina n°16, o  contattare il presidente Giuseppe Bonanno al 3281146759.

venerdì 9 maggio 2014

Differenziata, sul sito del Comune di Marineo l'ecocalendario da seguire


di Angela Costa e Fabio Cangialosi (Pd)
Oggi, sul sito del Comune di Marineo, è stato pubblicato l'avviso sulle modalità di conferimento della differenziata e l'ecocalendario da seguire.
Come al solito abbiamo avuto conferma che le nostre parole servono da stimolo agli amministratori. Proprio ieri l'altro ci lamentavamo che l’amministrazione non aveva mai messo in atto alcuna strategia per incentivare la raccolta differenziata. Oggi l'avviso del funzionario. Speriamo sia il primo segnale di ripresa di un lavoro che, ci ripetiamo, sindaco e assessori dovrebbero seguire scrupolosamente. Considerata, quindi, l'importanza dei nostri articoli e visto che abbiamo trovato il modo per stimolare l'azione amministrativa, da oggi abbiamo deciso di incrementare i nostri comunicati stampa e cominceremo a descrivervi, con più costanza, quelle che sono o sono state le nostre azioni in consiglio. Appuntamento a domani con la mozione all'ordine del giorno del prossimo consiglio comunale: la riduzione dell'indennità di carica del sindaco.

mercoledì 7 maggio 2014

A Marineo anche la raccolta differenziata è in agonia: 36%


di Angela Costa e Fabio Cangialosi (Pd)
Ieri sul sito del Comune è stato pubblicato il report sulle percentuali di raccolta dei rifiuti del mese di aprile: la raccolta differenziata è scesa al 36%.
Aspettavamo già da qualche tempo di avere ulteriori conferme alla nostra tesi: a Marineo anche la raccolta differenziata “porta a porta” è in agonia. Sono bastati, infatti, solo 10 mesi per distruggere il lavoro coscienzioso e puntuale dell'amministrazione Ribaudo, dimenticando il grande sacrificio dei cittadini che si sono adoperati attentamente a differenziare, essendo orgogliosi di poterlo sbandierare fuori dal territorio marinese. Anche l'assessore dimissionario Cangialosi, nella sua arringa in Consiglio, ha sottolineato questa grave incapacità dell'amministrazione a mantenere una delle cose più importanti ricevute in eredità, additando peraltro l'assessore Spataro di non essersi interessato a promuovere questa forma di cultura. Negli ultimi mesi, poi, abbiamo assistito ad un graduale peggioramento della situazione igienico-ambientale e una costante e inesorabile diminuzione delle percentuali di differenziata che ci hanno avvicinato a paesi in cui purtroppo non esiste una cultura del riciclo. A questa escalation in negativo fa compagnia l’inserimento del nostro paese nell'elenco dei 41 comuni per i quali l'amministrazione regionale ha disposto il diniego dell'ultimo trasferimento di fondi. La Regione intende trattenere i soldi che questi Comuni avevano ricevuto in passato per raccolta differenziata ed opere pubbliche. Somme che ora non vengono confermate perché gli obiettivi sono stati falliti. Solo un anno fa avevamo raggiunto percentuali prossime al 70%, grazie ad interventi mirati nelle scuole, all'attento e costante lavoro di divulgazione nelle famiglie, ai periodici controlli che l'amministrazione comunale pretendeva venissero fatti nel territorio. Nulla di tutto ciò è stato fatto dall'attuale amministrazione; nessun progetto con le scuole, nessun intervento mirato anche solo a mantenere le percentuali raggiunte, nessuna azione degna di nota. Nessuna opera di controllo del territorio. Anzi! Una cosa l'hanno fatta: hanno aumentato i costi raddoppiando la tassa sui rifiuti a carico dei cittadini. Oggi, purtroppo, possiamo solo prendere atto che puntualmente le nostre preoccupazioni vengono confermate dai fatti e che il nostro timore di veder svanire tutto il lavoro fatto trova conferma ogni giorno di più.