sabato 2 agosto 2014

La storia del pane e la terra di Cerere: primo contributo per un convegno


di Pippo Oddo
«Il pane – spiegava Giuseppe Pitrè – è la grazia di Dio per eccellenza e non si posa né presenta mai sottosopra, che è malaugurio, né si taglia da quel lato (sôlu), che è disprezzo alla Provvidenza di Dio che ce lo manda, né si segna o s’infilza col coltello, che è ferro e quindi maledetto, ma si taglia senz’altro, e quando si ha da infilzare dentro il coltello si protesta che è grazia di Diu». 
«Se mangiando ne cascano per terra delle briciole e non si ha cura di raccattarle, si dovranno poi raccattare con le ciglia, morti che saremo. E come grazia di Dio, si giura su di esso toccandolo: Pi sta grazia di Diu! E se ne vediamo cadere o buttare un bocconcino per terra, che non si voglia o non si possa altrimenti mangiare, ci affrettiamo a raccoglierlo e a conservarlo in un bucolino pur di non farlo calpestare con i piedi. Il Signore potrebbe farci desiderare quel boccone di pane». La sacralità del pane non nasce nell’era cristiana: affonda le radici nell’alba delle civiltà sorte nel bacino del Mediterraneo dopo l’invenzione dell’agricoltura (circa 9.000 anni prima dell’era cristiana). Se Plinio il Vecchio, scrittore latino vissuto nel I secolo d. C., sosteneva che «Cerere trovò il frumento, mentre prima si viveva di ghiande» e che precedentemente la stessa dea aveva insegnato a «macinare e fare il pane in Attica e in Sicilia» assurgendo così al rango divino, va da sé che ancor prima che a Roma il pane era ritenuto un alimento sacro nella Magna Grecia. Rimane tuttavia da capire quale sia stata la terra d’origine del grano. Il vescovo e scrittore greco Eusebio di Cesarea la identificò con la Valle dell’Eufrate, altri con quella del Giordano, Strabone con l’India, Tibaud De Bernard con l’Etiopia, da dove sarebbe passato in Egitto. Diodoro Siculo sosteneva che il grano primordiale dal quale è stata addomesticata la pianticella che nutre l’umanità cresceva spontaneo in Sicilia. Bisogna dunque prendere atto con Henri Fabre che la storia «celebra i campi di battaglia […]; sa i nomi dei bastardi dei re, ma non può dirci l’origine del pane». È comunque documentato che tutti i popoli mediterranei conoscevano il grano fin dagli inizi della loro storia, anche se cominciarono a panificare in tempi diversi. L’impasto del pane, a voler credere alla leggenda, pare che sia nato in Egitto intorno al 3500 a C, in seguito allo straripamento del Nilo, che bagnò le scorte di farina conservate nei magazzini reali. Un’altra leggenda vuole che anche il lievito sia nato nella terra dei faraoni: «una domestica egizia, per far dispetto alla padrona, avrebbe gettato nella pasta del pane il residuo della preparazione della birra, la quale provocò la fermentazione dell’impasto». Certo è che ad un determinato momento gli antichi egizi si accorsero che la pasta lievitata non poteva essere cotta al fuoco vivo dei carboni, come avevano fatto per secoli con la stiacciata (simile per forma e contenuto alla piadina romagnola). «Si dotarono perciò di costruzioni cilindriche che si restringevano in alto a forma di corno», racconta lo studioso tedesco Heinrich Edward Jacob (1889 – 1967). «Una tramezza ne divideva l’interno. La parte inferiore aveva un’apertura più larga per le forme di pane e per l’espulsione del gas. Quando stavano per fare l’infornata, essi toglievano la pasta inacidita dal suo recipiente, la salavano, la manipolavano ancora una volta. Poi cospargevano di crusca il recipiente per la cottura, così che la pasta non lo toccasse. Distribuivano la pasta in fermentazione con una paletta, spingevano il recipiente nel forno, chiudevano lo sportello. Familiari ed amici stavano intorno a guardare». Fu dunque nell’antico Egitto che il lievito, simbolo di crescita e di elevazione spirituale, s’incontrò per la prima volta con il forno «che è insieme utero e vagina, colore e luce», spazio magico del passaggio dal crudo al cotto, dall’impasto acido all’alimento saporito. Ciò avvenne nel segno del pane, sole in miniatura che da millenni illumina il rischioso sentiero che si snoda tra la vita e la morte nell’orizzonte mediterraneo. Ciò fosse stato ancora poco, anche il setaccio per separare la farina dalla crusca e i