sabato 25 aprile 2009

I fattori di declino della nostra cultura


Quello di Pasolini è un appello, rivolto agli intellettuali del suo tempo, da cui emerge la necessità di darsi da fare per consentire agli italiani una presa di coscienza delle proprie radici.
La sua, più che rassegnazione, è una denuncia, un invito ad operare per mettersi al riparo da una cultura omologata che mistifica l’uomo, portandolo addirittura a rinnegare il proprio passato, a buttare nella pattumiera gli oggetti della casa e del lavoro dei propri genitori, a vergognarsi del proprio dialetto.
I fattori del declino della cultura popolare sono stati individuati nell’impoverimento demografico delle campagne, che privò di forza lavoro i tradizionali processi di produzione, e nella concentrazione della popolazione nelle città, dove si registrò un notevole aumento degli addetti nel settore terziario e dei sottoccupati. Contadini, pastori, artigiani assorbiti dall’industria e dal terziario perdono, rifiutano, negano la loro cultura originaria. Gli attrezzi del lavoro contadino diventano simboli di una condizione di vita precaria, piena di privazioni, da dimenticare. Lo svuotamento dei paesi provoca un vuoto culturale anche nelle popolazioni non emigrate, dove molti processi di produzione tradizionali cessano di esistere.
A differenza di quanto era avvenuto nel resto d’Europa, dove c’era stata una lenta trasformazione economica, che aveva portato dei lenti cambiamenti anche a livello sociale e culturale, in Italia e in Sicilia, invece, tutto era avvenuto velocemente. A partire dagli anni cinquanta il mondo rurale fu investito da un’ondata di mutamenti causati dalla mancanza di manodopera, dall’introduzione delle macchine, dalla scomparsa del latifondo e dalla crisi delle attività economiche tradizionali che erano al servizio dell’agricoltura. A tutto ciò va aggiunta l’imposizione di una diversa cultura attraverso i mezzi di comunicazione di massa (televisione in primo luogo) che improvvisamente portarono nelle case nuovi modelli di vita.
«Quando un contadino, un artigiano, un pastore lascia il suo lavoro, il suo dialetto, i suoi ritmi di vita per svolgere delle mansioni a lui inconsuete, ecco, perde la sua identità e si carica di frustrazioni» (Buttitta). Forse vivrà una vita agiata in una bella casa in città, avrà abiti e macchine nuove, però il suo valore di uomo che è cresciuto in un certo mondo, in una data cultura, è completamente distrutto.
Un popolo non può vivere senza memoria, anche quando il passato è fatto di duro lavoro, di sacrifici, di rinunce. In ogni caso, il ricordo può essere la testimonianza di una condizione contadina da denunciare, da criticare, ma mai da dimenticare. Poiché chi non ha passato non può avere futuro: questa è la dura legge della cultura. Infatti, tutte le volte che i mezzi di comunicazione di massa vengono a contatto con una generazione senza identità, questa non esiterà un attimo a farsi catturare dalle mode e dalle superficialità del momento, rifiutando il proprio passato, visto solo come marchio di subalternità. «L’identità di un uomo non è fatta solo dei suoi caratteri fisici ma anche del suo modo di pensare, del suo modo di essere, dei suoi comportamenti: è la sommatoria di connotati fisici e culturali. Se si priva un uomo di questi ultimi gli si toglie la sua dignità umana» (Buttitta).

1 commento:

Ezio Spataro ha detto...

Quannu partivi pi lu continenti
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Quannu partivi pi lu continenti,
mi paria ca si putia campari senza nenti,
avia sulu lu me portafogghiu,
e mi sintia ca tuttu avia a filari lisciu comu l’ogghiu.
Nun sapia quannu avissi turnatu,
forsi a Santu Ciru, e m’avissi pigghiatu lu gelatu.

Nta lu continenti, di travagghiari è sempri l’ura,
li cristiani sempri currinu, e nuddu s’arrancura.
Passanu genti di tuttu lu munnu,
di tanti paisi ca si perdi lu cuntu.

A mia ca sugnu marinisi,
mi parsi cosa strana ncuntrari tutti sti cinisi,
annu occhi ca parinu addurmisciuti,
quannu mmeci su cristiani arrinisciuti,
filibustieri e travagghiatura,
inchinu li quarteri comu acqua nta la brivatura.

Ch’era bellu nta la me Sicilia grattarisi la panza,
nta lu continenti prima si duna culu e po si parti pi la vacanza.
Quannu veni lu sabatu e si trasi nta lu centru commerciali,
li genti di putia n’putia satarianu comu aceddi senz’ali,
e puru ca un c’è nenti d’accattari,
nunn’è persa la nisciuta, c’è sempri cocchi cosa di taliari.

(Ezio Spataro – primavera 2008)