primi rudimentali mulini in pietra furono inventati in Egitto. Bisognava aspettare che dalla terra dei faraoni la civiltà del pane si diffondesse nel resto del Mediterraneo per vedere sorgere i primi mulini idraulici e successivamente quelli al vento, ad opera dei popoli nordici sottomessi dai romani. È appena il caso di aggiungere che se i greci fecero del provvidenziale alimento un segno forte, quasi marca di riconoscimento della loro identità culturale da contrapporre ai “barbari” che non mangiavano ancora il pane, gli imperatori romani lo usarono come strumento di dominio sui popoli assoggettati e ammortizzatore sociale per la plebe affamata dell’Urbis che reclamava periodicamente panem et circenses, pane e spettacoli al Circo Massimo. Ma se lo potevano permettere, tenuto conto della quantità di grano che affluiva a Roma dall’Egitto, dalla Spagna e dalla Sicilia, allora considerata terra prediletta di Cerere, dea delle messi e del pane. Ad assegnare all’Isola questo blasone ha contribuito decisamente il V libro delle Metamorfosi di Ovidio, che rilancia il mito greco del ratto di Persefone, figlia di Demetra e di Zeus, da parte di Ade, dio degli abissi. Nel racconto ovidiano la fanciulla, rapita in riva al lago di Pergusa (Enna) mentre raccoglieva «bianchi gigli e viole», diventa Proserpina, Demetra Cerere, Ade Plutone. Ma la sostanza non cambia: la fanciulla viene trascinata dal focoso rapitore nelle profondità del Tartaro, Cerere cerca disperatamente la figlia. Delusa dagli uomini, distrugge i campi di grano. Giove ristabilisce l’ordine sentenziando che Proserpina rimanga per metà dell’anno con il marito negli abissi e per il resto con la madre sulla terra. È evidente l’allusione alla vicenda sotterranea del chicco di grano affidato alle cure della Madre Terra, che (come avviene in tutte le cosmogonie e si legge nel Vangelo di San Giovanni) se non muore non rinasce a nuova vita. Per farsi un’idea del radicamento del culto di Cerere in Sicilia basti pensare che all’indomani della colonizzazione greca la gerarchia sacerdotale siciliana contestava la supremazia del Tempio di Eleusi (il simbolo più alto del paganesimo) asserendo che «era in Sicilia che l’uomo aveva ricevuto il dono del grano e che fu ad Enna che Plutone rapì Proserpina». La popolarità della dea del pane era un omaggio alla Madre Terra, ma anche alla fertilità dei suoli siciliani, che farà poi scrivere a Goethe: «Ci saremmo augurati il carro alato di Trittolemo per sottrarci a tanta monotonia» di campi coltivati a cerali. E il paesaggio cerealicolo continuò a caratterizzare a lungo la Sicilia interna per le note vicende del latifondo e degli arcaici sistemi produttivi destinati ad uscire di scena solo dopo l’entrata in vigore delle leggi di riforma agraria del 1950. Nel frattempo da granaio d’Europa la Sicilia era divenuta importatrice di grano. E aveva conosciuto scioperi, carestie, sommosse, tumulti popolari, frotte di disperati della campagna accorsi in città ad elemosinare il pane nei conventi, scene risibili come quelle che si videro nella primavera del 1647: «L’arcivescovo di Palermo ordinò a tutti i cittadini, sotto pena di multa, di far penitenza. Incoronati di spine e portando dei teschi, straziandosi con catene di ferro, i cittadini passavano le giornate in continue processioni. Un osservatore vide uomini nudi, e per giunta nobili, che tiravano l’aratro bardati come animali, facendo finta di mangiare cesti di paglia, e mostrando altri “miserabili segni di penitenza”; e la principessa di Trabia diede graziosamente ristoro nella sua casa ad una processione di prostitute». Alimento e segno, forma e sussistenza, allegoria della vita, il pane seguitò a scarseggiare ancora per diversi secoli persino nelle case dei contadini che lo producevano. Ma nemmeno i ceti umili urbani potevano ritenersi al riparo dalle carestie. La fame assumeva connotati preoccupanti soprattutto in occasione delle male annate e delle emergenze belliche. A Palermo il 19 ottobre 1944 scoppiò una sommossa popolare destinata a passare alla storia come «rivolta nel pane», repressa dall’esercito: 30 morti e 149 feriti. Ma oramai anche di questi fatti e misfatti si è persa quasi la memoria. La terra di Cerere rischia di diventare come il deserto africano.